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Autore: Ellie_x3    16/05/2011    3 recensioni
"A scuola ci hanno fatto leggere un libro illustrato, oggi.
Si intitolava Dracula.
E' un classico di più di due secoli fa, ma mi è piaciuto perchè il protagonista soffre di così detto 'Vampirismo'.
C'è un solo problema, ci ha detto la maestra: Il 'Vampirismo' non è una favola.
Nemmeno una leggenda o un brutto sogno.
Il Vampirismo è una malattia, come la varicella o il raffreddore o l'influenza."

Una bambina confinata per dieci anni in una stanza, con la flebo conficcata nella carne, la luce di una lampada al neon negli occhi spenti.
Una bambina che guarda il suo telefilm preferito nella propria camera, in braccio il coniglio regalatole da un padre affettuoso.
Una bambina che dovrebbe essere morta, l'altra che non vedrà la sua prossima alba.
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mittsu
[File 003]


Fox Army Health Center- Alabama.
06-05-2012

File 2.00

Type: Vampire. Female.
Dead.


“Avete idea di cosa cazzo sia successo qui dentro?”
“- No. A dire il vero no.”
“No? NO? Ma state scherzando?”
“No.”
“Il sole, idioti. Il sole! Mai nessuno che sappia che il fottuto sole li uccide, questi cosi qui.”

Fox Army Health Center- Alabama.
19-11-2012

File 2.01

Type: Vampire. Female.
Dead.

“-Dottore. Venga a vedere.”
“Hm?”
“E' finita. 2.01 è morta dieci secondi fa.”
“Hm.”
“E' ancora lì, se vuole. Niente cenere. E'- beh- un cadavere. Un semplicissimo cadavere.”
“Per quanto l'avete tenuta a digiuno?”
“No, niente digiuno. Ha mangiato regolarmente.”
“E' il sangue?”
“Non gliene davamo da due settimane.”

Fox Army Health Center- Alabama
21- 03- 2019

File. 3.00

Type: Vampire. Female.
Escaped.
“L'elemento 3.00-”
“La cavia.”
“Oh, non faccia la difficile.”
“Non faccio la difficile. Usate quelle persone come cavie.”
“Non sono persone. Non lo sono affatto. Se tu e quelli del tuo entourage li vedeste alla loro forma peggiore, non direste che sono poveri, piccoli e innocenti.”
Elizabeth Brown rimase salda nel suo tailleur scuro, aggrappandosi alla forma cortese come se fosse un modo per passare le dita sul muro invisibile che li divideva.
“Certo. Come vuole. Sta di fatto che 3.00 è scappata.”
“Esatto. Appena prima dei test di stamattina. La cella era vuota.”
Cella?”
“Sta- Stanza. Volevo dire Stanza.”
“Dottore, lei lo sa vero che sto per picchiarla?”
“Ti prego, Liz. sono certo che ci sarà un momento migliore, non trovi? Ora pensiamo a Tre. Potrebbe essere pericolosa.”
“Non potrà andare da nessuna parte, comunque.”
“Ah no? Queste cose qui, di notte, possono andare dove vogliono. E ti assicuro che sono abbastanza furbe da fa-”
“Dottore.”
“Hm.”
“Ha dieci anni. Non può fare molto. Vedrà, la ritroveremo.”


Creatures kissing in the rain
Shapeless in the dark again
In the hanging garden
Please don't speak
In the hanging garden
No one sleeps


A scuola ci hanno fatto leggere un libro illustrato, oggi.
Si intitolava Dracula.

E' un classico di più di due secoli fa, ma mi è piaciuto perchè il protagonista soffre di così detto 'Vampirismo'.
C'è un solo problema, ci ha detto la maestra: Il 'Vampirismo' non è una favola.
Nemmeno una leggenda o un brutto sogno.
Il Vampirismo è una malattia, come la varicella o il raffreddore o l'influenza.
E' parte della mia vita -non è bello, sì, però mi ci sono abituata. Sono forte io.
E anche se la Malattia secondo la mamma ha condizionato il mondo e lo ha cambiato, io sono felice.

Avere un nome sarebbe sicuramente interessante, ma non sono certa di ricordarmelo. I miei genitori naturali certamente me ne avevano dato uno, ma per la mia famiglia adottiva mi chiamo Cienna.
Sono nella lista che la mamma chiama delle persone Sane.
Mio padre però era Malato.
Forse lo era anche mia madre.

La gente nel mio mondo si ammala. Lo faceva anche prima, lo so, ma non così.
E' cominciato tutto nell'estate del duemiladieci. O almeno così dice Papà.
Papà mi ha raccontato che il mondo ha cominciato a stare male per colpa dell'acqua, ma mamma non ci crede. Ogni volta che papà lo dice, lei lo guarda male e sbuffa.
Mamma è una dottoressa e lavora tantissimo facendo arrabbiare papà, che vorrebbe lavorare tanto quanto lei ma non ne ha proprio voglia.
Papà lavora di notte, ma non perchè è malato. E' un dottore anche lui e aiuta i Malati, quindi segue i loro ritmi.
I Malati non possono muoversi di giorno, così lo fanno di notte. Una volta erano pericolosi, ma ora per la maggior parte sono a posto.
Hanno inventato sangue sintetico -mamma mi ha detto che una volta c'era un telefilm dove, proprio come ora, lo usavano per aiutare i malati a non morire. Mi piace l'idea che i malati non debbano soffrire.
Mi piace perchè so che la mia vera mamma e il mio vero papà lo erano, e anche se erano tipi ok magari non volevano che crescessi con delle persone che vivono di notte.
Ma non voglio pensare che siano stati male.

Ho già dieci anni, ma papà vuole che vada ancora a scuola non lui. Mi accompagna dappertutto. Non posso andare in nessun posto da sola.
Per fortuna c'è la mamma.


-

[2 years Later
Alabama]

“Cienna?”
Elizabeth Brown -trentaquattro anni, dottoressa- alzò gli occhi azzurro chiaro dalla tazza e li puntò sul marito. Sapeva che se cominciava a chiedere della figlia non sarebbe resistito per molto, e allora avrebbe cominciato a cercarla e si sarebbe infuriato una volta scoperto che lei -lei la madre irresponsabile, quella che viziava la figlia, quella che non si rendeva conto- l'aveva lasciata uscire da sola.
Elizabeth e Dylan Brown sapevano benissimo, però, che niente sarebbe potuto accadere alla figlia. Quantomeno, non nel giardino di casa.
E lei non si reputava ancora così stupida da permettere all'unica figlia di giocare fuori di casa da sola.
-Non quando faceva buio, quantomeno.
Ma nel pomeriggio non vedeva proprio nessun pericolo, quindi si lasciava convincere in poco tempo dalle moine della figlia.
Ad ogni buon conto, scosse le spalle. “Non lo so. In giardino.”
“Non c'è.”
Elizabeth sorrise.
“E come fai a dirlo?”
“Oh, Cristo, Liz. Non viviamo mica in un palazzo, sentirei se Cienna fosse in giardino. Mi basta mettere piede in veranda per capire che l'ha fatta uscire un'altra volta.” il tono di Dylan si fece più cupo. “Sai che è pericoloso.”
“Sai che non puoi neanche tenerla qui dentro per sempre.”
“Ma fuori-”
“Fuori c'è un'epidemia che non si trasmette per via aerea, come tu e io sappiamo bene.”
Elizabeth posò la tazza sul tavolo, con un leggero 'tonk'. Sin dall'Università aveva l'abitudine di andare avanti con una dozzina di caffè al giorno, ma la dose -con gli anni- era magicamente raddoppiata. Anche la 'Dose Dylan', cioè la presenza di quell'idiota nella sua vita, era stata stranamente centuplicata.
Dylan la stava fissando a braccia incrociate, con l'espressione di chi non approva affatto. I capelli castani gli scendevano in riccioli spettinati sulle spalle e lungo il profilo del viso.
Quando annuì una ciocca gli piovve sugli occhi, e lui la scostò con un gesto brusco.
“Lo so. Appunto. Epidemia, Liz, cosa ti sfugge? Perchè diavolo lasci che nostra figlia finisca potenzialmente in mezzo a loro?”
Elizabeth sorrise.
“Perchè loro in questo momento dormono, caro il mio dottore troppo zelante.”
“No che non dormono.” replicò lui, con una smorfia seccata.
“Come no? Ci sono novità che devi raccontarmi?”
“No, nessuna in particolare. Sai anche tu che non tutti dormono durante il giorno.”
Elizabeth Brown da suo marito di cagate ne aveva sentite tante -no non sono ubriaco, no non sono arrabbiato, no non sto piangendo, no non mi sono dimenticato del nostro anniversario, no il pane l'ho comprato, sul serio- ma quella le mancava.
Sollevò elegantemente il sopracciglio chiaro (odiava avere i capelli biondi e gli occhi azzurri, era un cliché e a lei i cliché non piacevano, ma non aveva voglia di farsi la tinta) e lanciò al marito uno sguardo scettico.
Sì, Elizabeth era molto scettica su parecchie cose.
Prima fra tutte, le sparate di Dylan.
Quest'ultimo la stava fissando come se si fosse aspettato immediata comprensione, ma dopo un istante si arrese con un sospiro.
“Tre.”
“Chi?”
“Tre. Elemento  di studio -o paziente, come la vuoi chiamare- numero Zero Zero Tre. Quella che, ricordi?, è scappata dal mio laboratorio.”
Elizabeth scoppiò a ridere.
“Che? Scherzi? Sono passati, quanti? Due anni? E ancora ti aspetti che quella povera bambina sia là fuori a cercare di ucciderti? Certo che sei paranoico.”
“Non sta cercando di uccidermi. E non sono paranoico.” precisò Dylan, piccato “Ma quella cosa non è stabile mentalmente. Ha vissuto per dieci anni in un laboratorio.”
“Sì, e c'è anche tornata mi pare.”
“Abbiamo trovato un mucchietto di cenere, Liz. Chi ti dice che fosse lei?”
“Beh, avete trovato alcuni brandelli del suo vestito.”
“Oddio. Il trucchetto più vecchio del mondo. Non dirmi che ci credi sul serio.”
Davanti al tono convinto del marito, Elizabeth si morse il labbro. Certo, si era sempre sforzata di crederci: non poteva mica vivere nella paura di Tre, lei.
Tre. Avrebbe avuto quanti? Dodici anni.
Esattamente l'età di Cienna.
Improvvisamente, senza un vero motivo se non una brutta sensazione, Elizabeth Brown si pentì di aver lasciato che la figlia uscisse di casa ogni volta che Dylan voltava l'occhio.
“Sì, Dylan. Ci credo. Era lei.” mentì.

-

“Ehy. Ehy tu.”
Cienna Brown si voltò, facendo ondeggiare le trecce scure. I Jeans chiari, la maglietta firmata dai colori pastello e i capelli intrecciati lunghi fino a metà schiena la facevano sembrare una scolaretta scappata da un collegio privato.
Ma, invece di infastidirla, la cosa le piaceva.
Le piaceva che la ritenessero 'carina' e 'ordinata'. L'aveva preso dalla mamma adottiva.
Una signora piuttosto bella -sulla trentina, presumibilmente- le aveva rivolto la parola. Era appena scesa da un'elegante auto grigio chiaro e appoggiava la mano fresca di manicure sulla portiera aperta.
Sulla punta del cofano, come una sirena sulla chiglia di una nave, Cienna inquadrò il logo di una marca famosa.
L'auto sola doveva costare una fortuna. Il vestito indossato dalla donna e la sua perfetta permanente strawberry blonde Cienna li stimava un altro buon cinquantamila dollari.
La voce, però, era disarmonica e non lasciava immaginare niente più che un vecchio pin-up bar dalle pareti macchiate. “Mi vuoi rispondere, ragazzina?”
Cienna si morse il labbro. Era come se il tono della donna l'avesse colpita allo stomaco.
“Eh? Dice a me?”
“Ovvio che sì.” si puntellò le mani sui fianchi, con un che di autoritario nello sguardo. “Sai, vero, che questa zona è proprietà privata?”
Ah sì? E da quando?
Cienna adorava giocare nel giardino della casa in fondo alla strada. Lei e i suoi compagni ci andavano spesso, ma anche da sola andava bene.
La casa era ben tenuta, ma sempre vuota. E sprovvista di allarmi.
“No.” ammise, incassando la testa fra le spalle. “Mi dispiace, non volevo, non lo sapevo.”
“Ti dovrà più che dispiacere.” sbottò la donna. “Dovrei chiamare i tuoi genitori e poi-”
Il tonfo ovattato della portella posteriore dell'auto che si chiudeva la fece voltare. Cienna, invece, allungò il collo per scorgere chi fosse sceso. Forse qualcuno di un po' più gentile.
 Se ne convinse quando sentì la Voce. Sembrava, più che una voce umana, il cinguettio di un uccellino.
Una bambina.
“Okaa-san, lasciate stare.”
Cienna sbattè le palpebre. Okaa-che?
“Mittsu.” il tono della donna si era inasprito ancora. Stava letteralmente sibilando. “Torna in macchina.”
“Volevo parlare con lei.”
Cienna si indicò. “Me?”
La risata di chiunque fosse appena sceso da quella macchina -probabilmente una bambina, visto il timbro- sembrava il trillo di un campanellino. Eppure non era spiacevole.
“Già.” mosse un passo avanti.
Era come se fosse voluta liberarsi volontariamente di un mantello nero: un istante prima non era visibile e quello dopo era lì, perfettamente chiara sullo sfondo della casa disabitata.
La pelle alabastrina e i capelli morbidi, che si gonfiavano in onde e scendevano lungo la schiena. Gli occhi scuri, grandi, dalla forma allungata -orientale. La gonna pieghettata color neve e la maglia dello stesso colore.
Dava la sensazione che lei fosse sempre stata lì e che nessuno l'avesse mai vista. Ma lei aveva visto tutti.
“Piacere di conoscerti. Mittsu desu.”
“Mittsu!” abbaiò la donna, prima di lanciare l'ultima occhiata furente a Cienna. “Non perdere tempo.”
La bambina – Mittsu - le sorrise. Dimostrava otto anni, forse dieci a stare larghi.
“Per favore, Okaa-san. Solo due minuti.”
“Bah. Vieni in casa appena hai finito qui.”
“Vaaaa bene.” strascicava le vocali. E parlava come se l'inglese fosse una lingua che non usava da anni. Tuttavia, alcune parole avevano una nota diversa. Come se le avesse ripetute spesso e in continuazione.
Erano frasi semplici e stupide, come 'volevo' oppure 'per favore' oppure 'sì'. Ed era ovvio che una persona le ripetesse spesso.
Ma non in quel tono.
Quello era semplicemente diverso.
La donna sbuffò. Montò in macchina. Proseguì lungo il vialetto sterrato del grande giardino.
Cienna, però, non aveva prestato troppa attenzione a quei gesti meccanici.
Mittsu - nome strano, davvero. - le stava rinvolgendo un largo sorriso. Le pupille color inchiostro, quando sorrideva, sembrava inghiottissero l'iride.
“Come ti chiami?” le chiese, dopo un attimo. Quel tono flautato era rilassante, ma mancava la timidezza che di solito accompagnava quella domanda.
Cienna affondò le dita nelle tasche strette dei jeans.
“Cienna. Abito qui vicino.”
“Sì?”
“Hm.” annuì “A due minuti.”
Era bellissima, Mittsu. Come una bambolina da collezione. Come una marionetta.
Ma non era quel tipo di bambina con cui si entrava in confidenza automaticamente.
“Wow. Una casa bella?”
“Beh. Abbastanza.”
“La vorrei vedere.” considerò lei, poggiandosi l'indice sulle labbra pallide. “Un giorno posso venirci?”
Non dire di sì.
Non osare.
“Beh, dovrei chiederlo alla mamma. Papà direbbe di no.”
“Perchè?”
“A lui non piacciono tantissimo gli ospiti. Però poi si smolla.”
“Cosa fa tuo papà?”
Ha cambiato domanda. Perchè tutte queste maledette domande?
Non era sicura che fosse semplice curiosità. Sembrava che quella bambina col viso da bambola provasse un sottile piacere nel metterla con le spalle al muro. A farla rispondere in nome della cortesia.
Ma d'altra parte non era proprio una domanda pericolosa.
“Dottore.”
“E la tua mamma? Ce l'hai, una mamma?”
Cienna deglutì a vuoto. “Io? Sì, certo. E' una dottoressa.”
Mittsu, che si era impensierita un istante, lanciò uno sguardo alla casa alle sue spalle. “Quella là non è la mia mamma.”
“No?”
“No. E' una specie di governante. La mia mamma non ha gran tempo per me.”
“Mi spiace.” Ed era vero.
“Neanche il mio papà. Per questo mi piacerebbe venire a casa tua per giocare con te, Cienna-chan. Perchè vorrei che tu fossi la mia prima amica”
Sarà stato a causa dell'attimo di esitazione prima di pronunciare la parola 'amica' o della cortese ritrosia, ma quella sembrava il tipo di bambina di buona famiglia, timida e elegante, che se ne sta sempre sola in un angolo.
Non faceva esattamente pena, però. Era una sensazione più profonda.
Affetto?
Fu Cienna, stavolta, a sorriderle.
“Ma certo.” commentò, tendendole la mano “Vieni quando vuoi. Sarò la tua prima amica.”

-
Fox Army Health Center- Alabama.
09-07-2021

File 5.09

Type: Vampire. Male.
Alive.
“Dottore, abbiamo un problema”
“Mi dica.”
“Esattamente, da quanto non facevamo esperimenti sugli effetti del sole sui soggetti affetti da Vampirismo?”
“Beh, tanto. Perchè?”
“Perchè i risultati dei test sono cambiati.”
“Cosa?”
“Il soggetto 5.09 è stato esposto ai raggi solari per errore.”
“E-?”
“Ed è ancora vivo e in perfette condizioni fisiche, se non si conta lo shock di aver pensato di essere sul punto di sciogliersi.”
“Come 3.00”
“E come -possiamo presumere- tutti quelli dopo di lei. Solo che non lo sapevano.”

Fox Army Health Center- Alabama
10-07-2021

Type: Vampire. Female.
Alive.

“-Dylan?”
“Amy. Cavolo, Amy. Sei sveglia. Riesci a parlare ora?”
“Sì. Credo di sì.”
“Sei morta da tre giorni e già riesci a parlare.”
“E' strano?”
“Francamente, sì.”
“Oh...beh, ho sete però. E' da ieri che non bevo Quella cosa.”
“E' normale. Ti faccio portare subito un po' di sangue.”
“Non dirlo. Mi fa un senso assurdo. Per favore, non dirlo e basta. Facciamo che mi porti un Bloody Mary?”
“Sei un'alcolizzata.”
“Yep. Allora?”
- Uff. Un Bloody Mary per la sorella alcolizzata. Ok, ricevuto.”


-

“Amy è diventata una maledetta cavia da laboratorio?”
Dylan non poteva crederci. Non poteva e basta.
Sua sorella Amy -di un anno più piccola di lui,madre single di due figli, ottimo avvocato- era entrata a far parte delle statistiche.
E se in più Liz si metteva a strillare e a sbattere il giornale sul tavolo allora sì che era a posto.
Sospirò, passandosi stancamente una mano sul viso.
“Liz. Amore.” entrambi sapevano che la chiamava così solo quando era molto, molto stanco. “Puoi non metterti anche tu? Amy si è offerta per fare dei test. Tutto qui.”
Tua sorella. Hai mandato tua sorella a fare da topo in quella cosa che chiami laboratorio.”
Elizabeth stava tremando. Collera -forse disgusto.
Beh, non era certo la prima volta.
“Non è un topo, Liz, e lo sai anche tu.” brontolò, stancamente “Certo, in passato gli esperimenti potevano essere un po' oltre i limiti, ma ce l'abbiamo fatta. Abbiamo classificato i contagiati come Vampiri. Ora è tutto” ci pensò su un istante “Beh, diverso.”
“Diverso un corno. Vuoi che ti ricordi che il tuo cavolo di laboratorio va contro ogni maledetto diritto umano?”
“Secondo te.”
“Sì, secondo me. E anche secondo altri, ma la mia opinione suppongo dovrebbe importarti un pochino di più.”
Eccole lì.
Aveva odiato Liz dal primo momento, quando l'aveva vista, a causa della continua manfrina da 'sono una donna con una certa sensibilità E un tuo superiore, Dovresti ascoltarmi'. Già allora era una noia mortale.
Dopo però le cose erano peggiorate, aprendo le porte alle maledette recriminazioni da 'Sono tua moglie dovresti ascoltarmi'.
Cristo santo.
Affondò il viso nelle braccia incrociate. La fronte cozzava contro il freddo legno del tavolo.
“Senti, lasciamo perdere. Se non ti va che Amy stia lì, parlane con lei.”
“Non mi ascolterebbe.”
“Invece sì.”
“No. Un cavolo. Sai com'era spaventata di essere stata contagiata. Vuole delle sicurezze. Vuole...” Liz abbassò gli occhi al pavimento. Erano lucidi.
E, a parte l'odio istintivo nei confronti di quelli che piangevano, Dylan non poteva proprio sostenere le lacrime di tre persone: Amy, Cienna ed Elizabeth.
Tutte e tre lo mandavano in crisi.
Strinse gli occhi, per chiudere fuori dalla propria mente l'immagine degli occhi lucidi di Liz.
Non sarebbero mai andati d'accordo, sul Laboratorio. Mai.
“Lo so anche io cosa vuole.” commentò, senza muovere un muscolo “Ma è tutto a posto. Ora possono persino abituarsi alla luce, con un po' di tempo. I bambini staranno con lei. Vivrà come ha sempre fatto.”
“Ma berrà sangue.”
“Non sembra un problema, per lei.”
“Non sembra.” lo corresse acidamente lei.
“Liz, ti prego-”
La sentì prendere un lungo, profondo respiro. Avrebbe voluto alzarsi e abbracciarla, ma era davvero arrabbiato con lei.
Non si era mai fidata del suo lavoro. L'aveva sempre ritenuto spietato.
Ma, se non altro, non l'aveva mai ostacolato apertamente.
Questo era sempre bastato. E bastava ancora. Sarebbe stato sufficiente per sempre.
“No. Va bene. E'...sufficiente così. Sia tu che Amy siete perfettamente in grado di prendere decisioni da soli. Scusami.”
“Non fa niente.” mormorò Dylan. Non che questo bastasse a cancellare l'intera discussione, ma erano diventati piuttosto bravi ad accantonarle in un angolo polveroso e a far finta che non esistessero. “Tu ti ricordi, Liz, quando è cominciato tutto 'sto casino?”
“Più o meno.”
“Il mio migliore amico è stato fra i primi ad ammalarsi. Te l'ho detto, vero?”
Elizabeth annuì: sì, glielo aveva detto. Tante e tante volte.
Era stato soppresso.
All'inizio del contagio era così che si faceva. Si sopprimevano i Malati più deboli, e quelli più forti li si scovava di giorno nei vecchi cimiteri.
Dylan non aveva mai approvato, però. Lo trovava un sistema medievale.
Lui si era buttato sulla ricerca anima e corpo, dimenticando il cuore da una parte.
Lasciando Elizabeth, il buon senso e la coscienza in un angolo polveroso, con la promessa, un giorno, di tornare.
“Abbiamo convissuto con il Contagio per la nostra intera, maledetta vita.” Elizabeth non era certa di ricordare un solo giorno senza che al telegiornale delle otto non fossero state annunciate nuove vittime, nuove ricerche, nuovi presunti vaccini. Era stata una graduale, ma inesorabile, caduta nel vuoto. “E' patetico.”
“Già.”
“Te la ricordi, tu, Tre?”
Dylan, per la prima volta dopo un tempo che gli era apparso lunghissimo, alzò gli occhi sulla moglie. Aveva il viso arrossato e si era lasciata cadere sul divano.
Lo guardava negli occhi.
Suo malgrado, annuì.
“Hm. Piuttosto bene, anche. Era piccola, non dimostrava più che otto anni. E' nata infetta. I suoi genitori ignoti. Era risultata negativa quasi ad ogni test e sembrava piuttosto stabile, nonostante tutto. Ricordo che aveva un buon carattere, lei. E secondo la cartella clinica si è incenerita, presumibilmente a causa di un incendio appiccato per errore in una vecchia casa abbandonata. Pensavamo che si fosse rifugiata lì. Non che ci creda.”
Elizabeth gli lanciò uno sguardo d'avvertimento -come a intimargli di non andare oltre- e, dopo un istante di silenzio, sorrise.
Un'espressione che di gioioso non aveva proprio nulla.
Dylan si disse che nessun essere umano avrebbe mai dovuto saper riprodurre quel sorriso morto. Era semplicemente troppo triste.
“E quando è scappata-” Le dita di Liz indugiarono per un istante di troppo sopra la leggera canotta color pastello, all'altezza della bocca del stomaco. “Beh, è stato un brutto colpo. Un altro. In troppo poco tempo.”
Dylan corrugò la fronte, incupendosi.
“Mi dispiace Liz. Avrei dovuto -voluto- poter fare di più.”
Gli rispose un'occhiata torbida. Troppo scura per quegli occhi chiari.
“Non è colpa tua, quindi non scusarti. In quel periodo rifiutavo di accettare la sconfitta, e me la prendevo con te e con me stessa. Beh, è normale, penso.”
“Avrei dovuto saperlo. Impedirti di tentare.”
Elizabeth non era una stupida. In fondo era un medico.
Che diavolo, erano entrambi medici.
Dylan si era sempre sentito uno schifo: a causa dell'impatto psicologico di quel fallimento aveva rischiato di perdere Liz. Di perdere l'unico appiglio alla sanità mentale rimastogli.
“Impedirmi di tentare cosa?” Ma era passato. Il sorriso dalle labbra di Elizabeth quando le avevano detto che era rimasta incinta era scomparso, probabilmente per sempre. Ma almeno lei era ancora lì. “Non potresti impedire a una donna di volere un figlio suo. Anche quando sai che è un tentativo suicida.”
Già.
L'istinto materno era una cosa disarmante. Tanto più che a volte proprio non capiva se Elizabeth, con Cienna, fosse troppo permissiva o semplicemente -pazzamente, completamente- innamorata. Tanto da arrivare ad essere sventata.
“E pensare che Tre era così carina. Una bellissima bambina. Non avrei mai pensato che sarebbe scappata.” continuò Elizabeth, con filo di voce.
Dylan scosse la testa.
“Eri pazza di lei. E' ovvio che non te le fossi accorta. Cienna aveva il periodo papà e tu hai preso una bambina in laboratorio sotto la tua ala. Come una qualsiasi dottoressa avrebbe fatto. Come una qualsiasi madre.”
Elizabeth gli rivolse uno sguardo incuriosito, il capo leggermente piegato di lato.
“Ed è una cosa cattiva?”
“Perchè devo dirtelo io? Sai perfettamente che no, è una cosa buonissima.”
“Ma Tre è morta.”
Lo era davvero. O no?
No, non ne era affatto sicuro.
“Forse. Forse no.”
“Se qualcuno toccasse la mia famiglia, ne morirei.” affermò con convinzione lei, annuendo fra sé e sé. Quando diceva quelle cose sembrava che stesse semplicemente dando una diagnosi: dato di fatto. Malata terminale nel caso di perdita della famiglia.
Era una frase totalmente scollegata -a meno che anche Liz non avvertisse quel leggero brivido alla schiena. Quella sensazione di inquietudine.
Ma, in fondo, era abitudine di Liz fare affermazioni del genere.
Se quella volta non fosse stata così seria, Dylan ne avrebbe riso.

-

Cienna Brown. Dodici anni.
Il martedì rimaneva sempre alzata fino a tardi a guardare il suo programma preferito. Anche quella sera non faceva eccezione.
Mittsu l'aveva incontrata per le strade del quartiere solo un paio di volte, ma era bastato per farsi un'idea piuttosto chiara della ragazzina: metodica, abbastanza precisa, tranquilla.
Amava gli animali e teneva un coniglio nella sua stanza.
Come Mittsu - File Tre punto Zero Zero - ricordava, il Dottore non approvava la presenza di animali in casa. La Dottoressa però era riuscita a fargli cambiare idea, complice il secco impuntarsi della figlia e un coniglietto nano bianco dal muso -a detta della Dottoressa- 'vergognosamente carino'.
Il fatto che fossero sposati non la stupiva affatto: l'aveva immaginato negli ultimi tempi della sua prigionia, sebbene non lo avessero mai detto apertamente.
Certo che il dottor Brown non le parlava mai come ad una bambina normale, e poi ai bambini non si parla delle proprie mogli. Dei figli, semmai, ma di Cienna non avevano mai detto una parola.
Mittsu si umettò il labbro superiore, seduta sul ramo dell'albero davanti alla finestra della nuova amica. Non vedeva l'ora di entrare, ma aspettarla dentro sarebbe stato scortese.
Già.
Non entri in camera di un'amica senza avvertirla.
Non entri per farle male senza dirle niente.
Mittsu rabbrividì nel sentire un rumore di piatti caduti provenire dalla cucina. Non se lo aspettava.
Elizabeth Brown, per quanto ottima nel suo lavoro, doveva essere un pochino distratta. A giudicare dal familiare odore di sangue nell'aria si era tagliata con un coccio.
Dylan Brown -lo stesso che l'aveva tenuta chiusa in una cella per la maggior parte della sua vita- la stava rimproverando, chiedendole cosa diavolo avesse. Nel frattempo, l'aiutava.
Mittsu sapeva che la dottoressa Brown era sempre stata piuttosto empatica, per questo sospettava che potesse interferire con il suo gioco. E tuttavia lei la credeva morta. Quel flebile sospetto non era abbastanza per renderla pericolosa.
Nuova occhiata dentro la stanza: Cienna aveva spento la televisione e si stava sciogliendo le trecce. Era come se Mittsu la conoscesse da sempre.
Quei gesti così prevedibili e sempre uguali, quei modi di fare che aveva preso dal proprio padre adottivo. Ai Vampiri -preferiva definirsi così piuttosto che Malata- era semplice decodificare le azioni di una persona.
Saltò con grazia sul balcone. Le ballerine laccate non fecero il minimo rumore quando toccarono le piastrelle in cotto.
Ma Cienna l'aveva vista.
Ed era stato abbastanza perchè sgranasse gli occhi, più che sorpresa.
Prima che potesse dire qualsiasi cosa, Mittsu le rivolse un sorriso dolcissimo. “Ciao.”
Non le era solo facile capirli, gli umani: poteva anche guidarli a fare in linea di massima ciò che lei ordinava.
Un'ottima cosa certamente.
Mosse un passo elegante dopo l'altro, entrando nella stanza ordinata di una bambina dodici anni qualsiasi dai genitori speciali.
Punto uno.
Permesso accordato. Barriere infrante.
Era in casa.
“Che diavolo-”
si concesse una leggera -quasi impercettibile- risata. Ricordava di aver sentito le stesse parole due anni prima, quando Elizabeth Brown aveva trovato la sua cella [“Stanza”] vuota. La serratura scassinata.
E lei era poco dietro, appesa al soffitto come un ragno in camice da ospedale. Aspettava il momento buono per sgattaiolare via e sparire nel nulla, attendendo e attendendo.
Meditando come -e quando- avrebbero pagato i suoi carcerieri.
Sorrise.
“Ciao, Cienna-chan.” flautò, in tono che di bambina non aveva nulla “Avevo detto che sarei venuta a trovarti, no?”
La ragazzina [viziata, ancora una bambina] si tormentava con mani tremanti il bordo del pigiama. Era grande per lei, dai colori pastello, molto carino.
Sarebbe stato davvero un peccato se si fosse sporcato.

Squillo del telefono, al piano di sotto.
Passi pesanti di Dylan Brown che andava a rispondere.
Che coincidenza. Proprio il momento giusto.
[Pronto? Chi parla?]
Gli occhi scuri di Cienna sparirono una, due, tre volte dietro il velo delle palpebre. Era perplessa.
“Posso entrare?” domandò Mittsu, educatamente. Ormai però era dentro.
“Eh?”
“Posso entrare?” sillabò, di nuovo, stavolta con un ampio sogghigno che solcava le labbra lucide di gloss alla fragola per bambini. Doveva sempre ricordarsi di adattarsi alla sua età apparente e non a quella celebrale.
“-ma sei già entrata.” osservò l'altra, puntandole un dito contro. Non le chiese come, ma si aspettava che lo capisse.
[Scusi, posso sapere chi è? Non capisco. Sì, sì, conoscevo tutte le persone che ha elencato.]
Mittsu scosse le spalle con un movimento fluido. Il pizzo leggero che bordava il collo squadrato del vestito ondeggiò, assecondando i suoi movimenti.
“Se vuoi esco.”
No, non andava affatto bene: calmati, Mittsu. Calmati e comportati da bambina.
Occhi bassi e aria afflitta. Così.
Cienna le indirizzò un'occhiata preoccupata. “Miss Queen -beh, sai, la tua governante- sa che sei qui?”
Annuì.
“Gliel'ho accennato. Ho detto che venivo da te a giocare.”
“A quest'ora?”
“Volevo abbracciarti, Cienna-chan.” replicò. La Malattia la rendeva ipersensibile a rumori e luci, ma non era più un fastidio da molto tempo. Anzi, aveva scoperto con l'esperienza come il sangue rigorosamente umano fosse il prezzo da pagare per avere un incredibile sviluppo celebrale e una crescita fisica rallentata. Per affinare i sensi.
Alla lunga poteva anche stare al sole, pur evitando le ore del primo pomeriggio.
Ma -nonostante questo- per la prima volta sperimentava come fosse difficile comportarsi da normale essere umano. Non ne era mai stata in grado e solo in quel momento se ne rendeva conto.
'A te darò la scelta che a me non fu mai data.' Aveva detto Tom Cruise – Lestat - in un film molto vecchio che le era capitato di vedere.
Un film sulla Malattia e sulle scelte. A lei no, non era stata offerta una scelta: non aveva scelto di nascere e neanche di vivere i suoi primi dieci anni di vita in un Laboratorio di test sul morbo che infettava il mondo.
Nessuno le aveva chiesto cosa desiderasse.
Mai.
[Sì, glielo ripeto: conosco tutte quelle persone. Sì, anche mia moglie è qui e le conosce. Sì, erano nostri colleghi. Cioè, sono.]
“-Ah.” Cienna era sembrava più perplessa che mai. “Ma non hai sonno? E' tardi.”
Di nuovo, Mittsu fece un cenno di diniego col capo. “Non ho sonno, la sera. A casa studio il pomeriggio e dormo la mattina.”
“Beata te.”
“Già.” Brava, piccola, perfetto. Riporta la conversazione su un piano umano, un piano sicuro. Non spaventarla e andrà tutto bene. “Però è noioso, studiare da sola a casa. Volevo vedere la mia amica.”
A quelle parole, incredibilmente, la ragazzina parve ammorbidirsi. Era bastato davvero così poco?
“Davvero?”
“Sì. E quindi ti ho detto una bugia: sono scappata, in realtà.”
Le mani di Cienna si strinsero nella stoffa del pigiama troppo largo, in tensione. Un filo di ansia affiorò nei suoi occhi.
“Ma si preoccuperanno.”
Seconda scrollata di spalle e rapida occhiata di Mittsu dietro di sè, al balcone da cui era entrata, all'albero. “Nessuno bada mai a me. Non ci faranno caso.”
Cienna si fece cupa in viso. Un bagliore di tristezza nei grandi occhi color cioccolato. Incredibile quanto, nelle espressioni, assomigliasse alla madre adottiva.
“Sei così sola?”
[Eh? Mi scusi, ma non capisco. Certo che ho visto tutti i miei colleghi oggi. Come? Sì, sì, qualcuno mancava, ma non è niente di grave, non abbiamo motivo di sospettare perché-? Oh.]
si lasciò sfuggire un sorrisino compiaciuto: l'Ispettore, da personaggio non particolarmente brillante qual era, ci aveva messo un po' ma finalmente era arrivato al succo del discorso.
L'intero personale del laboratorio - la Vecchia guardia, quantomeno - era in grossi, grossi guai. O almeno, lo era stato quando ancora poteva rendersi conto di qualcosa, fino all'ultimo battito del suo cuore impazzito.
Così imparano a maltrattare le bambine piccole.
“Ehy, mi ascolti?”
“Sì, sì, sono un po' triste perchè sono sola. Però ho te, Cienna-chan, la mia amica del cuore.” replicò. Si chiese se la sua 'amica del cuore' avesse captato il cambio radicale del tono: più adulto. Freddo. Disinteressato. Con un gesto elegante si scostò dalla spalla i lisci capelli neri. “Vorrei tanto, tanto abbracciarti.”
[Cosa? Sta scherzando? Ci dev'essere un errore io] rumore dei polpastrelli che coprono frettolosamente la cornetta [ - Liz, vai su.]
[Che? E perchè?]
[Prendi la bambina e la macchina, muoviti. Siamo nella merda.]
[Dylan, per caso sei impazzito?]
Ma anche la Dottoressa si stava rendendo conto di qualcosa che non andava, di quel brivido gelido che le strisciava lungo la schiena, su fino alla gola.
[Fai come cazzo ti dico, Liz, sbrigati!]
Voci dall'altro capo del telefono. L'espressione incuriosita e gentile di Cienna che spalancava le braccia e accoglieva la Malattia, la Crudeltà, l'intero vaso di Pandora.
Un morso non trasmette l'epidemia.
Una trasfusione di sangue, quella sì. Ma un morso uccide e nutre e niente di più.
[Ok, ok, ora vado- ma che succede?]
[Niente per ora. Dobbiamo andarcene. Muoviti. Vai da Cienna e fate i bagagli velocemente.] si riaccosta il telefono all'orecchio. E' un modello nuovo, sa ancora di negozio e di scatola. [Mi scusi, Ispettore. No, certo, verrò a testimoniare. E' sicuro che sia omicidio?]
Sì.
Era sicuro.
Mittsu socchiuse le labbra, i canini affilati come lamette che sfioravano il collo dell'altra ragazzina. Non sarebbe stata completa, la sua vendetta, senza di lei.
“Ora stai meglio?”
“Sì.”
“Ti senti ancora sola?”
“Sì.”
La risposta zittì Cienna per una manciata di istanti, come se l'avesse delusa. “Oh.”
“Ma non preoccuparti. Va tutto bene.”
[Come sono morti? Mi capisce, erano miei colleghi, vorrei sape - Dissanguamento, ho capito. La ringrazio.]
Sentì la stretta leggera di Cienna sulla sua vita. Era piacevole e fresca, nonostante la consistenza ruvida del pigiama. Era pazza a usare una cosa così pesante a inizio estate.
I passi della dottoressa Brown rimbombavano nella tromba delle scale. Erano di legno, cave, coperte da un tappeto rosso. Il soffitto alto faceva rimbombare anche il passo più leggero.
Le vedeva e vedeva anche Elizabeth Brown salire due gradini alla volta, pallida.
"Sai, Cienna-chan? Il mio nome me l'ha dato il mio papà. E' giapponese. Significa Tre."
-Non aveva senso aspettare. Il ticchettio dei passi della dottoressa Brown si faceva più insistente.
Eppure, rimandava e rimandava.
Sentì un grumo di saliva scendere lungo la trachea della ragazzina e qualcosa, dal profondo del suo stomaco, gorgogliò. La sete ribolliva.
Chiedeva sangue e vendetta.
E ancora aspettava.
“Tua zia è malata, vero Cienna-chan?”
“E come lo sai?”
“L'ho sentito. Ti dispiace?”
“Un po'.”
“Sono malata anche io.” mormorò, con la bocca contro la pelle di quella che si credeva sua amica. Probabilmente le era arrivato come un sospiro, un sussurrare così flebile da farle credere di esserselo immaginato. Ma quel campanello dall'arme che ti avverte che l'esistenza terrena sta per finire ormai doveva essere suonato anche nella mente di Cienna, perchè si irrigidì. La pelle che sapeva di sapone alla vaniglia si tese, come per prepararsi ad accogliere il morso.
“Io-”
la voce della bambina tremava. Mittsu -Zero Zero Tre- la interruppe.
“Volevo salutarti, anche.”
“Salutarmi?”
“Volevo salutarti prima di ucciderti, Cienna-chan.”
[Sì. Verrò in centrale presto, davvero. Ora mi scusi, devo andare.]

-
“Liz? Liz, spicciati.”
Dylan Brown riagganciò con foga, rischiando di rompere il nuovo cordless per cui la moglie aveva tanto insistito.
Dio, ti prego, ti prego...
Dovevano fare i bagagli e partire. Scappare. Non importava dove.
Amy come avrebbe fatto? Se la sarebbe cavata.
Avevano fretta.
Erano in pericolo.
Cazzo, qualcuno, vi scongiuro, non adesso.
'Buona sera, dottoressa Brown. Da due anni non ci vediamo.'
Era stata la sua immaginazione che cominciava a prendersi troppe libertà? Sì, era solo un parto della sua mente spaventata. Si stava facendo confondere da una bambina morta, morta, morta, assolutamente morta.
Per un secondo ne fu convinto.
Quello dopo, l'aria fu bucata da un grido acuto, spezzato. Così improvviso che anche quello -di primo acchito- fu catalogato dalla sua mente come inventato.
Immaginato.
Ma era finita. Gioco perso.
Era passato il tempo per mentire a sé stessi.
Era scoccata la loro mezzanotte. Non avanzavano più secondi per niente.
Per la loro bambina.
Per la loro vita.
Per la loro battaglia.
Per loro.
-Solo.
La porta venne spinta in avanti, aprendosi con un cigolio.
Lasciava entrare un soffio di vento troppo freddo per essere giugno.
Dylan non ne aveva paura.
La testa era gonfia di quell'unica, stupida consapevolezza.
Ho sempre avuto ragione io.

Morire per il bene, morire senza ragione, morire per la scienza. Morire da eroe.
Sì, una bella prospettiva.
Solo troppo, troppo presto.



Fox Army Health Centre- Alabama.
23-07-2021

Type:Vampire. Female.
Dea-
Affianco al tavolo da dissezione, un telefono cominciò a vibrare.
L'infermiera venne rimproverata per non averlo spento, ma andava tutto bene -in fondo, era solo la dissezione di un esemplare infetto morto a causa della mancanza di Sangue. Niente di nuovo, test di routine. Quindi, poteva rispondere.
Chi stava scrivendo il verbale, al computer, smise di battere i tasti e alzò gli occhi sulla donna che si era portata il cellulare all'orecchio.
“Pronto? Sì. Sì sono al lavoro, è tutto ok?”
La vide impallidire.
Abbassare l'oggetto e coprirlo con una mano. Il guanto in lattice sporco di sangue avrebbe macchiato certamente lo schermo touch screen, ma non importava.
Aveva gli occhi pieni di lacrime. Balbettava di qualcosa di inspiegabile, di impossibile.
Di successo.
“- morti.”








Note-

Originale. Sì, beh, non è che lo sia poi molto.
E' un argomento trito e ritrito, e poi gli horror non fanno per me. Sono chimicamente incapace di creare suspance.
Tuttavia, Mittsu come personaggio mi piace. Per chi vi troverà qualche somiglianza, è ispirata a Sunako [di Shi Ki]
Attendo correzioni <3






   
 
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