II. It’s always the same story.
Era
il 23 gennaio 1901. Ormai erano passati sette anni dal ritorno del mio
caro e
molto facilmente detestabile amico dalle Reichenbach Falls e della
dipartita
della mia cara Mary.
Come noto a molti tramite i miei resoconti dei casi seguiti, quando
Holmes
ritornò da quella che lui definì ironicamente
“vacanza senza garanzia di
ritorno”, vendetti il mio studio e tornai a vivere a Baker
Street, dove ripresi
a seguire attivamente il suo lavoro.
Tuttavia mi tenni a disposizione per i pazienti cui ero più
affezionato,
fornendogli visite a domicilio quindi, se non ero occupato in una delle
azioni
suicide di Holmes, spesso mi assentavo da Baker Street per fornire dei
favori a
quegli amici.
Era quasi l’ora di pranzo quando rientrai da alcune visite
mattutine la mattina
di quel mercoledì 23 gennaio 1901.
Ogni volta che rientravo a casa, lo spettacolo che mi si prospettava
davanti
non variava; quando ero a casa, riuscivo a distrarre Holmes, anche
parlando di
argomenti futili, ma ogni volta che mi assentavo anche solo per poche
ore, al
mio rientro trovavo l’appartamento come se dentro ci fosse
stato un plotone di
guerra a sfogare le sue ire violente. Il dettaglio inquietante ai miei
occhi
era che il mio adorabile
coinquilino
era in grado di combinare tali disastri completamente da solo e in
tempi che
avrebbero potuto battere i più estremi record.
Quella mattina, al mio ritorno, appena aprii la porta
dell’appartamento, mi
ritrovai, come al solito, immerso nell’oscurità.
La consueta cappa di fumo
provocata dalle sue sigarette e dalla sua pipa, aggiunte alle finestre
rigorosamente chiuse aleggiava nel salotto, minacciando con convinta
malignità
i polmoni di qualunque povero disgraziato avesse avuto il coraggio di
varcare
quella soglia e non fosse stato abituato a respirare un’aria
così viziata. In
pratica solo Holmes sarebbe stato in grado di sopravvivere in quel buco
claustrofobico.
Tra l’odore del tabacco e di aria chiusa, riuscii a
distinguere anche l’odore
della polvere da sparo (cui, aimè, ero stato infelicemente
abituato) e
narcotici.
Avanzai a tentoni, portando il bastone avanti a me come un cieco, per
evitare
di calpestare il mio amico, fino a che raggiunsi una delle finestre,
guidato
solo dalla flebile luce della porta d’ingresso che mi ero
premurato di lasciare
aperta. La spalancai, tende e ante, ignorando completamente le
lamentele, alle
mie spalle, che si sollevavano da un punto imprecisato del pavimento.
Tornai a chiudere la porta dell’appartamento, per togliere il
lusso a Holmes
anche di insultare la nonn- Mrs. Hudson
ogni volta che ci passava davanti con frecciatine ironiche o puro
sarcasmo, per
poi tornare a voltarmi verso l’appartamento e cercare con lo
sguardo quel
disgraziato, che di preoccupazioni me ne procurava fin troppe.
Ancora non mi capacitavo di come una persona intelligente come Sherlock
Holmes
non si rendesse conto che, comportandosi in modo così
evidentemente
masochistico, non era l’unico a stare male.
Lo trovai disteso a terra, con la testa appoggiata sullo stomaco di
Gludstone,
nuovamente morto per chissà quale esperimento si fosse
premurato di dargli a
colazione.
Il laccio emostatico, la siringa vuota e l’astuccio in cuoio
della cocaina solo
per metà pieno erano ancora a terra, vicino a lui, e la
manica della sua
camicia ancora sollevata fino al gomito.
Si copriva gli occhi dalla luce con un braccio, mugugnando
ancora
qualche malmessa lamentela sulla mia ormai ben nota poca gentilezza nei
suoi
riguardi.
Mi avvicinai e m’inginocchiai vicino a lui, nonostante la
ferita alla gamba ne
protestasse, per costatare le condizioni di salute sue e del cane;
fortunatamente erano entrambi abbastanza stabili. Voltandomi appena,
notai
anche la pistola, ancora vicina a lui. Alzando lo sguardo, potei vedere
delle
nuove lettere ancora fumanti incinse nel muro.
“E’ sempre la stessa storia, Holmes! Quando si
deciderà a mettersi in
condizioni tali da poter sopravvivere almeno per un anno in
più?” chiesi, non
poco irritato.
Onestamente parlando, ciò che m’irritava di
più era che non riuscivo a capirlo.
Lui sembrava in grado di capire qualunque cosa di me, seguire ogni mio
pensiero, mentre io, a distanza di tutti quegli anni, ancora non capivo
come
potesse essere possibile, per un uomo come lui, decidere di sottoporsi
a tanta
sofferenza.
Non capendo, non potevo aiutarlo.
“L’ha detto anche dieci anni fa, eppure sono ancora
qui” rispose con un leggero
tono critico, spostando il braccio per guardarmi in tralice.
Sospirai, rassegnato. Non sarei mai riuscito a dire qualcosa che lo
facesse
desistere da quel masochistico percorso che da sempre, ormai,
caratterizzava la
sua pausa tra due casi, neppure dirgli che così rischiava
davvero di
addormentarsi e non svegliarsi più.
Al tempo ero convinto che, in realtà, l’unica cosa
che facesse allontanare
Holmes dall’idea della morte come cosa positiva era la
necessità di tenere
attivo il cervello, la consapevolezza che, senza di lui, il
più delle volte
Scotland Yard avrebbe brancolato nel buio più assoluto,
lasciando pericolosi
criminali a piede libero; nessun affetto per se stesso, nessun affetto
per
nessun altro. Me compreso.
Mi rialzai a fatica e gli tesi la mano per aiutarlo a rialzarsi. In
risposta,
lui ripose nel mio palmo aperto il mio bastone da passeggio.
“Non credo che la sua gamba sosterrebbe anche il mio peso,
Dottore” aggiunse,
rialzandosi da solo.
Ammetto che mi sentii un po’ offeso. Era vero, la gamba
doleva e duole ancora,
ma non ritenevo di essermi indebolito al punto da non essere ritenuto
in grado
di sostenere il peso di una persona sì, più
muscolosa di me, ma comunque di
dimensioni inferiori.
Ci sedemmo entrambi sulle rispettive poltrone, lui con il suo adorato
Stradivari adesso tra le mani ed io con il giornale della mattina che
non ero
ancora riuscito a leggere.
Lessi comunque poche righe prima che la musica iniziasse a invadere
l’aria ed
io mi ritrovai irrimediabilmente distratto da quel suono. Il giornale
ancora
tra le mani era ormai abbandonato, così come la mia testa
contro lo schienale
della poltrona mentre, a occhi chiusi, mi rilassavo, ascoltando.
Non glielo avrei mai detto, forse per orgoglio, forse per non dargli
una
soddisfazione in più, ma adoravo ascoltarlo suonare. Aveva
un talento innato
per l’improvvisazione, sembrava quasi che il violino parlasse.
Senza dubbio, però, se n’era già
accorto da tempo.
Sfortunatamente, però, Holmes smise di suonare quando dei
passi affrettati
iniziarono a salire le scale.
“Lestrade e Mycroft” annunciò Holmes,
prima ancora che la porta si aprisse.
Non feci in tempo ad aprire bocca per chiedere come fosse arrivato a
dire che
fossero l’ispettore e il suo fratellino (come adorava
chiamarlo, nonostante
fosse più grande) che i due menzionati apparvero sulla
nostra soglia senza
bussare.
Holmes si voltò verso di me per un attimo, con un sorriso
vittorioso, per poi
porgere la sua attenzione ai nostri ospiti.
“Mycroft! A cosa devo il piacere di questa visita?”
chiese, ignorando
completamente Lestrade.
Il fatto che lo ritenesse così insignificante se paragonato
al fratello da non
meritarsi neanche un saluto porto per educazione come al solito, mi
fece
sorridere. Ai miei occhi, questo manifestava un profondo senso di
rispetto e
affetto verso il congiunto.
“Ti sto per affidare il caso che decreterà il
picco più alto della tua
carriera, Sherlock”.
Questo sembrò destare la più totale e
incondizionata attenzione del mio amico,
il quale ripose il violino e l’archetto sul tavolinetto
vicino alla sua
poltrona e si sporse in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia. Il
suo
sguardo rimaneva fisso in quello di Mycroft, così come
quello del fratello
rimaneva nel suo, come in una specie di comunicazione mentale tra i due
geni.
“Che cosa è successo?” chiese infine,
forse non trovando informazioni
necessarie negli occhi di Mycroft.
“Ieri sera la Regina Vittoria è stata trovata
morta nella sua camera”.
Calò quello che ricordo come il più raggelante
silenzio mai piombato sul nostro
appartamento di Baker Street.
Sconvolto, mi voltai verso Holmes, che indirizzava il suo sguardo,
invece, alla
parete, dove le lettere V.R., annerite dalla polvere da sparo,
spiccavano sulla
carta da parati.
[NdA]
Volevo scrivere qualcosa, ma non ricordo cosa fosse ._.
Ah, si. Niente di che, volevo specificare che davvero il 23.01.01 era
Mercoledì, e menzionare come riferimenti canonici alcuni
punti,
Per chi non lo sapesse, le lettere V.R. che Holmes spara sul muro (si
vede anche nel film oltre che nel canone) significano "Vittoria Regina".
Nel 1901 erano davvero sette anni passati dal ritorno di Holmes.
Infatti, all'inizio dell'Avventura
della casa vuota, Watson dice testualmente che si
trovavano nel 1894.
Che altro? L'astuccio in cuoio della droga ormai è noto.
Ah, si. Nel film non si vede mai
Holmes fumare sigarette, ma nel canone fuma indistintamente sigarette,
sigari e pipa.
Mmmmmmmmmmumble... Penso sia tutto xD
Al prossimo capitolo!