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Autore: Bellis    17/05/2011    1 recensioni
Oscar Anstruther ritorna alla dimora di famiglia insieme al fratello Tobias. Si troverà a dover affrontare le memorie della sua giovinezza ed il senso di colpa per averle rinchiuse nel proprio inconscio per così tanti anni.
One-Shot Prima Classificata al Contest "In un giorno di pioggia" indetto da _kiriku_.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Diario della famiglia Anstruther'
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Questo racconto è stato scritto per il Contest Multifandom - In un giorno di pioggia indetto da _kiriku_, al quale si è classificata, in modo completamente inaspettato, Prima.
Debbo confessare di essere particolarmente legata allo scritto che stai per leggere. I personaggi protagonisti mi stanno a cuore, il soggetto trattato mi sta a cuore e la stesura ha occupato un intero pomeriggio di fila (cosa a dir poco atipica per la signorina scrivente). Probabilmente, come mi ha detto una persona, avevo necessità di scrivere ciò che alla fine ho messo su (virtuale) carta.
Un ultimo Disclaimer: Tobias ed Oscar Anstruther appartengono al gioco di ruolo The Strand Magazine - Il Forum di Baker Street. Più in particolare, il primo è stato creato dalla sottoscritta, il secondo dal caro dottor Joseph Bell. Lo si utilizza qui col suo permesso.
Meraviglioso bannerino a cura di Babysonfire, nei confronti della quale sono debitrice.
Buona Lettura.




Al fulgido Sole,
che ad ogni alba mantiene le sue promesse.
Ed a colui che mi rammenta sempre
di non aver mai paura.

Lo specchio delle stelle

"Non dirmi che hai perso la chiave."

Il tono era di lieve, annoiata stanchezza. Oscar Anstruther era in piedi, di fronte al portone di legno massiccio. Teneva con entrambe le mani l'impugnatura di un ombrello, che faceva di tanto in tanto oscillare da sinistra verso destra, fissando con sguardo assente le gocce di pioggia che scivolavano sulla stoffa scura e cadevano, infrangendosi sul terreno molle come una piccola cascatella di selvatici colori.

"No - no, ce l'ho -" il balbettìo che giunse a mò di replica precedette una rapida esclamazione di trionfo. Tobias mostrò una lunga chiave brunita che aveva recuperato da una tasca del soprabito, e si accinse ad aprire finalmente la serratura.

"Grazie al Cielo, fratello mio." borbottò l'altro, seccato, entrando in fretta dopo di lui e chiudendo l'uscio dietro le proprie spalle.

Si guardarono intorno, lentamente.
Un drappo nero pendeva ancora dal grande lampadario, nascondendo i graziosi filamenti carichi di lucenti perle di vetro ed i bracci argentati che ne costituivano la struttura. Anche i lumi ad olio erano stati schermati, in ossequio al grave lutto che aveva sottratto alla dimora il suo ultimo vero padrone. Una spessa coltre di polvere ristagnava in ogni dove; le loro scarpe scricchiolavano su quella che s'era fermata ad imbiancare il pavimento come l'eterna neve della vecchiaia fa con la chioma degli anziani. Oscar si chiese da quanto tempo non fosse ritornato alla propria casa natia, ma non trovò la forza di risalire indietro nel turbinoso torrente degli anni per rispondere.

Il silenzio era calato subitaneamente tra loro, come un altro di quei macabri, scuri teli che togliesse all'uno la visuale dell'altro. Eppure, lo sguardo di ciascuno dei fratelli era rivolto al proprio congiunto, in una muta e sincera consapevolezza di empatia.

"Andrò - andrò subito a prendere le carte necessarie al passaggio di proprietà." bisbigliò Tobias, e l'altro, faticando a udirlo, ebbe l'improvvisa, quasi comica intuizione che il congiunto volesse usare cautela, nell'annunziare alla casa che i suoi antichi abitanti l'avrebbero, di lì a pochi giorni, affidata a degli sconosciuti.

Eppure, Oscar pensava che l'addio fosse già stato dato, che le parole amare della separazione fossero già state pronunziate, molti anni addietro, quando entrambi erano fuggiti da una villa troppo grande, troppo ampia, troppo lugubre perchè due sole persone potessero dimorarvi serenamente.
Camminando attraverso l'ampio atrio, egli rammentò quel giorno, e meditò che non poi molto era mutato. La stessa aura di isolamento, quasi di maleficio permeava l'aria. La stessa mollezza pareva aver contagiato ogni suppellettile, ogni sedia, persino i tendaggi orlati di pizzo che coprivano la piccola finestra francese che dava sul cortile.

Il giovane tolse guanti e cappello e li appoggiò su di una mensola già carica di un grande candelabro di ottone annerito. S'incamminò lungo il corridoio, come in sogno. Forse, in qualche incubo, aveva già ripercorso quegli ambienti, coi passi oziosi e stanchi di chi non sappia dove dirigere il timone della propria esistenza. Si addentrò nel salotto; un telo bianco era stato tirato sulla dormeuse di seta blu che sostava dirimpetto al focolare spento, dando l'impressione di un lenzuolo nitido adagiato da un infermiere premuroso sulla forma immobile di un inerte corpo. Oscar rabbrividì e passò le dita esili sul profilo del divano, quasi ad accertarsi che non fosse veramente così. Mollemente, la mano si spostò sulla cornice lavorata di uno specchio, quindi su di un altro mobile dalla forma rettangolare, premendo un poco la stoffa che lo copriva, perchè una specie di pendenza sembrava indicare che non si trattasse altro che del...

Plin!
Una nota scaturì, come una scintilla da un accendino maneggiato senza cautela; riecheggiò nel salottino, e tutto parve ondeggiare e riprendere vita per un attimo, come se quella stanza fosse stata un dipinto al quale, con una goccia di colore, il pittore desse nuova linfa. Al breve suono di pianoforte, tutto parve scuotersi, per un attimo, ed Oscar ebbe la visione di quel posto ora trasandato com'era una volta, senza drappi di fantasma ad oscurarne i cantucci più gioiosi.

Ricordò, d'un tratto, chi sedeva per ore dinanzi a quel pianoforte, e d'istinto afferrò il velo polveroso che lo copriva, strappandolo via dalla copertura di legno, ancora liscia, dopo tutti quegli anni. Cercò un fazzoletto nel taschino del proprio soprabito e, quasi con reverenza, lucidò i tasti d'avorio. Fece scorrere una mano sul velluto del piccolo sgabello e prese posto su di esso.
Mi bemolle, una vetrata di mosaico.
Re maggiore, la risata di un fanciullo.
Fa minore, uno straziante amore.
Do minore, un sogno infranto.
Quella melodia, che sembrava provenire da molto lontano, risuonava nella mente del giovane uomo come una remota eco, ed egli cercò di seguirla, impiegando ogni propria buona volontà nel premere, col giusto ritmo e nella corretta sequenza, le sottili striscie bianche e nere. Si sorprese notando quanto fossero caotici i suoni che, uno dopo l'altro, si affollavano fluttuando pianamente verso l'alto soffitto affrescato; erano disordinati, come i suoi pensieri e come i suoi ricordi.

"Cos'hai, figlio mio?" diceva una bella voce di donna, quando quella stanza era ancora spoglia della sua vecchiezza ed adorna della più gioconda vita.

Oscar sorrise appena, levandosi in piedi come a lasciare il posto a quel caro ricordo, come se quella figura femminile fosse una gradita visitatrice per il suo animo così aggravato dalla cupa aura di gravi riflessioni. Le lasciò il posto ed il pianoforte; del resto, ella suonava molto meglio di lui.
"Sono turbato," mormorò, a se stesso ed a quella memoria che avrebbe voluto stringere in un abbraccio, come ciò che di più prezioso gli appartenesse.

"Sono turbato," ripetè l'altro lui, quello che era solamente un ragazzo imbronciato, poggiando la schiena alla credenza dai vetri smerigliati e guadagnandosi, per questo gesto istintivo, una occhiata di bonario rimprovero.

"Turbato? E perchè mai? Oh, sciocco che sei," la donna scosse il capo, incorniciato da una chioma nera come la sua, "Non mi avresti detto nulla, se non te l'avessi chiesto io?" si avvicinò alla stretta porticciola che conduceva alla veranda; dallo spiraglio una brezza sottile penetrava nel salotto, ed uno spicchio del cielo notturno si scorgeva, nel suo contrasto con la lucentezza delle fiamme che ravvivavano l'ambiente chiuso.

"No, madre." ammise il ragazzo, stringendosi nelle spalle, "Non volevo darvi un dispiacere."

"Dimmi, per quale motivo sei turbato?" domandò lei, sorridendogli dall'altro lato della stanza.

"Vedo tante strade innanzi a me, e non so quale scegliere. Tobias ha faticato molto a trovare la sua, e talvolta penso che la sua decisione gli sia molto grave. Ma non vuole ritornare sui suoi passi, ed io temo il dover dare la mia parola una volta e per sempre."

"E chi non ne avrebbe timore?" Elsa lo osservò con dolcezza. Tese una mano verso di lui, "Oscar, figlio mio, seguimi sulla veranda, e lì mi dirai quale strada sia più assolata e diritta, tra quelle che puoi scorgere."

"No, madre." ripetè lui, a disagio, "Rimaniamo qui. L'usignolo canta, sbirciando col suo occhio indiscreto le ombre del crepuscolo. Io mi sto confidando con voi, e non desidero che egli oda le parole del mio cuore."

Lei rise a bassa voce. "Se ti assecondassi, dopo avresti timore anche delle ombre. Figlio mio, devi farti coraggio e parlare anche di fronte a quella spia ciarliera dell'usignolo. Seguimi."

Oscar abbassò lo sguardo, assai restìo, ed Elsa gli si avvicinò, la preoccupazione che adombrava lo sguardo prima quasi bambinesco nel suo ingenuo divertimento.

"Che cosa ti atterrisce?" gli domandò, prendendo le sue mani nelle proprie.

"Il Cielo." rispose lui, con fatica. "Il Cielo, quella vasta, immensa distesa scura, che pare farsi beffe di noi, così limitati, così rinchiusi nel nostro mondo, mentre esso, privo di confini, spazia oltre ogni orizzonte ed immerge il Mondo nella sua nera aura sconfinata, notte dopo notte. E' il Cielo, azzurro emblema indiscusso di mille strade i cui margini non furono mai tracciati, e che gli uomini debbono trovare, ed i cui percorsi spiraleggianti seguitano a scavare, senza mai posa. E' il Cielo, madre... esso mi atterrisce più di ogni cosa."

Elsa lo fissò a lungo, con uno sguardo penetrante che egli non ebbe il coraggio d'incontrare.
"Seguimi." bisbigliò, tendendo le braccia e facendo qualche passo indietro.

Il ragazzo deglutì. "Madre, io..."

"Fidati di me." gli sorrise, "Oppure trovi inquietante anche l'azzurro nei miei occhi?"

Le sue iridi scure incontrarono quelle celesti di lei, e i lineamenti del suo volto si distesero, mentre egli le obbediva. L'eterna, immensa volta parve avvicinarsi a lui, mentre egli si approssimava alla madre, ed i mille suoni della campagna e della brughiera colmavano i suoi sensi: il pungolo frizzante dell'aria, il suono sommesso delle cicale che cantavano incessantemente durante l'estate, i gorgheggi lamentosi dell'usignolo.
Oscar udì un pacato cigolio ed immaginò che Elsa stesse accostando l'anta. Tutto si fece buio.

"Guarda, caro ragazzo mio. L'immensa tela azzurra del Cielo è distesa innanzi ai nostri occhi come un pregiato tappeto orientale dinanzi agli occhi dell'imperatore. Un artista dalla mano ferma l'ha trapunta con mille gemme luccicanti, e ha pensato di colorarla di una tenue tinta aranciata, là ad Ovest, dove si affievolisce e si spegne il più grande lume col quale l'Uomo possa rischiarare il proprio cammino. Mille donne stanno rimboccando con questa grande e spessa stoffa i giacigli dei loro piccini, e cullati da questo infinito silenzio mille bambini stanno lasciando questo mondo di sogno per il sogno di questo mondo.

"Guarda! Tu dici che il Cielo ha mille strade, che ci sono nascoste. Eppure io le vedo tutte, e l'occhio umano perse la vista per generazioni, nel cercarle tutte e catalogarle. Vedo mille forme d'animali, di oggetti, vedo i profili dei nostri cari, se unisco punto a punto le sfavillanti luci che rischiarano anche la notte più cupa. Vieni qui, figlio mio."

Il ragazzo si avvicinò, lo sguardo incatenato a quella vastissima cupola che gli era parsa così priva di vita, solo pochi minuti avanti. Ora pareva che il fulgore delle stelle crescesse di pari passo con l'oscurità.

"Guarda, Oscar. Splendono per noi, per noi soltanto! Se rimani a fissare le stelle sino a che esse paiono brillare a piccoli gruppi, come grappoli d'uva di un colore bianco vivo, non ti sembrano forme? Non sembra che ti indichino la via? Non ti dicono forse: - Non temere, il Sole manterrà la promessa che sigillò col rosso del suo stesso sangue, al tramonto: ritornerà a te! -"

"Oh, madre!" mormorò Oscar, la voce soffocata. Sentì nuovamente le mani di lei sulle proprie.

"Figlio mio, non temere. Troverai la tua strada, ed essa ti apparirà la più brillante di tutte. Non serbare turbamento o paure, sii impavido! Il Sole brillerà nel Cielo anche dopo la notte più cupa, trasformando il nero nell'azzurro e nel celeste, credi a me! Oh, ma che dico," la leggiadria irruppe nel tono grazioso, e la sua chioma ricadde sulla spalla del figlio, mentre il viso vi si adagiava, "Non credere a me: credi alle stelle."

Credette d'aver poggiato il proprio capo su quello di Elsa, ma quello era l'altro lui, quello del ricordo; quello che era perduto, e che non sarebbe mai più ritornato, proprio come colei il cui grande cuore e la profonda saggezza lo avevano sempre guidato.
Si rese conto d'essere curvo, le spalle poggiate allo stipite di quel sottile uscio all'esterno del quale le nubi riversavano il diluvio sulla brughiera. Si avvide di aver le gote umide solamente quando una mano si poggiò delicatamente sulla sua spalla, e sollevando lo sguardo incontrò quello di Tobias, colmo di apprensione. Per un attimo pensò di spiegargli d'essersi bagnato durante la loro precedente sosta sotto la pioggia; ma capì che neppure il suo ingenuo fratello maggiore gli avrebbe creduto.

"Non avrei dovuto chiederti di accompagnarmi qui." balbettò quegli.

Oscar scosse il capo, freneticamente.
"Pensavo... fosse vuota, questa casa. Davvero, Tobias. Ritenevo d'essermi allontanato dal nulla, dal tedio, dalla noia. Ed invece, dopo anni di menzogna a me stesso, capisco d'esser fuggito da qualcosa che non avrei potuto accettare d'aver accanto."

"Questa casa," l'altro accennò un triste sorriso, guidandolo verso una poltrona e lasciando che vi si abbandonasse, "Non sarà mai, mai vuota. Mai - mai, per noi."

"Abbiamo lasciato andare loro, fratello, ed ora lasceremo anche questa casa, che è tutto ciò che ci rimane di ciò che essi furono, di come vivessero. Tobias," il tono era quasi implorante, il contegno febbricitante, "Noi li stiamo abbandonando, proprio come abbiamo fatto quando essi se ne sono andati. Abbiamo creduto di dovercene andare anche noi. Credevo che questa casa fosse vuota, che i suoi antichi abitanti fossero morti, svaniti nel nulla. Non è così."

Il maggiore gli si avvicinò, sedendo di fronte a lui. Oscar ebbe la fugace visione del suo fratello, ancora ragazzo, che ascoltava con la massima serietà di come egli, il giorno seguente la narrazione da parte di Elsa di un racconto irlandese, avesse veduto nientemeno che un folletto sbucare da un cespuglio di biancospino. Pensò di essere sull'orlo di un vertiginoso baratro, quello della follia.

"E' tutto troppo doloroso, Tobias," scosse il capo, sopraffatto dal turbinìo delle emozioni che parevano vorticare innanzi a lui, come se egli le osservasse da una grande altezza, "Noi ora ce ne andremo, e li abbandoneremo di nuovo. Chiuderemo ciò che resta di loro in questa casa; lasceremo dietro le spalle il loro ricordo; faremo rapidamente scorrere il chiavistello della nostra diabolica volontà, per sigillare la nostra mente ed il nostro cuore, per dimenticare... è troppo doloroso, fratello mio. Lo è restare, e lo è partire... non so quale alternativa sia più straziante..."

"Noi non potremo - mai - separarci completamente da loro, Oscar," intervenne il fratello, interrompendo la piena di quel roboante flusso di parole, "Sono parte di noi. Hanno accompagnato i nostri primi passi. E' naturale che guidino ciascuno di essi ancora oggi, che l'età della fanciullezza è per noi ormai lontana. Cerchiamo il loro consiglio ogni volta che ci accostiamo alla nostra coscienza, o facciamo affidamento sulla nostra fede. Ed ancora, quando siamo inquieti, le loro parole compaiono, incise a fuoco nella mente, come epigrammi. Non è forse vero, che ci indicano ancora la strada ad ogni bivio?" con un leggero sorriso ingenuo, Tobias lo osservò. "Tu - tu cosa fai, fratello mio, quando hai troppe vie innanzi a te, e non sai quale scegliere?"

Oscar deglutì; non seppe dire se il congiunto avesse, all'epoca, udito la loro conversazione, oppure se fosse stato lui stesso a raccontargliela, ma fu lieto che avesse attinto ad un ricordo così vivido nel suo intelletto.
"Chiedo alle stelle." mormorò, ed istintivamente le iridi si posarono sulla vetrata che dava all'esterno. Un grigio plumbeo irradiava d'un malsano colore grigiastro l'erba, gli alberi ed i fiori. "Ma non vedo neppure il cielo, da qui."

Tobias seguì il suo sguardo, scrutando le nubi tempestose, accigliato e meditabondo. Si alzò e si avvicinò all'uscio, dischiudendolo, con qualche difficoltà nel far girare l'anta sui cardini arrugginiti. Un forte odore di terra bagnata spazzò via quello che ristagnava nella stanza chiusa.

Il più giovane fissò il fratello, che se ne stava immobile, una mano sul muro di mattoni che fungeva da perimetro esterno dell'abitazione; lo vide voltarsi, ad un certo punto, con un brillio di realizzazione che splendeva nel volto mite.
"Vieni qui. Guarda."

Obbedì. Non lo fece di malavoglia, ma con un senso di inutilità che rese più faticoso ogni suo movimento. Tuttavia, quando fu a fianco di Tobias, capì che ne era valsa la pena.

Il prato, mille fili verdi nel pieno della loro rigogliosa esistenza estiva, era scosso dalle intemperie; l'acqua, i myosotis e la peculiare luce gli avevano fatto assumere un colore ciano, ed il vento lo faceva ondeggiare, come se mille volute opache passassero continuamente su di una distesa turchina. I cespugli di rose erano cresciuti, infoltendosi, forti della loro nuova, selvatica libertà, ed i boccioli gialli spiccavano in una forma tondeggiante e semicoperta dai rami di un vicino salice. I gelsomini avevano proliferato, sbucando dai margini sassosi delle aiuole e costellando di macchie bianche le fronde incolte degli arbusti vicini.
E le gocce di pioggia... scintillavano come allegre gemme: mille luci chiare che si specchiavano nella volta vorticante di vapore.

L'azzurro di due occhi ridenti, in netto contrasto con una lunga chioma corvina, parve - in un sogno lontano eppure in quel momento così vicino - sfavillare benevolmente in direzione dei due fratelli.


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A la prochaine fois.
   
 
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