Il pavimento freddo
e colorato era circondato da mura giallastre e spente, un soffitto fin
troppo basso,
che costituiva spesso un grosso problema, completava quel rettangolo di
palestra, sede e osservatrice di miriadi di emozioni.
Le panchine marroni
erano ammucchiate davanti le spalliere inutilizzate, i canestri
dimenticati erano
spesso soggetti a tiri senza pretese e vedevano palloni di pallavolo
rimbalzare
contro l’anello di ferro.
Una rete di circa 2
metri si ergeva al centro esatto dei due campi di pallavolo; due file
di
ragazze nel fatidico posto quattro aspettavano educatamente il proprio
turno:
qualcuna scambiava una chiacchiera con la compagna davanti,
qualcun’altra
palleggiava sul posto, altre ancora aggiustavano i ciuffi di capelli
ribelli
che cadevano sulle spalle sudate.
Quando arrivò il
turno di Debora, la palleggiatrice si sistemò bene nella sua
posizione davanti
la rete, quasi come se avesse paura di sbagliare l’alzata
proprio a lei.
Le mani della
giovane schiacciatrice sbattevano la palla freneticamente per terra,
mentre la
tensione saliva sempre più; ogni passo era una ripetizione:
*Lascia fuori i
problemi dalla schiacciata, non pensarci mentre sei in volo.
*Ricorda bene i
passi e rispetta i tempi prima di saltare.
*Indurisci il polso
*Mettici abbastanza
forza.
Non sapeva
esattamente cosa fosse, ma nel momento in cui la palla
gonfiò la rete e scivolò
per terra nel suo stesso campo, era quasi totalmente sicura che questo
fosse
dovuto alla sua incredibile paura di sbagliare, di deludere il suo
allenatore
che riponeva tanta fiducia in lei da dedicarle notevoli attenzioni.
Eppure lei non
riusciva a fare tesoro di quei consigli, ci provava davvero con tutta
se stessa
a seguirli, ma proprio non ci riusciva.
Sarebbe stata messa
da parte, ne era sicura.
Raccolse ancora una
volta la palla e superò la rete per andare a sistemarsi
nella fila opposta.
Avrebbe voluto
evitare di pensare ancora a tutte quelle raccomandazioni, ma
più sbagliava più
ripeteva a mente ciò che doveva fare; ma più
ripeteva a mente ciò che doveva
fare, più sbagliava qualcosa e mandava la palla in rete.
Era un circolo
vizioso e la sua poca convinzione – che diminuiva di
più ogni attacco che
sbagliava – di certo non l’aiutava.
Debs amava la
pallavolo, era il suo modo per evadere dalla realtà, il suo
mondo di salti
felici e palloni volanti.
Qualche tiro di calcio pure ci usciva, ma erano
semplici modi per passare il tempo con le compagne di squadra.
Debs inoltre amava
le sue compagne di squadra: riteneva che quelle amicizie nate tra un
bagher ed
una schiacciata, tra un punto ed un altro, potessero essere le
più sincere.
Il tenersi forza a
vicenda, la speranza di tutte, il battito dei loro cuori a tempo e
l’urlo e gli
abbracci di gioia alla fine della vittoria di un set, non
può non unire
determinate persone.
Era soprattutto la condivisione
che le univa.
Il condividere
tutto, dagli spogliatoi alle emozioni.
Ma durante gli
allenamenti, quando gli occhi dell’allenatore erano puntati
su ogni movimento
di Debora, per lei non esisteva nessuna squadra.
Nessuno spirito di
gruppo.
Nessun amore o
passione.
C’era solo lei,
quell’alzatrice, quella palla e quella dannatissima rete.
Doveva smettere di
pensare e cominciare ad ascoltare.
Doveva ascoltare il
suo fiato corto e la sua voglia di riuscire, solo così
avrebbe fatto i passi
giusti al momento giusto.
E in quell’attimo
di sospensione massima, mentre il braccio era in perfetto accordo con
il resto
del corpo, lentamente aprì gli occhi e per un attimo le
parve di volare.
Senza nemmeno
accorgersi di ciò che stava facendo colpì la
palla con tutta la forza che aveva
e quest’ultima schizzò via e rimbalzò
nel campo avversario con tanta forza da
arrivare al soffitto.
Mentre ricadeva sui
piedi quel silenzio intorno a sé si trasformò in
un boato di complimenti volato
dalle fila del suo allenatore e dei suoi collaboratori, e da qualche
compagna
che aveva assistito.
L’applauso fiero
del suo allenatore e i suoi occhi compiaciuti la convinsero: non
avrebbe mai
lasciato questo sport.
Debs raccolse la
palla, ordinò la sua maglietta con il numero 9 stampato
dietro e si sistemò
nuovamente nella fila opposta.
Intorno a sé tutto aveva ripreso a scorrere come sempre, ma quell’attimo che aveva vissuto poco prima, quell’attimo che era solo suo e che pur volendo non avrebbe potuto condividere con la sua squadra, le era rimasto impresso nella mente e non l’avrebbe mai lasciata.
Lo avrebbe rivissuto ogni volta che avrebbe
schiacciato, anche
dopo anni e anni di pallavolo.
Bhè ma lei questo
ancora non lo sapeva.
L’unica cosa che
sapeva è che avrebbe continuato sempre, nonostante tutto.