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Autore: _juliet    24/05/2011    3 recensioni
Mentre mi dicevo per l'ennesima volta che stavo davvero per andarmene, non potei fare a meno di pensare che i momenti più significativi della mia vita erano stati segnati dalla pioggia: pioggia primaverile, acquazzoni estivi... e, quel giorno, pioggia di novembre.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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 – November rain –

 

Pioveva. Tipica pioggia novembrina: cadeva abbondante e creava un alone di umidità che rendeva il mondo piatto.
Fissavo le gocce cadere sul parabrezza, allungarsi sul vetro quando l'auto accelerava. Mentre mi dicevo per l'ennesima volta che stavo davvero per andarmene, non potei fare a meno di pensare che i momenti più significativi della mia vita erano stati segnati dalla pioggia: pioggia primaverile, acquazzoni estivi... e, quel giorno, pioggia di novembre.
Mio fratello Jack, al sedile del guidatore, ingranava le marce con delicatezza, ma il suo viso era una maschera di emozioni; difficile stabilire quale fosse la prevalente, perché continuava a cambiare: rabbia, tristezza, angoscia, di nuovo rabbia.
Ero sicuro che si fosse accorto che lo stavo fissando, ma che evitasse di proposito il contatto visivo.
Non potevo dargli torto: in quel modo era più facile portarmi lontano, era più facile non pensare. Io stesso pensavo ad altro.
Non era qualcosa di volontario: avevo sempre avuto uno strano talento nel reprimere gli episodi spiacevoli. Qualche giorno prima, avevo messo malamente fine alla mia storia, uscendone solo con un livido sotto l'occhio sinistro e niente di più.
Per tutta la vita, avevo vissuto in una piccola cittadina in cui chiunque sapeva tutto di tutti, e probabilmente questa era stata la mia rovina. Quasi certamente, la maggior parte delle persone che vedevo ferme sui marciapiedi erano intente a intrattenere conversazioni su di me, che me ne stavo andando.
Spostai un'altra volta lo sguardo su Jack, mentre imboccavamo la strada che portava fuori dal paese. Era una bella via, con a destra un prato e a sinistra una pista ciclabile che costeggiava un piccolo stagno; quando eravamo piccoli andavamo sempre a dare del pane alle papere, anche se non si poteva.
Quel ricordo mi divertì per un istante, ma il mio sorriso si spense presto: quella strada mi avrebbe portato via; solo un ultimo semaforo mi divideva tra quella che era sempre stata la mia vita e il nulla.
Qualcosa cominciò a muoversi nel mio cuore e la voce uscì da sola; ma era così flebile che neanche io capii cosa avevo detto.
Un tremore della mascella, le mani che stringevano più forte il volante, e capii che Jack se n'era accorto. Però continuò a tenere gli occhi fissi sulla strada, come se da quello dipendesse la sua vita.
Quasi per darmi l'ultimo colpo, proprio in quel momento il semaforo diventò rosso. Sentire l'auto frenare mi risultò insopportabile e chinai la testa.
Con la coda dell'occhio, scorsi mio fratello lanciarmi uno sguardo veloce, prima di accasciarsi sul sedile, sospirando.
Per tutto il tempo che aspettammo, l'unico rumore nell'abitacolo fu quello della pioggia che batteva più forte.
Quando si accese la luce verde, Jack accelerò con nuova convinzione e imboccò la strada successiva.
Provai a ricacciare indietro la tristezza, ma senza risultato: la tensione aveva fatto il suo lavoro, e scoprii di avere gli occhi colmi di lacrime. Era solo questione di istanti, prima che strabordassero.
Colsi un sibilo da parte di mio fratello e vidi che si sporgeva verso il parabrezza, per vedere meglio qualcosa oltre la pioggia.
Mi costrinsi ad alzare lo sguardo, tutto sommato lieto di essere stato distratto.
La pioggia si era fatta veramente fitta, ma si intravedeva chiaramente una figura ferma in strada, vicino alla linea di mezzeria.
«Ne ha di coraggio, a stare sotto la pioggia così» commentò Jack, mentre rallentava e sterzava, spostandosi sull'altra corsia.
La figura non aveva un ombrello; sembrava non curarsi dei vestiti zuppi e fissava l'auto. Quando le passammo a fianco, percepii il suo sguardo nel mio al di là del finestrino.
Mi ritrassi immediatamente. Avevo gli occhi lucidi e non potevo essere sicuro di chi avevo visto. Il paese sapeva tutto e pioveva, pioveva tanto forte che non c'era nessuno a parte noi su quella maledetta strada. Perché non voleva lasciarmi stare?
«Mah» mormorò mio fratello, lasciandosi sfuggire un risolino.
Ma io non ascoltavo più. Tentavo di convincermi di non sapere chi avevo visto, perché stava piovendo; avevo visto solo una figura, un'ombra nera. Non c'era niente che potesse farmi pensare che fosse lui.
«Senti, Joey…» cominciò Jack, ma la mia voce uscì da sola ancora una volta, tanto ferma e decisa che lasciò di stucco entrambi.
«Come, scusa?» questa volta, l'unica emozione sul suo volto era la sorpresa.
Slacciai la cintura di sicurezza e lo guardai negli occhi. «Ferma la macchina» ripetei. «Fermati, ti prego.»
Lui tentò di boccheggiare qualcosa, ma ormai avevo capito perché aveva cercato di evitare il contatto visivo per tutta la durata del viaggio.
Con un sorriso triste, chinò la testa e frenò docilmente. Non tentò di fermarmi, quando uscii dall'abitacolo senza neanche prendere qualcosa con cui ripararmi.
Chiusi accuratamente la portiera e guardai indietro. La figura era ancora là e non sembrava intenzionata a muoversi.
Mi ritrovai a camminare, facendomi scudo con un braccio davanti agli occhi. Avanzai fino quasi a raggiungerlo, ma fui costretto a fermarmi.
Cosa diavolo stavo facendo? Tornavo indietro? Per fare cosa? Il mio istinto premeva perché riprendessi a camminare, ma il mio cuore ferito si era preparato e abituato all'idea del distacco... non avrebbe sopportato altro. Io non avrei sopportato altro; né di tornare indietro, né di andare avanti. Così, mi fermai in un limbo immaginario, mentre il vento ululava e la pioggia mi scorreva addosso.
Fu allora che la figura si mosse; coprì in pochi passi la distanza che ci separava e si gettò contro di me.
Non ebbi il tempo di pensare nulla; quando il mio corpo percepì le sue braccia che lo stringevano convulsamente, si rilassò, e mi accorsi che fino a quel momento stavo tremando e sentivo la sua guancia premere contro l'incavo del mio collo e, per un attimo, fu solo il rumore della pioggia.
Poi, il suo respiro, il battito del suo cuore. E poi i suoi capelli bagnati, appiccicati alla fronte, e i suoi occhi. La sua bellezza, le forme del suo corpo. E le nostre parole, i giorni trascorsi insieme, le nostre notti.
In un istante, realizzai tutte quelle cose. E quando capii che la persona che incarnava tutte quelle cose era la stessa che mi stava stringendo come se fossi il suo tesoro, non riuscii a non scoppiare in un pianto liberatorio.
Sì, era un pianto di sollievo, perché una parte di me era troppo scettica per crederci; ci eravamo feriti a vicenda solo qualche giorno prima ma, nonostante questo, le sue braccia erano ancora rifugio sicuro.
Non parlò né allentò la stretta finché non si accorse che mi ero calmato.
Mentre gli ultimi singhiozzi lasciavano il posto a un respiro regolare, percepii il tocco delicato della sua mano su una guancia. Voleva guardarmi, ma io non potevo incrociare il suo sguardo, sapendo quello che avrei visto.
Proprio come temevo, quando parlò la sua voce era rotta.
«Non volevo» disse, percorrendo con le dita i contorni del livido che mi aveva lasciato. «Non volevo.»
Quando era successo, mi ero ripromesso che non avrei mai potuto perdonare il fatto che mi avesse colpito. Ora, però, tutto quello che avevo pensato in quei giorni mi sembrava stupido. Io ero stato stupido.
Posai la mano sulla sua. «Anch'io non volevo dire quello che ho detto» confessai.
Tacque a lungo, ma non feci nulla: era un silenzio carico di parole, ed ero sicuro che avrebbe rinunciato al suo stupido orgoglio e le avrebbe dette.
Dal tono della sua voce, capii che aveva abbassato la testa. «Io-» mormorò infine. «Io capisco se te ne vuoi andare.»
Pioggia.
Oh, quindi non era venuto per fermarmi. Il mio cuore tremò, ma in fondo sapevo che avrei dovuto aspettarmelo. Era venuto solo per farmi sapere che capiva il mio “bisogno” di andarmene; con tutta probabilità, la sua prossima mossa sarebbe stata dirmi che la mia felicità era l'unica cosa importante. Crudele, dato che sapeva che la mia unica possibilità di essere felice era di rimanere con lui.
Mi tornò il bisogno di piangere e mi sentii ancora più stupido. Stavo per voltarmi e andarmene, quando la presa delle sue mani sul mio viso si fece più salda, e fui costretto a incrociare il suo sguardo.
«Capisco, ma preferirei che rimanessi» disse, accennando un sorriso triste.
La disperazione nei suoi occhi annientò ogni mio possibile rifiuto, fisico o mentale. Abbandonai la testa contro la sua mano e dissi la verità: «Anch'io.»
Pioggia.
«Non farlo» disse, appoggiando la fronte contro la mia. Parlava più forte, per sovrastare l'acquazzone. «Ti prego. Non andare via.»
Ero intrappolato da quello sguardo così abbattuto, e mi resi conto che stavo cadendo nelle sue mani. Un lampo di razionalità mi aiutò a ricordare che ero ancora stretto fra la sue braccia.
Mi sciolsi dall'abbraccio e feci un passo indietro, attento a non incrociare i suoi occhi di nuovo.
«Joey-» iniziò.
«Non posso rimanere!» esclamai. Feci un gesto vago con la mano, un gesto che, nelle mie intenzioni, conteneva il fatto che eravamo stati scoperti, e che la mia famiglia ne era distrutta, e probabilmente anche la sua, e che la città sapeva tutto.
«Non posso» ripetei.
«Ti prego.»
Non l'avevo mai visto supplicare prima di allora. Per evitare che la mia voce si rompesse, scossi piano la testa.
Pioggia.
Mi azzardai ad alzare lo sguardo. Guardava per terra e stringeva i pugni. Tremava, forse? Con una mano, si scostò nervosamente i capelli dalla fronte, mentre mormorava qualcosa sottovoce, troppo piano perché io potessi sentire. Infine rilassò le braccia e parlò di nuovo. La sua voce non era più rotta, ma era ritornata quella forte e limpida che conoscevo e amavo. Solo una punta di amarezza la rovinava ancora. «Allora guardami bene» disse. «Guardami negli occhi, e dimmi che non mi ami.»
Lo disse a testa alta, perché sapeva che in questo modo mi avrebbe avuto in pugno. Non ero in grado di mentire, non ne ero mai stato capace, e non avrei mai mentito sui miei sentimenti.
«Non puoi metterla su questo piano» bofonchiai. Questa volta taccava a me supplicare.
Scosse la testa. «Dimmelo, Joey.»
Non mi chiamava mai per nome; fin da prima che la nostra relazione iniziasse, ci eravamo sempre dati dei soprannomi. Ci chiamavamo per nome solo quando litigavamo pesantemente e quando facevamo sesso.
Mi aveva chiamato per nome per ferirmi ed era per farmi male che usava il sentimento che ci legava solo quando gli era più comodo.
La mia mente ripercorse tutto quello che ci eravamo detti in quei giorni, le discussioni, le litigate culminate con il livido sulla mia guancia, le sue scuse gridate da dietro la porta, le promesse che non intendeva mantenere, il suo rifiuto di fronte alle mie suppliche. E ora questo. Ora che mi ero costretto a prendere una decisione sofferta. Doveva sempre ferirmi, sembrava che non potesse farne a meno.
«Forse è così. Forse non ti amo più» dissi.
Il mio cuore si gonfiò di dolore nel momento stesso in cui finii di pronunciare la frase, divenne un masso che mi bloccava il respiro. Non riuscivo a capacitarmi di aver pronunciato quelle parole, le avevo dette veramente? Sconcertato da me stesso, lo guardai, cercando quell'aiuto che lui sapeva darmi sempre.
Ma nel suo sguardo trovai solo la pioggia.
Per qualche attimo, furono i suoi occhi nei miei. Mentre io ero incredulo per quanto stava accadendo senza che riuscissi ad averne il controllo, lui sembrava essere molto tranquillo: mi guardava quasi senza sbattere le palpebre, in quel modo che mi metteva sempre un po' a disagio; sembrava che volesse prendermi e rinchiudermi da qualche parte, impedire al mondo di sapere della mia esistenza.
Lentamente, la sua espressione cambiò: fu rimpiazzata da una smorfia di dolore e, mentre abbassava la testa per nascondersi, gli sfuggì un suono che non riuscii a interpretare.
Quando rialzò lo sguardo, cercando di abbozzare un sorriso, mormorò: «Va bene.»
Lo disse come lo dice un genitore al figlio che ha paura del buio. Le sue parole erano talmente fievoli che non riuscii a capire se le avevo sentite o avevo solo letto il labiale.
Alzò una mano, come se volesse toccarmi, ma cambiò idea. Mi voltò le spalle e si allontanò, per poi fermarsi sotto un albero, le mani appoggiate sulla recinzione dello stagno, la testa bassa.
Mentre cercavo di fare ordine nella mia mente, domandandomi il perché della sua aria sconfitta, dell'alone di solitudine che improvvisamente sembrava avvolgerlo, qualcosa mi riparò dalla pioggia, e sentii mio fratello chiedere: «È lui
Continuavo a osservare Lucas, poco cosciente di quello che accadeva intorno a me; lo spazio sembrava muoversi, vorticare, lui era solo e io non riuscivo a dire niente, era a pochi metri da me, ma scivolava via lentamente.
Sembrava che ci fosse un muro fra di noi e una sbarra di metallo nel mio petto. Ripensai a ciò che gli avevo detto e compresi che avevo appena posto la parola “fine” alla nostra storia.
«È lui» confermai.
Il primo singhiozzo mi tolse il respiro. Improvvisamente, i miei sensi percepivano solo paura; potevo sentirne l'odore, il sapore, potevo toccarla. Un terrore gelido e inesorabile velò la mia vista e trasformò l'aria in un liquido denso che mi impediva di respirare. Poi, bruscamente, da ogni parte, dalle profondità della terra, il dolore mi colpì e mi sommerse. Non riconoscevo più nulla, esisteva solo il dolore.
Jack mi accarezzò la testa e, dopo un attimo di silenzio imbarazzato, disse: «Senti, so cosa stai facendo. Però guardati: non stai bene. E mi sembra che non stia bene neanche lui. Smetti di pensare a mamma e papà... pensa a voi due» continuò, con le guance colorate di una vivida sfumatura di rosso.
Vidi che Lucas si era portato una mano al volto, si era piegato in avanti, le sue spalle tremavano.
Da una parte lui, la sua schiena bagnata; dall'altra una famiglia che non mi voleva più.
Non era mai stato il pensiero di lasciare la mia casa a impedirmi di respirare; quel pezzo di ferro nel mio cuore era lui, era non averlo mai più. Lui non era tutto, questo lo sapevo bene, però era tanto di ciò che nella mia vita era meraviglioso. Ed era solo a qualche metro da me.
Come ipnotizzato, lo raggiunsi.
Lui mi sentì e si voltò; ero tanto felice che non mi resi conto della sua espressione furiosa. Senza lasciarmi il tempo di dire nulla, mi afferrò per il bavero della camicia e gridò: «Perché?»
Jack gli urlò qualcosa sullo stare calmi e sul lasciarmi andare immediatamente, ma Lucas non ascoltò e continuò a parlare con me, abbassando il tono di voce.
«Quello che pensa la tua famiglia è importante! Quello che pensa la gente è importante! Io cosa sono per te?»
Mi guardò, in attesa di una risposta, ma io ero troppo confuso per pensare, perché vedevo i suoi occhi, e la pioggia, e mio fratello in disparte, poi di nuovo i suoi occhi, il suo viso, le sue lacrime, e non avrei desiderato vedere altro per il resto della vita.
Non volevo neanche pensare a come avevo fatto a dirgli che non lo amavo. Non esisteva un muro che potesse dividerci, non c'era mai stato.
Forse non aveva creduto alla mia bugia, ma sembrava che non sapesse in cosa credere.
«Joey, amore mio, io non valgo più di quelle cose?» lasciò andare la mia camicia e si scostò di nuovo i capelli bagnati dalla fronte.
Mio fratello che, nel frattempo, si era avvicinato, mormorò un «Bene, io vado a mettermi là in fondo», allontanandosi ancora prima di finire la frase.
Dopo qualche attimo di silenzio, Lucas guardò a terra per un momento, poi si avvicinò. «Mi dispiace di averti costretto a dire cose che non volevi. So di non essere la persona per cui vale la pena rischiare la tua felicità. Ho cercato di farmene una ragione, so che la nostra relazione forse non ha futuro e so anche che non siamo in un film, però ora sono qui» mi prese il viso fra le mani. «Perché non posso lasciarti andare.»
La mia risata lo colpì come un pugno nello stomaco. Rimase immobile di fronte a me, con gli occhi spalancati e la bocca mezza aperta.
Era un'espressione tanto strana che risi ancora più forte. Mi alzai in punta di piedi per riuscire ad abbracciarlo. «Ti amo» dissi semplicemente, mentre il mio riso finalmente si spegneva.
Sfiorai con il naso la punta del suo mento e gli poggiai la testa sulla spalla, come mi faceva fare sempre quando ero triste. Respirai il suo odore, e poco mi importava il raffreddore che ci aspettava per aver preso tutta quell'acqua.
Lui non si muoveva. Mi scostai, tenendogli le mani sul petto, e lo guardai, ma lui evitò di incrociare il mio sguardo. Oltre all'incertezza, sul suo viso colsi una sfumatura di broncio. Adorabile.
«Hai detto che non puoi lasciarmi andare. Allora vieni con me. Andiamo via insieme.»
Lucas riportò su di me uno sguardo incredulo, le sue sopracciglia si alzarono tanto da sparire dietro i capelli bagnati che ricadevano sulla fronte. La sua bocca si aprì per dire qualcosa ma, dopo qualche istante, la richiuse. Poi la riaprì, ma non disse nulla. Riuscì a distendere le labbra in un sorriso incerto.
Impaziente, allungai le mani verso il suo viso; come per un riflesso incondizionato, lui si abbassò fino a permettermi di baciarlo. E mi venne da ridere ancora, perché lo baciavo, ma lui guardava da un'altra parte, e pioveva, e mio fratello stava ostinatamente qualche metro più in là. Era il bacio più stupido e meraviglioso che avessi mai dato.
Dato che non riuscivo a ottenere reazioni, sciolsi l'abbraccio. In fondo, dovevo lasciargli i suoi spazi, per decidere avrebbe avuto bisogno di tempo.
Decisi di fare un passo indietro, ma in quello stesso momento anche lui si mosse. Forse interpretò il mio gesto come un allontanamento e, con il terrore dipinto sul volto, mi afferrò per il polso.
Un attimo di silenzio, uno sguardo, e mi attirò a sé.
Mi strinse forte, quasi volesse assorbirmi, e mi cullò, lasciando che il mio corpo si rilassasse. Mi strinse, e sapevo che quell'abbraccio mi avrebbe protetto. Mi strinse, e io non avevo bisogno d'altro.
Era vero, i momenti più significativi della mia vita erano sempre stati segnati dalla pioggia: pioggia primaverile, acquazzoni estivi... e, quel giorno, pioggia di novembre.

  
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