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Autore: a Game of Shadows    29/05/2011    5 recensioni
Il principe Edoardo, erede al trono d’Inghilterra, era uno dei figli prediletti della Regina Vittoria. Per motivi burocratici, ciò che comportò la morte della sua povera madre fu insabbiato e sostituito con la ormai celebre versione della sua dipartita del 22 gennaio 1901 a Osborne House all’Isola di Wight. Nessuno, chissà perché, si è mai chiesto perché si dicesse che la Regina fosse ancora sull’isola alla fine di Gennaio quando solitamente passava in quell’abitazione solo le vacanze di Natale.
Genere: Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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II. It’s always the same story.
Era il 23 gennaio 1901. Ormai erano passati sette anni dal ritorno del mio caro e molto facilmente detestabile amico dalle Reichenbach Falls e della dipartita della mia cara Mary.
Come noto a molti tramite i miei resoconti dei casi seguiti, quando Holmes ritornò da quella che lui definì ironicamente “vacanza senza garanzia di ritorno”, vendetti il mio studio e tornai a vivere a Baker Street, dove ripresi a seguire attivamente il suo lavoro.
Tuttavia mi tenni a disposizione per i pazienti cui ero più affezionato, fornendogli visite a domicilio quindi, se non ero occupato in una delle azioni suicide di Holmes, spesso mi assentavo da Baker Street per fornire dei favori a quegli amici.
Era quasi l’ora di pranzo quando rientrai da alcune visite mattutine la mattina di quel mercoledì 23 gennaio 1901.
Ogni volta che rientravo a casa, lo spettacolo che mi si prospettava davanti non variava; quando ero a casa, riuscivo a distrarre Holmes, anche parlando di argomenti futili, ma ogni volta che mi assentavo anche solo per poche ore, al mio rientro trovavo l’appartamento come se dentro ci fosse stato un plotone di guerra a sfogare le sue ire violente. Il dettaglio inquietante ai miei occhi era che il mio adorabile coinquilino era in grado di combinare tali disastri completamente da solo e in tempi che avrebbero potuto battere i più estremi record.
Quella mattina, al mio ritorno, appena aprii la porta dell’appartamento, mi ritrovai, come al solito, immerso nell’oscurità. La consueta cappa di fumo provocata dalle sue sigarette e dalla sua pipa, aggiunte alle finestre rigorosamente chiuse aleggiava nel salotto, minacciando con convinta malignità i polmoni di qualunque povero disgraziato avesse avuto il coraggio di varcare quella soglia e non fosse stato abituato a respirare un’aria così viziata. In pratica solo Holmes sarebbe stato in grado di sopravvivere in quel buco claustrofobico.
Tra l’odore del tabacco e di aria chiusa, riuscii a distinguere anche l’odore della polvere da sparo (cui, aimè, ero stato infelicemente abituato) e narcotici.
Avanzai a tentoni, portando il bastone avanti a me come un cieco, per evitare di calpestare il mio amico, fino a che raggiunsi una delle finestre, guidato solo dalla flebile luce della porta d’ingresso che mi ero premurato di lasciare aperta. La spalancai, tende e ante, ignorando completamente le lamentele, alle mie spalle, che si sollevavano da un punto imprecisato del pavimento.
Tornai a chiudere la porta dell’appartamento, per togliere il lusso a Holmes anche di insultare la nonn- Mrs. Hudson ogni volta che ci passava davanti con frecciatine ironiche o puro sarcasmo, per poi tornare a voltarmi verso l’appartamento e cercare con lo sguardo quel disgraziato, che di preoccupazioni me ne procurava fin troppe.
Ancora non mi capacitavo di come una persona intelligente come Sherlock Holmes non si rendesse conto che, comportandosi in modo così evidentemente masochistico, non era l’unico a stare male.
Lo trovai disteso a terra, con la testa appoggiata sullo stomaco di Gludstone, nuovamente morto per chissà quale esperimento si fosse premurato di dargli a colazione.
Il laccio emostatico, la siringa vuota e l’astuccio in cuoio della cocaina solo per metà pieno erano ancora a terra, vicino a lui, e la manica della sua camicia ancora sollevata fino al gomito.  Si copriva gli occhi dalla luce con un braccio, mugugnando ancora qualche malmessa lamentela sulla mia ormai ben nota poca gentilezza nei suoi riguardi.
Mi avvicinai e m’inginocchiai vicino a lui, nonostante la ferita alla gamba ne protestasse, per costatare le condizioni di salute sue e del cane; fortunatamente erano entrambi abbastanza stabili. Voltandomi appena, notai anche la pistola, ancora vicina a lui. Alzando lo sguardo, potei vedere delle nuove lettere ancora fumanti incinse nel muro.
“E’ sempre la stessa storia, Holmes! Quando si deciderà a mettersi in condizioni tali da poter sopravvivere almeno per un anno in più?” chiesi, non poco irritato.
Onestamente parlando, ciò che m’irritava di più era che non riuscivo a capirlo. Lui sembrava in grado di capire qualunque cosa di me, seguire ogni mio pensiero, mentre io, a distanza di tutti quegli anni, ancora non capivo come potesse essere possibile, per un uomo come lui, decidere di sottoporsi a tanta sofferenza.
Non capendo, non potevo aiutarlo.
“L’ha detto anche dieci anni fa, eppure sono ancora qui” rispose con un leggero tono critico, spostando il braccio per guardarmi in tralice.
Sospirai, rassegnato. Non sarei mai riuscito a dire qualcosa che lo facesse desistere da quel masochistico percorso che da sempre, ormai, caratterizzava la sua pausa tra due casi, neppure dirgli che così rischiava davvero di addormentarsi e non svegliarsi più.
Al tempo ero convinto che, in realtà, l’unica cosa che facesse allontanare Holmes dall’idea della morte come cosa positiva era la necessità di tenere attivo il cervello, la consapevolezza che, senza di lui, il più delle volte Scotland Yard avrebbe brancolato nel buio più assoluto, lasciando pericolosi criminali a piede libero; nessun affetto per se stesso, nessun affetto per nessun altro. Me compreso.
Mi rialzai a fatica e gli tesi la mano per aiutarlo a rialzarsi. In risposta, lui ripose nel mio palmo aperto il mio bastone da passeggio.
“Non credo che la sua gamba sosterrebbe anche il mio peso, Dottore” aggiunse, rialzandosi da solo.
Ammetto che mi sentii un po’ offeso. Era vero, la gamba doleva e duole ancora, ma non ritenevo di essermi indebolito al punto da non essere ritenuto in grado di sostenere il peso di una persona sì, più muscolosa di me, ma comunque di dimensioni inferiori.
Ci sedemmo entrambi sulle rispettive poltrone, lui con il suo adorato Stradivari adesso tra le mani ed io con il giornale della mattina che non ero ancora riuscito a leggere.
Lessi comunque poche righe prima che la musica iniziasse a invadere l’aria ed io mi ritrovai irrimediabilmente distratto da quel suono. Il giornale ancora tra le mani era ormai abbandonato, così come la mia testa contro lo schienale della poltrona mentre, a occhi chiusi, mi rilassavo, ascoltando.
Non glielo avrei mai detto, forse per orgoglio, forse per non dargli una soddisfazione in più, ma adoravo ascoltarlo suonare. Aveva un talento innato per l’improvvisazione, sembrava quasi che il violino parlasse.
Senza dubbio, però, se n’era già accorto da tempo.
Sfortunatamente, però, Holmes smise di suonare quando dei passi affrettati iniziarono a salire le scale.
“Lestrade e Mycroft” annunciò Holmes, prima ancora che la porta si aprisse.
Non feci in tempo ad aprire bocca per chiedere come fosse arrivato a dire che fossero l’ispettore e il suo fratellino (come adorava chiamarlo, nonostante fosse più grande) che i due menzionati apparvero sulla nostra soglia senza bussare.
Holmes si voltò verso di me per un attimo, con un sorriso vittorioso, per poi porgere la sua attenzione ai nostri ospiti.
“Mycroft! A cosa devo il piacere di questa visita?” chiese, ignorando completamente Lestrade.
Il fatto che lo ritenesse così insignificante se paragonato al fratello da non meritarsi neanche un saluto porto per educazione come al solito, mi fece sorridere. Ai miei occhi, questo manifestava un profondo senso di rispetto e affetto verso il congiunto.
“Ti sto per affidare il caso che decreterà il picco più alto della tua carriera, Sherlock”.
Questo sembrò destare la più totale e incondizionata attenzione del mio amico, il quale ripose il violino e l’archetto sul tavolinetto vicino alla sua poltrona e si sporse in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia. Il suo sguardo rimaneva fisso in quello di Mycroft, così come quello del fratello rimaneva nel suo, come in una specie di comunicazione mentale tra i due geni.
“Che cosa è successo?” chiese infine, forse non trovando informazioni necessarie negli occhi di Mycroft.
“Ieri sera la Regina Vittoria è stata trovata morta nella sua camera”.
Calò quello che ricordo come il più raggelante silenzio mai piombato sul nostro appartamento di Baker Street.
Sconvolto, mi voltai verso Holmes, che indirizzava il suo sguardo, invece, alla parete, dove le lettere V.R., annerite dalla polvere da sparo, spiccavano sulla carta da parati.

[NdA]
Volevo scrivere qualcosa, ma non ricordo cosa fosse ._.
Ah, si. Niente di che, volevo specificare che davvero il 23.01.01 era Mercoledì, e menzionare come riferimenti canonici alcuni punti,
Per chi non lo sapesse, le lettere V.R. che Holmes spara sul muro (si vede anche nel film oltre che nel canone) significano "Vittoria Regina".
Nel 1901 erano davvero sette anni passati dal ritorno di Holmes. Infatti, all'inizio dell'Avventura della casa vuota, Watson dice testualmente che si trovavano nel 1894.
Che altro? L'astuccio in cuoio della droga ormai è noto.
Ah, si. Nel film non si vede mai Holmes fumare sigarette, ma nel canone fuma indistintamente sigarette, sigari e pipa.
Mmmmmmmmmmumble... Penso sia tutto xD
Al prossimo capitolo!

   
 
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