
“Se
riuscirà a vivere, a vincere sulla
morte, che si chiami Victoria: che il mondo sappia che ho vinto, con
lei”.
“Dorothy…”, mio padre aveva le lacrime
agli occhi.
Mia madre morì subito dopo il parto.
Me
l’avevano raccontata tante volte,
questa storia. Perché mi sentissi in colpa. Da tempo non
funzionava più.
Fissavo senza vederla la mia immagine
nello specchio, con la spazzola nella mano inerte.
“Victoria”. Ricordai la voce sprezzante
di mio padre la volta in cui il suo racconto era stato più
tagliente. “Complimenti.
Hai vinto sulla vita di tua madre. Ne sarai fiera”.
Papà mi odiava. Odiava i miei capelli di
fuoco, odiava il mio aspetto felino, odiava la mia voce tintinnante e
capricciosa. Odiava di me tutto ciò che rendeva stridente il
contrasto tra la
mia giovane vita e la figura morta di mia madre, che ancora tormentava
i suoi
sonni. Non mi aveva mai picchiata, però. Si limitava a
tenermi a distanza, da
sempre. Uno pensa che prima o poi ci si fanno gli anticorpi, a queste
cose. Non
era ancora successo.
Mi ero spesso chiesta se mio padre avesse
davvero amato tanto mia madre o se la sua fosse solo un'ossessione nata solo dopo la
sua
morte… odioso come lo vedevo, non potevo che propendere per
la seconda ipotesi.
Così, per contrasto, mi mancava quella madre che non avevo
mai conosciuto.
Mi svegliai di soprassalto dai miei
ricordi. Il mio riflesso aveva gli occhi lucidi di lacrime in precario
equilibrio tra le palpebre. Basta,
Victoria, o ti si scioglie la matita. Ero di nuovo in
ritardo. Recuperai un
elastico dal cassetto delle spazzole e raccolsi i capelli in un veloce
chignon.
Poi lo zaino e via.
Avevo quindici anni.
Una
sera, tornata a casa, sentii mio
padre chiamarmi con disprezzo. “Victoria”.
Non sarei stata in grado di reggerlo di
nuovo. Avevo ancora la mano sulla maniglia. Percepivo l’odore
della cena,
nauseabondo di un’intimità forzata.
Veniva verso di me, l’aspetto angosciato,
la pancia che sporgeva dai pantaloni.
Lo guardavo con gli occhi umidi, la sua
immagine era filtrata dai capelli rossi. Lo spinsi indietro, colpendolo
sul
petto. “Non è colpa mia, lo capisci? Non
è colpa mia!”. Spalancai nuovamente la
porta e fuggii.
Non tornai mai più.
Avevo fame, le mie tasche erano vuote,
non avevo alcun titolo, né parenti, né speranze.
Potete immaginare come andò a
finire.
“Tu, piccola. Vieni via con me. Portami in paradiso”. Mi sorrise di un sorriso orrendo. Aveva la fronte lucida, la barba trascurata sulla faccia grassa, repellente. Sorrisi di rimando, ammiccante, con la morte nel cuore. Come ogni volta. Salii in macchina.
Erano
cinque anni che battevo, sempre
lì. Sempre il solito schifo, al solito angolo tra le solite
strade.
Una notte come un’altra arrivò lui. Era
stranamente a piedi. Era bello,
di una bellezza che non avevo mai visto prima: i lineamenti dritti e
perfetti,
i capelli neri d’inchiostro, la pelle bianca, come folgore
nel buio, che
rifletteva la luce della luna in un pallido bagliore.
Era bello, ma faceva paura.
Mi si avvicinò gentile. “Vieni con me”,
disse soltanto. Non udii altre parole da lui.
“Dove stiamo andando?”
Mi sorrise rassicurante, ma non rispose.
Faceva paura. Avevo paura.
Giungemmo in un bosco. Cominciò a spogliarmi,
come un qualsiasi cliente.
…
“Basta. Ti prego… basta”. Mi stava
facendo male. Male davvero. Sentivo le ossa rotte. Continuando
così mi avrebbe
uccisa. Ero ferita ovunque, sanguinavo, il dolore nel bassoventre era
insopportabile.
Sentivo pesare ogni singola parte del mio corpo, mi sentivo sporca come
non
mai. Era puro dolore, angoscia, la sua mano che scorreva sul mio seno,
orrore
il suo corpo nudo sul mio, spogliato di abiti e di dignità,
voglia di
sprofondare, pur di sfuggirle, ogni pressione da niente sui miei
fianchi. Avrei
sofferto di meno, se mi avesse sfregiata con un coltello, se mi avesse
risparmiato il suo corpo perfetto e rivoltante. I singulti mi morivano
in gola,
morivano con me. Strideva il contrasto tra il silenzio di una lacrima
che
cadeva e… e tutto il resto. Aspettavo che il buio mi
assorbisse, mi dissolvesse.
Basta, ti prego. Che senso ha stuprare una prostituta?
Perché? Continuavo a piangere
in silenzio, sfinita. Le lacrime mi impedivano di vedere. Finalmente,
sentii
che stavo per morire: non c’era quasi più niente
nei miei sensi. Era finita.
Un nuovo improvviso dolore sferzò come
un taglio la mia spalla destra. Urlai di nuovo. Non credevo di avere
abbastanza
forze. Sentivo il mio sangue scorrere, no, venire risucchiato fuori dal
mio
corpo, vena per vena.
Quando finirà?
Poi sentii qualcosa come due spilli
sfilare via dalla mia pelle.
L’ululato di un lupo. Se non altro, non
sarei rimasta viva a lungo.
Non so come facessi ad accorgermi di
questi dettagli col fuoco che mi ardeva nelle vene, che mi consumava
cellula
dopo cellula. E io che credevo di essere già arrivata al
climax del dolore.
Sperai che il lupo mi avrebbe uccisa in
fretta.
Invece no. Una folata di vento (l’uomo e
il lupo, che correvano a una velocità disumana) mi
sfiorò la spalla senza darmi
alcun sollievo.
Perché non morivo?
‘L’uomo
e il lupo’. Il
vampiro e il licantropo, dico adesso, col senno di poi.
Quel che
ero diventata lo capii quando il fuoco nella mia gola, timida eco di
ciò che
era stato ma comunque insopportabile, reclamò il sangue di
un escursionista
solitario.
Una vampira.
Non provai mai rimorso: odiavo
sufficientemente il genere umano da cui, finalmente, ero fuori.
Digrignai
i denti. “Levati di lì”,
sibilai al vampiro biondo che
mi contendeva l’umano.
Provò ad attaccarmi. Scartai rapidamente di
lato.
La preda cercò di scappare. Il biondo le
spaccò il cranio con un calcio e torno a concentrarsi su di
me. L’odore del
sangue distraeva entrambi: combattevamo ad armi pari.
Attaccai io, rapidamente.
Quello mi evitò per poco. Aggrottò le
sopracciglia. “Aspetta! Time
out!”
Sorrisi beffarda. “Cos’è, ti
arrendi?”
“No, ho una proposta per te”, disse con
le mani alzate.
“Fa’ che non sia un trucco, per il tuo
bene”.
Sorrise. “Sei in gamba, veloce. Io,
modestamente, sono un segugio nato. Se
‘lavorassimo’ insieme saremmo
infallibili, anche contro gli altri vampiri”… si
interruppe e sospirò; le sue parole mi avevano
già allettata
abbastanza. “E poi – continuò
– forse in due questa stupida esistenza sarebbe
anche più piacevole”. Mi guardò
languido.
Mi fu impossibile non addolcirmi, ma
riuscii a porre la mia condizione. “Accetto se mi aiuterai a
uccidere il
vampiro che mi ha trasformata”.
Mi tese la mano, soddisfatto. “D’accordo”.
Stavamo
ormai insieme, io e James, e al
nostro gruppo si era aggiunto Laurent, un vampiro dalla pelle
olivastra, quando
scoprimmo un clan stranamente sedentario a Forks. Stanchi della nostra
vita
obbligatamente nomade, lo raggiungemmo presso un campo di baseball,
perché ci
spiegassero.
Il resto lo sapete.
Tutti a tifare per Bella, vero? Bravi. Complimenti.
Cominciate a piangere la sua morte. In
me ormai c’è posto solo per la vendetta.
Victoria