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Autore: TwinStar    17/02/2006    21 recensioni
C'è Bellatrix, la sorella maggiore, nobile e fiera come la bella guerriera che dà il nome alla sua stella.
Narcissa, la minore, delicata ed eterea come il fiore che cresce agli argini dei fiumi.
E poi ci sono io, Andromeda Black, sorella di mezzo senza qualità.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Andromeda Black, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ringraziamenti doverosi di inizio fan fiction: Innanzitutto a tutti, e intendo dire proprio tutti coloro che hanno commentato finora le mie storie; a chi commenterà questa, positivamente o negativamente non importa, basterà che la critica sia motivata; a chi a causa della mia insicurezza cronica è costretto a darmi sempre rassicurazioni; alla Rowling per aver creato Harry Potter; alle fic writerper aver in molti casi MIGLIORATO Harry Potter; a Sirius e Remus per essere sempre così carini insieme (anche se in questa fic non c'entrano niente! XD); al sole; al mare; ai begli uomini palestrati che d'estate girano a petto nudo.
A chi ha il coraggio di fuggire, perchè non sempre è la scelta più facile...
Buona lettura dalla vostra
Twinstar




CANICOLA

 

Canicola: dal latino canicula, diminutivo di canis, “cane”. Antico nome della stella Sirio, della costellazione del Cane maggiore, che tra il 24 e il 26 agosto sorge assieme al sole dopo 70 giorni al di sotto della linea dell’orizzonte, annunciando il periodo più caldo dell’anno. Per estensione è sinonimo di gran caldo.

 

 

***

 

 

Come fa una giornata ad essere così lunga?

E così calda, afosa, pesante, vischiosa? E’ sera ma la stanza è soffocante, l’aria stessa irradia l’afa tremenda del soleggiato pomeriggio d’agosto come se le pareti ne fossero impregnate, nonostante nella stanza le tende siano state sempre tirate. Perché a Grimmauld Place la luce del sole non entra quasi mai, perchè tenere le finestre aperte di modo tale che tutti possano guardare cosa succede in casa non è rispettabile.

Io non so nemmeno che significa esattamente rispettabile, è una parola che dice sempre la mamma, ma non deve essere una bella cosa se mi fa sudare tanto. Vorrei chiederglielo prima o poi ma mi risponderebbe che non ha importanza cosa significa, devo esserlo e basta perché sono una Black e ce l’ho nel sangue.

Ma io non capisco.

Uno sbadiglio.

Seduta al bel tavolo massiccio chino lo sguardo specchiandomi nel ripiano scuro e lucido e per un attimo penso a come deve essere bella la sensazione del legno fresco sulla pelle bollente delle braccia nude e sulle guance rosse. Ma non posso di certo lasciarci sopra aloni di sudore, è un tavolo antico e prezioso. Come tutto qua dentro, del resto. Mi hanno detto che una sola delle maniglie di questa casa vale più della mia vita. Vorrei dire che trovo assurdo questo ragionamento perché non si può paragonare un oggetto a una persona, ma sono solo una bambina, e neanche una molto sveglia. Lo dicono gli adulti.

Per cui sarà vero.

Uno sbuffo.

Poggio la schiena contro la sedia che scricchiola sotto il mio peso. Spero di non romperla. Incrocio le braccia all’altezza del petto, la testa piegata di lato con aria assorta. Un ricciolo capriccioso sfuggito a quella assurda, elaborata costruzione di fiocchetti e fermagli che ho in testa mi dondola davanti alle ciglia ma non faccio niente per toglierlo, a malapena me ne accorgo.

Vorrei andare alla finestra. Tirare le tende, aprire i vetri e lasciare che l’aria fresca della notte entri nella stanza togliendo questa soffocante e insopportabile cappa estiva, per trovare un po’ di sollievo. Vorrei anche aprire la porta, lasciar entrare un po’ di corrente dal corridoio e approfittarne per andare a fare la pipì, o a prendere qualcosa da bere, o a cercare la mamma, anche se ci sono i mostri là fuori: li sento borbottare, imprecare nel buio.

Prima hanno gridato, mi fanno paura.

Non voglio essere presa dai mostri e non voglio farmi sgridare per essere uscita dalla stanza quando mi è stato detto di non farlo, così rimango ferma immobile al mio posto, faccio la brava come vogliono i grandi anche se non ne ho voglia e sono stanca e sto sudando e mi annoio. Permetto solo alla mente di disobbedire alla mamma, perché quella è solo mia e nessuno può entrarci dentro: chiudo gli occhi e penso a come sarebbe bello sdraiarsi per terra, sollevare fino a metà coscia le sottane celesti tutte pieghe e svolazzi e sentire il pavimento fresco sotto le gambe nude. Nella fantasia non ho paura di cosa penserebbe (o farebbe) la mamma se mi vedesse a mostrare le mutandine a quel modo.

Il problema è che funziona solo dentro la testa: fuori ho sempre la schiena appiccicosa, la fronte sudata e ho gli occhi asciutti e brucianti. Vorrei non stare qui dentro ma sono una piccola fifona. E pigra, e sciocca. Mi vergogno.

Un sospiro.

Un sospiro di troppo, forse.

Dalla poltrona situata nell’angolo opposto della stanza mia sorella maggiore solleva lo sguardo dal libro che sta leggendo, quello di Arti Oscure che ha trafugato dalla libreria dello zio, e mi scocca un’occhiataccia: odia qualsiasi tipo di lamentela o piagnisteo perché li considera manifestazioni di debolezza. Lei odia la debolezza perché è forte. E visto che io sono debole a volte ho l’impressione che odi anche me.

I begli occhi neri come mirtilli avvampano d’ira seminascosti dalle ciglia folte e ricurve, e le sopracciglia scure che li sormontano, sottili e ben delineate, sono piegate leggermente all’insù, conferendole un’aria naturalmente accigliata; il tipo di sguardo che mi fa desiderare di essere muta, morta, di far parte di un altro universo. O di un’altra famiglia.

“Perdonami, Bella…”, pigolo in mia difesa. “Ho caldo.”

Senza neanche degnare di una risposta il mio patetico tentativo di difendermi sbuffa, infastidita, e scuote la testa bruna prima di tornare alla sua occupazione. Bellatrix non ha caldo, ma anche se ce l’avesse non lo darebbe certo a vedere, perché lei è un vera signora proprio come la mamma, anche se ha solo due anni più di me.

Come fa a starsene seduta tutta composta da ore con quel vecchio libro noioso in mano senza togliersi dalla faccia quell’aria di distratta eleganza che sembra contraddistinguere tutti in famiglia a parte me? E come riesce a non sentire il caldo avvolta in quella veste pomposa di organza nera tutto pieghe e drappeggi, con il lungo scialle di raso color ciliegia annodato elegantemente sulle spalle? O a non sudare con quella lunga, lucida chioma color dell’inchiostro che le scende in morbide onde fino alla vita?

E’ bella ed elegante con una dolce naturalezza che riempie d’orgoglio la mamma e d’invidia la sottoscritta. Nella mia infantile ingenuità di piccolo e goffo anatroccolo lasciato nella sua ombra ho sempre pensato che Salazar o chi per lui fosse stato davvero molto ingiusto a donare a lei tutta la classe e a non lasciarne neanche un goccio a me.

Invece ne era rimasta più che in abbondanza per la piccola Narcissa.

La bimba bionda che giocherella ai miei piedi sdraiata di pancia sul bel tappeto di licantropo dello zio, la mia adorabile sorellina minore: una creatura fragile e snella come un uccello, delicata come il fiore di cui porta il nome. Tira le labbra sottili in un sorriso dolce e mi fissa con quegli occhi azzurri troppo grandi che danno al suo viso disadorno un’aria timida, quasi sgomenta; si tiene il mento appuntito tra le manine paffute e agita i piedi nelle scarpine lucide facendo frusciare le sottane di raso al ritmo della canzone che sta canticchiando (una nenia che le canta sempre la mamma), la voce limpida come un tintinnio di campanelli. V’è nel suo modo di fare una tranquilla e commovente dignità, che non si attribuirebbe mai ad una bimba di cinque anni.

Un sorriso.

Narcissa è il mio tesoro: non piange né si lamenta mai e riesce a sembrare carina e a suo agio anche con quell’orrida acconciatura a coda di cavallo che le costringe la chioma lasciandole il viso disadorno e accentuandone la forma triangolare, e con quell’orribile, pomposo vestito bianco tutto pizzi e trine che la fa sembrare una grossa gelatina Tuttigusti+1 al latte più che una bambina.

“Tra un po’ vengono a prenderci, dai…”, mi dice gentile prima di tornare a canticchiare tra sé e sé, e mentre Bellatrix soffoca una risata io vorrei sprofondare dall’imbarazzo.

Sono più grande eppure è lei a dovermi consolare.

Non ha neanche paura dei mostri là fuori.

Che vergogna…

 

 

***

 

 

Mi suda il sedere.

Tutta colpa di questa stupida imbottitura di velluto della sedia e di questo orrendo, opprimente vestito che mia madre ha insistito per farmi mettere nonostante dovessimo andare a casa della zia, dove siamo già state un milione di volte, e non al ballo delle debuttanti. E’ celeste, come se non bastasse. Io odio il celeste, e non m’importa se s’intona coi miei capelli o quanto mi faccia risaltare meravigliosamente l’incarnato. Odio il celeste e odio questo vestito.

I mostri nel corridoio odiano le bimbe coi vestiti celesti.

Mi suda il sedere e mi annoio.

Faccio leva con le mani sui bordi della sedia e agito i piedi nell’aria in segno d’impazienza. Questa è la stanza dei giochi dello zio, ma non c’è niente di divertente in giro, come fa a passarci tanto tempo, che fa tutto il giorno qua dentro? Ho esplorato ogni centimetro della stanza e ho trovato solo qualche libro difficile nella libreria vicino alla finestra e un sacco di oggetti impolverati dall’aria fragile che ci è stato proibito di toccare… C’era anche una bella bottiglia piena di tè nascosta sotto la scrivania, ma doveva essere lì da parecchio perché aveva un odore strano e l’ho rimessa al suo posto. Secondo me gli adulti sono sempre così incavolati perché i loro giochi sono noiosi. Anche Bellatrix è sempre imbronciata, infatti non gioca mai con noi. Con la coda dell’occhio la vedo coprirsi la bocca con la mano sottile in un gesto elegante e appena accennato.

Uno sbadiglio.

Allora anche lei è umana.

Mi suda il sedere, mi annoio e ho fame.

Del resto l’ora di cena è passata da un pezzo. Secondo la mamma una signora non deve mai far vedere che ha fame, e lo capisco, ha ragione, e vorrei tanto obbedire, ma come si fa a spiegarlo alla pancia? Il mio stomaco si lamenta, brontola, geme e fa tutta un’altra serie di rumori poco rispettabili. Io tento di dissimulare l’imbarazzo, ma è difficile quando tua sorella minore ti fissa scandalizzata; la bocca sottile contorta in una grottesca forma a “O”, gli occhi sgranati, le guance tinte di rosa in un’espressione di muto stupore. La massima manifestazione di sbigottimento per lei che non ha eccessi d’alcun tipo, neppure nel gioco. Mi vergogno tanto, non riesco a trattenermi. Non è colpa mia, non so come fare, nessuno ha insegnato alla mia pancia a non parlare quando non si è interrogati come hanno fatto con me e le mie sorelle.

La porta si apre con un acuto cigolio e tutte e tre ci voltiamo in direzione dell’uscio, dal quale sta entrando il giovane elfo domestico di famiglia che porta la nostra cena. Dovrei chiedermi come mai non ci lasciano mangiare in sala come al solito, se allo zio non dispiacerà farci cenare nel suo studio, oppure dove sono i nostri genitori, ma mi sta venendo l’acquolina al solo pensiero di mettere qualcosa sotto i denti.

Un sbuffo.

Mia sorella maggiore non dice una parola, ma è ovvio che anche lei aveva una gran fame e che sta accogliendo l’arrivo del cibo con una gioia tale che dimentica persino di manifestare il suo scontento per l’arrivo del giovane Kreacher. Bellatrix lo odia perché non sopporta l’incapacità, in special modo negli elfi domestici e secondo lei Kreacher ha cominciato a prendersi troppe libertà perché la zia è troppo buona e non è stata in grado di educarlo a dovere.

Secondo lei il mondo è pieno di persone troppo buone.

Bellatrix rimane al suo posto.

Narcissa salta in piedi contenta e si va subito a sedere a tavola.

Io invece resto a fissare quella creaturina che arranca a fatica in direzione del tavolo con quel vassoio enorme contenente le nostre cene: tre bei piatti di zuppa calda, pane, una bottiglia d’acqua fresca, tre bei bicchieroni di succo di zucca e un dolce dall’aspetto appetitoso, e ha tutto un’aria tremendamente deliziosa. E’ decisamente troppo per lui, non ce la farà mai da solo. So che non si dovrebbe dare confidenza agli elfi domestici perché sono inferiori, ma a dare una mano non farei nulla di male, no? Mamma dice che una signora rispettabile deve essere sempre gentile e cordiale con tutti.

Tutti comprende anche Kreacher, così mi alzo in piedi e corro nella sua direzione. Mi fermo davanti a lui e gentilmente metto le mani sul bordo del vassoio, sgravandolo di un po’ di quel fardello. E’ veramente pesante, come ha fatto finora a trascinarlo tutto da solo?

“Lascia che t’aiuti, Kreacher.”, sorrido, ma vengo ricompensata da uno sguardo di puro disprezzo, simile a quello con cui lo fissano di solito gli adulti. Le sopracciglia si aggrottano fino a ridurre gli occhietti acquosi a due fessure, labbra si piegano ancora di più verso il basso, tirandosi dietro il naso arcuato, lasciando scoperchiati i dentacci gialli in una smorfia disgustata. Ricorda un sacco la nonna.

Mi scosta le mani dal vassoio con un gesto infastidito e continua a camminare con passo incerto verso il tavolo, che si è già premurato d’imbandire lussuosamente con un rapido gesto delle dita mentre io non guardavo.

“La signorina Andromeda non dovrebbe dare tanta confidenza agli elfi domestici…”, borbotta con quel tono di servilismo che sa di fasullo. Mi dà l’idea che non mi ritenga degna nemmeno di leccargli le scarpe. “Forse la signorina dovrebbe chiedere alla signora madre di insegnarle ciò che si conviene con una buona dose di frustate…”

Mortificata come sono non riesco nemmeno a scusarmi. Non capisco perché mi ha risposto così, io volevo solo essere gentile… Sono davvero lenta di comprendonio come dice sempre la mamma…

Un sospiro.

Alle mie spalle.

“Sarai tu a ricevere la tua dose di frustate educative se continuerai a rivolgerti in questo modo ai membri della famiglia, piccola patetica creatura.”

E’ Bellatrix a prendere le mie difese, in maniera del tutto inaspettata, con voce calma e perentoria così simile a quella della mamma, lo sguardo collerico, quasi demoniaco, e io capisco che forse Kreacher se l’è presa con me e col mio gesto perché gli piace essere trattato in tutt’altro modo, dal momento che alle parole offensive di mia sorella risponde con un inchino servile e profondendosi in mille scuse prima di finire di sistemare la tavola in tutta fretta e di defilarsi talmente rapido che sembra smaterializzarsi.

In silenzio mi sbrigo ad andare da Narcissa per aiutarla a legarsi il tovagliolo attorno al collo di modo tale che non si sporchi, mentre mia sorella minore se la ride tutta contenta e fa i complimenti a Bellatrix, che nel frattempo ha posato il libro sulla poltrona e s’è seduta a tavola senza ricambiare quell’allegria. Narcissa è molto dolce, nella sua ingenuità è felice che il mio onore sia stato difeso da mia sorella e che quell’elfo domestico antipatico abbia avuto il fatto suo. E’ ancora così giovane ed innocente, del resto, e non capisce che è mortificante per noi farsi aiutare, anche se da un membro della famiglia.

Mi siedo a tavola a capo chino, le guance rosse.

Bellatrix è furiosa. Con Kreacher e anche con me. Lo so.

Non riesco nemmeno a ringraziarla anche se vorrei, perché so che non ha difeso me, ma l’onore di famiglia che un essere inferiore stava mettendo in discussione col suo comportamento indisponente. Ormai ho otto anni e sarebbe ora di cominciare a vedermela da sola per piccolezze di questo tipo, me lo dicono sempre tutti. Ma sono fatta tutta sbagliata, non ci riesco. Lancio uno sguardo timoroso verso Bellatrix e noto con stupore che anche lei mi sta guardando, mentre mangia la sua zuppa.

Un sorriso.

Dolce, gentile, affabile.

“Se ti fai mettere i piedi in testa persino dagli elfi domestici farai poca strada, Medina…”, mi dice con affetto, e io mi limito ad annuire mentre maschero il groppo che ho in gola con una cucchiaiata abbondante di cibo. Mi ha parlato come si fa a una stupida, una ritardata o, peggio, come a una persona che senti non avere nessuna possibilità di soddisfare le tue aspettative. Fa’ male, avrei preferito che mi sgridasse, che mi insultasse o che mi frustasse come suggeriva prima Kreacher.

E’ esigente di solito, Bellatrix; con me, con noi, molto, forse più di nostra madre, ma non ci chiede di sforzarci per migliorare più di quanto non faccia lei stessa per cui non la si può biasimare e non le si può dare della cattiva. Vuole solo che ci impegniamo come lei per diventare delle vere Black, che abbiamo la vita felice che sognano tutte le ragazze, me per prima. Di solito mi avrebbe fatto una ramanzina chilometrica per farmi mettere giudizio. Ora quella dolcezza mi dice che ha perso ogni speranza con la sottoscritta.

Mia sorella si è arresa.

Non è giusto…

Ci provo ad essere una persona migliore.

Ma non è abbastanza. Non è mai abbastanza…

 

 

***

 

 

La cosa peggiore non è quando non puoi uscire da una stanza perché sei in castigo, ma quando non puoi uscire anche se non sei in castigo. Però c’è anche la possibilità che adesso siamo in castigo tutte e tre e io non lo sappia, come quella volta in cui dopo aver fatto a botte con Bellatrix (lo facevamo spesso quando eravamo più piccole) mi ero rifugiata in camera per farmi sgonfiare di nascosto dalla nostra elfa domestica l’occhio nero che mi aveva fatto mia sorella prima che mi vedessero i miei, e poi ero rimasta lì tutto il giorno a sbollire la rabbia: solo quando a sera era venuta la mamma a dirmi che ora se ero pentita di averle fatto male potevo scendere a cenare mi ero resa conto di essere stata in punizione l’intero pomeriggio.

Chissà che ore sono.

Considerando che persino Bella s’è stancata di star ferma a leggere e s’è messa a guardare fuori dalla finestra direi che ci aggiriamo intorno alle tre di mercoledì prossimo. Lancio un’occhiata a mia sorella: chinata un po’ in avanti, i gomiti poggiati sul cornicione, il viso tra le mani, contempla pigramente il cielo notturno.

Non ci sono stelle, o quasi. Come sempre, in città.

Colpa di tutte quelle stupide luci babbane, secondo lei. Ama quella notte che i Babbani profanano in maniera vergognosa e a suo avviso qualcuno dovrebbe lanciare un bell’incantesimo per spegnere tutto di modo che il buio torni ad essere tale: lo farebbe davvero se avesse l’età per possedere una bacchetta. Io vorrei dirle che è un ragionamento un po’ egoistico, il suo; è da pazzi anche solo pensare di lasciare l’intera città allo scuro perché lei possa intravedere la sua adorata costellazione di Orione, ma dal modo in cui batte per terra la punta della scarpa capisco che non è il caso di lasciasi scappare un fiato.

Meglio lasciarla in pace, ci tengo alla vita.

Per il momento è tranquilla, s’è accontentata di spegnere le candele lasciando la stanza quasi al buio. Le luci esterne proiettano ombre lunghe e nere, che invece di spaventarmi mi rilassano. La stanza è più fresca, si sta bene ora, se l’avessi saputo avrei chiesto prima a Bella di farlo. Anche i mostri del corridoio hanno smesso di lamentarsi da un po’.

Uno sbadiglio.

“I morti non si annoiano, Cissy…”, mormora Bellatrix con tono monocorde, come fosse persa nel suo mondo, senza voltarsi.

Uno sbuffo.

Narcissa sdraiata sul solito tappeto aggrotta le sopracciglia sottili e volta appena la testa in direzione della finestra e, non vista, tira fuori la lingua e fa una smorfia solo accennata alla figura di spalle di nostra sorella per poi tornare a fissare il soffitto con sguardo vitreo, perché i morti non si muovono e di sicuro non rispondono al sarcasmo delle sorelle maggiori. E’ il suo gioco preferito fingere di essere morta, di solito lo fa quando viene punita, per passare il tempo in camera: non ho mai capito cosa ci trovi di tanto divertente nello stendersi di schiena da qualche parte e a stare immobile. Sinceramente, mi preoccupa un po’. A mamma non dispiace che si diverta così perché almeno sta’ tranquilla invece di correre da tutte le parti come facevo io alla sua età.

Resto immobile a sentire rumori che possono appartenere solo al buio, perché alla luce del sole o di una candela non ci si fa’ mai caso. Il battito leggero del mio cuore, il respiro leggero di Narcissa, il ticchettio della scarpa di Bellatrix sul pavimento di legno, i familiari scricchiolii della vecchia casa degli zii.

Poi… Passi lungo il corridoio.

Colpi brevi, leggeri alla porta. Silenzio.

Improvvisamente quel buio confortevole è diventato spaventoso e il primo pensiero è che i mostri nel corridoio hanno taciuto solo per farmi tranquillizzare ma che in realtà non se ne sono mai andati e ora, protetti dalle tenebre, mangeranno me e le mie ignare sorelle come biscotti.

Combatto l’impulso di correre a proteggere la piccola Narcissa abbracciandola con forza perché lei non gradirebbe. La mia povera sorellina odia ogni forma di contatto fisico non necessario e non imposto dalla rigida etichetta di famiglia. L’abbraccerei solo per una squallida ed illusoria sicurezza personale, sarei io a cercare protezione da mia sorella minore, il che sarebbe vergognoso. Diventerei ufficialmente la barzelletta di casa.

Anche perché i miei timori sono ridicoli.

E’ stupido, è stupido.

I mostri dei corridoi non esistono, sono solo le fantasie di una bambina fifona e tarda, è stupido averne paura, e anche le bambine che parlano di mostri sono stupide. Perché a noi Black è permesso avere paura, basta non darlo a vedere. Un cigolio. La porta si sta aprendo. Mi copro gli occhi con le mani e chino la testa, tremando.

Non sono i mostri, è immaginazione.

Però l’immaginazione è una forza potente, Bellatrix una volta mi ha raccontato la storia di una bambina che faceva diventare veri i suoi incubi, forse anche io sono così, forse i mostri dei corridoi non esistevano e li ho creati io.

No, è stupido…

Stupido! Stupido!

Poi le luci si accendono, lo so perché anche se ho gli occhi chiusi sento il calore delle fiamme sulle guance e il naso, e il suono di una voce fin conosciuta mi dà il coraggio di sollevare un po’ la testa. Narcissa è rimasta stesa sul tappeto, a fissare con sguardo assente i granelli di polvere che le danzano davanti agli occhi. Del resto i morti non si muovono. Bellatrix continua a darmi le spalle e a fissare il cielo con un’estasi disincantata.

E davanti a me il volto sereno e sorridente di mio padre.

“… Papà…”, sussurro, e ricaccio dentro il groppo che ho in gola e le lacrime che mi fanno pizzicare gli occhi. Ho avuto paura del mio papà, ora sì che mi sento una cretina.

Salto giù dalla sedia rovesciandola a terra con discreto fragore e corro tutta felice verso quell’uomo alto e bello che tende le braccia davanti a me. E’ un abbraccio veloce, impacciato, quasi uno scontro di petto che si conclude con la tradizionale pacca sulle spalle di due amici di vecchia data che si incontrano casualmente in un pub. Fa un po’ male, fa sempre male perché mi dà l’idea di essere rifiutata, che il mio papà si vergogni di me, ma so che è giusto che faccia così: la mamma dice sempre che non devo abituarmi ad insulse affettuosità se no mi rammollisco.

Mi separo da lui e mi metto al suo fianco, fissandogli la mano e mi sento avvampare le guance dalla vergogna quando vengo assalita dall’impulso quasi doloroso di stringergliela. E’ una ridicola debolezza che non posso permettermi. Non è un comportamento rispettabile.

Per fortuna papà non se ne accorge mai.

“Certo che fa caldo qui dentro…”, mormora sbuffando e facendosi aria con una mano. “Kreacher non ha rinfrescato un po’ la stanza quand’è venuto a portarvi la cena?” L’espressione delle nostre facce è così esplicativa che preferisce saggiamente cambiare argomento.

“Perché stavate al buio?”, domanda con innocente curiosità.

Narcissa si stringe nelle spalle.

I morti non rispondono.

Bellatrix piroetta elegantemente nella nostra direzione. “Ma per vedere le stelle, padre…”, replica serafica con un sorriso annoiato, di circostanza, dipinto sulle belle labbra rosso sangue. “Sono meravigliose stasera.” Come faccia a dirlo resta un mistero, perché lancio un’occhiata fuori dalla finestra e, luce o non luce, non si vede assolutamente niente. Ci sono un sacco di palazzi davanti alla casa dello zio.

Papà invece sorride.

E’ abituato alle nostre piccole stranezze femminili, come le chiama lui, le trova divertenti e lui ama le cose divertenti. Mette le mani sui fianchi e assume un’aria di collera bonaria, storcendo il naso proprio come faccio sempre io quando mi chiamano Medina.

“Almeno quando non c’è vostra madre potresti anche chiamarmi papà come fanno le tue sorelle, no?”

Bellatrix scuote la bella testa bruna facendo ondeggiare graziosamente i capelli e ride coprendosi i denti bianchi con una mano. E’ affettata ed elegante, sembra la mamma quando chiacchiera con le amiche ad un tè pomeridiano.

“Non è educato, padre, non mi permetterei mai. Del resto…” Fa un rapido cenno con la testa nella mia direzione, mentre lo sguardo nero si fa duro, cupo. “… La nostra Medina, qui, ha già avuto una reazione più che accalorata al tuo arrivo.”, aggiunge con una nota di crudele sarcasmo che mi ferisce. Non mi sembra così sbagliato essere felici di vedere il proprio papà.

Che ho fatto di male stavolta a parte rovesciare una vecchia sedia?

Un sospiro.

Narcissa “risorge” e senza dire una parola va verso il tavolo. Solleva la sedia con uno sforzo non indifferente, perché è una sedia massiccia, forse troppo pesante per una bimba così piccola e gracile, ma la rimette al suo posto prima che possa farmi avanti per rimediare al mio ennesimo disastro.

Non degna Bellatrix d’uno sguardo.

Non guarda papà che le sta facendo i complimenti.

Si volta verso di me e sorride mostrandomi tutta orgogliosa una fila di dentini bianchi.

Anche lei, come me, ha notato il tono sottilmente astioso nella voce di nostra sorella, quel finto servilismo di facciata che fa somigliare Bellatrix a quel puzzone arrostisci-bambine di Kreacher in maniera inquietante. Sempre come me ne è infastidita e ha deciso di uscire dal rigor mortis solo per evitare un litigio inutile tra me e lei che si sarebbe concluso con le grida della mamma. Solo che crede che quel sarcasmo sia rivolto a me, è convinta di aver difeso me. Nella sua ingenuità non ha capito che è tutto per il nostro caro papà.

Bellatrix non lo sopporta.

“Andromeda è sempre un po’ irruente, lo sai…”, ride scompigliandomi i capelli con una carezza ruvida ma a malapena me ne accorgo.

“E’ vero, ma è adorabile così com’è.”, cinguetta lei.

Rimango stupita e sconvolta dall’atteggiamento di mia sorella, ogni volta.

Non si tratta solo di non sopportarlo, ha proprio un rifiuto nei suoi confronti, ma con lui finge perché deve mostrare devozione filiale, come una Black che si rispetti: una volta ho provato a chiederle il motivo di tanto astio e mi sono sentita rispondere che non avrebbe mai detto nulla a un’adepta di quell’uomo.

Ovviamente non ho capito.

“Andiamo a casa, papà?”, pigola Narcissa, che gli ha stretto le manine sul bordo della veste e sta tirando con forza verso il basso per attirare la sua attenzione: piega la testolina bionda all’indietro lasciando che la chioma bionda brilli alla luce calda delle candele, e lo fissa con un adorabile musetto imbronciato da cucciolo, che in genere le fa ottenere tutto quello che vuole, mentre si alza in punta di piedi e chiede di essere presa in braccio. Se lo chiedessi io mi verrebbe negato.

Ma papà acconsente subito, perché nessuno riesce a dire di no a Narcissa.

Secondo Bellatrix è piena di capricci e diventerà una viziata.

“Ancora no, Cissy, prima andiamo tutti a salutare la zia che è nella sua stanza.”, risponde paziente papà aprendo la porta con una mano e invitandoci ad uscire. Bellatrix esce per prima, incedendo con una maestosa pudicizia che mi intimorisce al punto da indurmi a spalmarmi contro il muro, dopo aver dato una bella occhiata al corridoio buio in cerca dei miei mostri. “Sarebbe scortese andarsene senza salutare…”

Silenzio.

Un sorriso.

“Hai ragione.”, replica alla fine.

Ma non lo pensa davvero, Narcissa.

E’ stanca, ha sonno, e vuole andare a casa.

Crede che il papà abbia torto, ma preferisce dire una bugia.

Nessuno dice mai la verità, qui a Grimmauld Place, perché non è rispettabile.

E io, protetta dalla fitta penombra del corridoio scuro, aggrotto le sopracciglia perché odio le bugie e le falsità, mentre essere un Black è un po’ come fare una finta magia babbana. Devi far sì che il pubblico continui a guardare l’occhio mentre è la mano a fare la magia, che si lasci accecare dalla luce di modo tale che non si avveda dell’ombra che si allunga ai nostri piedi.

 

 

***

 

 

E’ mamma ad accoglierci nella pallida penombra del corridoio, davanti alla camera della zia e naturalmente io non trovo niente di meglio da fare che inciampare stupidamente nei miei stessi piedi per il nervosismo, rischiando di rovinare a terra: per fortuna ci pensa Bellatrix a prevenire una brutta caduta, ma la mamma non mi risparmia comunque un duro sguardo di biasimo anche se non mi fa la predica.

Non sembra essere nella sua forma migliore.

Sotto agli occhi ha due grosse occhiaie scure e quella massa di perfetti riccioli rossi è talmente stretta nella rete per capelli che non ne sfugge nemmeno uno: un’acconciatura simile a quella della nonna nel quadro che abbiamo a casa. Del resto anche il suo vestito ricorda uno di quelli della nonna: semplice, di un grigio scuro piuttosto brutto. Sembra una vecchia stanca.

Stanca e nervosa per cui meglio non contrariarla.

Mi scuso per la mia disattenzione.

Ci fa entrare solo dopo averci fatto promettere di fare le brave, perché la zia non sta bene: quando apre la porta ci precede per annunciare il nostro arrivo e Bellatrix la segue a ruota, imitandone l’incedere aggraziato al punto da sembrare la sua ombra. Pare che la stia prendendo in giro ma non è così. Bellatrix vuole davvero essere elegante e raffinata come nostra madre, anche se pensa che quella rigida, desueta etichetta le faccia scappare dalle dita un sacco di divertimento. Secondo Bellatrix la vita è troppo breve per farsi sfuggire tante cose piacevoli. Però ha anche le idee chiare sul proprio futuro: da grande vuole sposarsi con un ottimo partito, e sappiamo bene che apparire fragile e modesta fino al giorno delle nozze è l’unico modo che ha per farlo.

Non sappiamo perchè funzioni in questa maniera.

E’ così e basta.

Osservo con la coda nell’occhio papà mettere a terra Narcissa, che sgambetta come un fantasmino biondo accanto a nostra sorella, e poi prendere posto sulla poltrona accanto alla finestra, mentre io resto ferma immobile sull’uscio, con le gambe che mi tremano, nelle narici un odore strano, di caldo e viziato ma diverso da quello a cui c’eravamo abituate nello studio dello zio, che non m’è mai sembrato tanto accogliente come in questo momento.

Chissà se posso tornare là…

Non so perché siamo qui.

Sono nervosa.

Quando noi siamo malate non riceviamo mica visite in camera, non è rispettabile per delle signorine. E poi non sono mai stata in camera della zia. E‘ un enorme locale con il soffitto altissimo, adibito a camera da letto e a spazioso salotto, ingombro di mobili, divani, sedie e tavoli dall’aria costosa. Davanti a me un massiccio letto a baldacchino con quattro grifoni dorati appollaiati in cima ai pilastri. In un angolo della stanza un grosso camino di marmo nero, sostenuto da colonne che somigliano a spaventosi serpenti: sopra svetta un quadro dalla cornice finemente lavorata. La tela è vuota, il suo abitatore (o abitatrice?) deve essere andato a fare una passeggiata da qualche parte. Ci andrei volentieri anch’io. A sinistra una grande porta finestra coperta da pesanti tende color indaco.

Mi avvicino un pochino.

Che ci faccio qui?

La zia è seduta sul letto, avvolta fino in grembo da coperte lilla dall’aria morbidissima e poggiata su un ammasso di enormi cuscini. China graziosamente la testa di lato, lascia che i lunghi capelli d’inchiostro cadano lungo i fianchi come seta fine facendo contrasto con la bianca pelle di magnolia, e ci fissa con quegli splendidi occhi grigio chiaro con pallide striature verdi, quelli che le ho sempre invidiato.

Non mi sento a mio agio, voglio andarmene.

La zia è un po’ pallida, probabilmente è il caldo a farla star male, infatti ha le guance rosse e il respiro un po’ affannoso. Si può sapere perché non apre le finestre? Può farlo, lei è grande, può usare la magia, nessuno la sgriderà: e poi è notte fonda e lo zio non c’è, papà ha detto che è uscito. Non mi stupisce. Lo zio esce sempre e lascia sempre la zia sola a casa. Forse è per questo che non sorride mai, e le labbra hanno preso una brutta forma all’ingiù, ed è sempre triste e severa più della mamma: però questo io proprio non lo capisco, lo zio a me mette paura perché grida sempre e sembra non amare i bambini. Sono contenta quando non c’è.

Sono contenta quando non c’è nessuno in giro.

“Vieni avanti, Andromeda, non essere maleducata.”, ordina perentoria la mamma destandomi da quei pensieri: l’espressione è dura quando incontra il mio viso mortificato, le labbra strette, le mascelle contratte.

Salto come una molla e mi affretto ad obbedire.

Papà, Bellatrix e Narcissa hanno sempre un comportamento disinvolto in presenza della mamma, mentre a me basta entrare nel suo campo visivo per entrare nel panico più totale. Non so perché ma mi mette a disagio. Eppure non è che nutra per me una particolare antipatia. E’ solo colpa mia se mi riprende più di quanto non faccia con le mie sorelle; perché sono pigra, svogliata e incapace, e non sono mai all’altezza delle aspettative di famiglia.

Sono Andromeda, la figlia di mezzo senza qualità.

D’altronde Black non si nasce, ci si coltiva.

O almeno, così dice Bellatrix.

Corro senza intoppi fino al letto, poi però mi ricordo che mamma non vuole che corriamo in giro per casa: penso al suo sguardo severo e inciampo di nuovo nei piedi, finendo lunga distesa sulle coperte e mi arriva alle narici un odore acre, forte ma non sgradevole: per poco non finisco addosso a quel fagottino che, mi accorgo solo ora, la zia stringe amorevolmente tra le braccia. Le consuete parole di scuse per la mia immane imbranataggine muoiono in gola quando, rialzando la testa, mi trovo faccia a faccia con qualcosa di piccolo e pallido.

Un visino avvolto in una copertina bianca.

E sei tu…

Sei proprio tu quel cosino carinissimo il quale, spaventato a morte dall’improvviso attacco, non può far altro che salutarmi e rendermi consapevole del suo arrivo sulla terra forandomi i timpani con un urlo disumano. Mentre la mamma mi afferra per un braccio allontanandomi in malo modo dal letto e guatandomi con uno sguardo omicida, la zia si affretta subito a farti dondolare avanti e indietro e a me viene da ridere della sua goffaggine: sembra che stia cercando di far oscillare una barca più che tranquillizzare un neonato.

Dopo qualche secondo già s’è arresa e si volta a fissare implorante la mamma. “Euriale, non so cosa fare…”

“Ti aiuto io!”, grido allungando le braccia per afferrarti, ma la zia ti allontana bruscamente, causando un’altra ondata di pianto disperato. Non ci sa proprio fare con i bambini, d’altronde è normale, non ricordo che ci abbia accudite nemmeno una volta. Prima che la mamma cominci a sgridarmi dandomi della maleducata, mostro i palmi delle mani alla zia. “Non devi preoccuparti, zia, guarda. Sono pulite.”, sorrido fiera. “E poi sono brava, non lo faccio cadere. Per piacere, zia, lasciamelo tenere solo un pochino.”

Cerco di essere il più convincente possibile ma lei non riesce proprio a fidarsi della piccola, incapace Andromeda e fissa incerta sia la mamma che il papà, mentre tu continui a piangere disperato, con la faccia tutta rossa e la bocca aperta come quella di un rospo.

Voglio prenderlo in braccio…

“Accontentala, che ti costa?”

E’ papà che parla.

“Alphard…”, replica la mamma, per niente contenta della sua intromissione in questa faccenda. “Non mi sembra il caso, è piccola… E’ Andromeda…”, specifica, come se il mio stesso nome fosse prova d’incapacità. “E se lo facesse cadere?”

Non lo faccio cadere!

Papà sorride e scuote la testa. “Euriale, sii seria… Ha tenuto Narcissa in braccio un sacco di volte e non mi pare le abbia mai fatto sbattere la testa contro la ringhiera delle scale o l’abbia mai ficcata in un calderone. Per una volta le potremmo pure dar fiducia…”

E alla fine vengo accontentata anche se mamma e zia non sono ancora molto convinte della cosa, perché quando papà si mette in testa una cosa riesce sempre a spuntarla a modo suo. Mi vieni posato tra le braccia con una delicatezza forse eccessiva: l’ha detto anche papà, ho sempre tenuto in braccio Narcissa e non m’è mai caduta, perché con il mio cuginetto dovrebbe essere diverso?

Comincio a ninnarti dolcemente.

Ruoto il busto piano piano, prima a sinistra poi a destra, poi ti coccolo un po’ e faccio delle facce buffe, proprio come facevo con Narcissa qualche anno fa. Lei però non hai mai urlato fino a farsi diventare la faccia così rossa: si vedono anche un sacco di vene e capillari violacei, sarà normale?

Non sei molto carino, oggettivamente parlando: sei piccolo e morbido, profumi di latte, però non hai capelli in testa, sei tutto rosso in faccia, senza denti e tutto pieno di rughe come un vecchietto. E ti adoro come non ho mai adorato niente in vita mia.

Se smettessi di guardare quelle piccole labbra rosse e tese e volgessi gli occhi in direzione delle mie sorelle non vedrei nei loro sguardi lo stesso palpito d’amore incondizionato ed istintivo che, sono certa, c’è nel mio. Perché sei l’ultimo arrivato, sei un intruso e sei fastidioso, e dovrai guadagnarti il loro rispetto e quello dell’intera famiglia col sudore della fronte. Perché essere Black significa che nulla è dovuto, neppure l’amore di mamma e papà.

“Chi ha scelto il nome, Euridice?”, domanda mio padre.

Sento un rumore di tende tirate, la finestra che si apre appena, e subito nella stanza entra, forse per la prima volta in settimane, l'aria fresca e piacevole della notte. Dev'essere stato papà. Mi affretto a stringerti attorno al viso la copertina per non farti prendere freddo.

Se ti ammalassi darebbero tutti la colpa a me.

Se alzassi gli occhi dal tuo visino vedrei la zia posare per un istante i begli occhi colmi di gratitudine al papà, per poi rivolgerli alla notte. ”Antares.”, replica. “E’ un nome importante, dice, e l’erede dei Black deve incutere timore e reverenza a partire dalle piccole cose…” Lei però non sembra molto convinta.

“Antares, eh?”, le fa eco papà, e sono certa che ora sta annuendo con aria comprensiva, perchè lui e la zia si capiscono sempre su tutto. “Ha sempre avuto lo stesso buon gusto di nostro padre per queste cose, del resto, perché il nome dovrebbe fare eccezione? Voglio dire, Sirius…” Quando dice il nome al bambino la sua voce trema un po’, sono sicura che sta facendo una smorfiaccia per trattenere le risa. “Altro che timore e reverenza, a scuola lo prenderà in giro anche il gatto del custode.”

Se sollevassi lo sguardo sono certa che vedrei le labbra della zia piegate quasi impercettibilmente in uno dei suoi rari, bellissimi sorrisi segreti. Sono quasi sempre per papà, perché fa delle battute spiritose, ci fa ridere tutti. Tranne la mamma. Ma non m’interessa di loro, adesso.

Ci sei solo tu.

“Sirius…”, ripeto a me stessa, e le parole mi si posano sulla lingua dense e dolci come il miele più buono.

Sirius Black.

Finalmente hai un nome, mi ero stufata di chiamarti “cosino”. Non so quanto ti potrebbe importare della mia opinione anche se fossi abbastanza grande da capirmi ma, nome importante o meno, io lo trovo molto carino. Più carino di Andromeda, se non altro.

“Fai ufficialmente parte della famiglia, adesso…”, sussurro gentile, ma tu non sembri molto entusiasta della cosa perché cominci a strillare più forte fino a farti scoppiare i polmoni e io raddoppio i miei sforzi per calmarti.

“Va tutto bene, Sirius, non piangere…”, mormoro cantilenando un po’, proprio come facevo con Narcissa quando mi guardava dalla sua culla, la notte. Quella strana bambina non riusciva mai a dormire, ma non ha mai pianto o versato una lacrima per far accorrere la mamma. Io però le dicevo comunque di non piangere per darle il coraggio che si sforzava di avere. Quando ancora cercava i miei abbracci e aveva paura dei mostri sotto al letto.

“Va tutto bene…”, ripeto, ma non ne sono convinta.

Ho in braccio il piccolo erede dei Black, il futuro capofamiglia. E’ un titolo importante, fa paura se ci penso.

Ho paura, infatti.

Ma non di farti cadere.

Sento che qualcosa non va, che non è come dovrebbe essere. Che non va affatto tutto bene e che ti sto mentendo, e tu ti stai calmando perchè credi alle mie bugie, perché sei ancora piccolo e non sai cosa t’aspetta veramente qui.


Perderai molte cose, nel corso degli anni.

L’innocenza, per prima: non per colpa tua che sei così carino, né dell’educazione che t’impartiranno, che sarà mille volte più rigida della mia e altrettante volte più severa perché sei l’erede della famiglia Black e devi portare lustro alla famiglia: sarà il sangue che ti scorre puro e caldo nelle vene a fare di te ciò che sei destinato ad essere.

Poi, la fanciullezza: ai Black non è permesso rimanere bambini a lungo. Penso a Bellatrix, bella e fiera come la stella guerriera di cui reca il nome, che ha solo due anni più di me eppure è già una donna; penso alla piccola, coraggiosa Narcissa che non ha paura del buio e dei mostri e non vuole mai essere abbracciata; penso a me stessa che queste cose le voglio ma non mi sono concesse perché sono sbagliate.

E poi penso a te, che assieme all’infanzia perderai anche le sue piccole gioie, un abbraccio amorevole, un dolce bacio sulla guancia, le coperte rimboccate prima di andare a letto la sera… Ti verranno negate persino le sciocche,  innocenti paure infantili… Ma non temere, piccolino, perché non avrai il tempo di sentirne la mancanza, chiuso nell’oscurità di una casa in cui non entra mai il sole.

… Così perderai te stesso.

Controlleranno ogni tuo gesto, ogni tua parola, ogni tuo respiro. Ti faranno credere che non hai bisogno di cose sciocche come una carezza, un bacio o l'amore e che la sola cosa che ti renderà felice sarà portare onore alla famiglia. Diventerai ciò che loro vogliono tu sia.

E ti faranno credere di essere tu quello sbagliato se non ti adeguerai.

Proprio come hanno fatto con me…

Perchè io non sono sbagliata.

 

Il bambino piano piano si è calmato, spossato da tanto pianto, e alla fine apre gli occhi. Li vedo per la prima volta: ha le iridi più azzurre che abbia mai visto, anche più di quelle di Cissy, che sono chiarissime, quasi grigie. Sono occhi meravigliosi, anelli sottili di cielo intorno alle pupille nere ancora incapaci di mettere a fuoco le immagini, nascosti dietro ciglia lunghe e nere.

Uno sbadiglio.

Uno sbuffo.

Un sospiro.

Un sorriso.

Il più bello del mondo.

E io gli sorrido di rimando, intenerita.

Una creatura che sa sorridere così può ancora essere salvata dalle tenebre di questa casa.

“Andrà tutto bene, Sirius, te lo prometto… A costo di fuggire da qui e portarti via con me.”, mormoro con un filo di voce abbracciandolo forte forte, e mentre fuori albeggia e i primi timidi raggi di sole fanno capolino all’orizzonte assieme alla fulgida stella di cui porti il nome, per la prima volta in vita mia credo in me stessa e nelle mie stesse parole.

 

  
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