L’armatura
di ghiaccio
“E’ troppo,
Signore. Ma ve lo prometto, sul mio onore”.
Quest’ultima frase
risuonò nella mente di Piton, ancora ed ancora, mentre il ricordo si faceva,
via via, meno nitido, ma non meno doloroso.
Il pulsare sordo
del suo cuore si era calmato, ma ora la testa gli doleva e sentiva la bocca
secca, come se non bevesse da giorni.
Si sedette di nuovo e, trovata tastoni la brocca sbeccata posata poco
distante dal suo giaciglio, bevve avidamente, senza nemmeno cercare il
bicchiere poggiato poco più in là. Poi si bagnò le mani e se le passò sul viso
ripetendosi che doveva mantenere la calma.
Doveva riflettere
sulla situazione presente per essere pronto ad affrontarla fino in fondo. Non
poteva semplicemente lasciarsi andare ai ricordi, se continuava così non ce l’avrebbe mai fatta - si disse.
Prima
o poi, continuando a tormentarsi, sarebbe crollato. Se si fosse trattato soltanto di lui non avrebbe avuto importanza. Però
c’era Draco e Lord Voldemort era ancora vivo, libero di portare a termine i
suoi piani.
Per quel che lo
riguardava, Severus odiava rivivere il ricordo di quella notte nel parco e vi erano
altre memorie, ancora peggiori, che avrebbe voluto cancellare per sempre, ma,
in fondo, non riusciva neanche ad essere così clemente con se stesso da
consentirsi di dimenticare.
Ricordare era un
modo per punirsi e lui desiderava farlo, anche se sapeva di aver solo compiuto
ciò che Silente gli aveva ordinato. D’altro canto, che senso avrebbe avuto
cancellare quegli attimi dalla memoria, se l’omicidio del vecchio non si
sarebbe mai cancellato dalla sua anima ?
Però, ora, non poteva
concedersi nessuno dei due lussi, né quello di dimenticare, né quello di
scontare la sua pena ricordando. Non aveva il diritto di farlo, o la morte di
Silente sarebbe stata inutile e l’avergli tolto la
vita avrebbe significato solamente distruggere invano anche la propria.
Piton lo sapeva:
uccidendo Silente aveva ucciso una parte di sé ed
aveva posto sulla propria testa una condanna a morte quasi certa. Ognuno dei
membri dell’Ordine ora l’avrebbe ucciso, potendo, senza pensarci due volte e,
se non manteneva la mente lucida, avrebbe finito col commettere qualche passo
falso. Allora anche i Mangiamorte sarebbero stati un
pericolo. Se Lord Voldemort avesse scoperto il suo
gioco, il meglio che Severus potesse aspettarsi era che l’Avada Kedavra finale
non tardasse troppo ad arrivare.
Piton provò a
concentrarsi soltanto su ciò che aveva intorno. Ancora una
volta tese l’orecchio, attento a percepire qualunque rumore che potesse
indicare un pericolo, ma la stanza era ancora tranquilla.
Si strinse nel
mantello, le gambe ripiegate a toccare il petto, il mento poggiato sulle
ginocchia, chiuse di nuovo gli occhi. Avrebbe preferito il pericolo imminente
al turbinio della sua mente, poteva affrontare un nemico, ma non riusciva a dominare se stesso, cosa che lo rendeva insicuro,
perché non vi era abituato.
Piton aveva
imparato presto a controllare le proprie emozioni schermandole alla vista degli
altri.
Non era stato
sempre così, ovviamente; non nella sua infanzia almeno.
Severus era stato
un bambino fragile, anche fisicamente. Non c’era nulla che non andasse nella
sua salute, ma era cresciuto sentendosi diverso dai suoi coetanei.
Era sempre stato
troppo magro e pallido, inoltre, i giochi che tanto appassionavano gli altri
bambini non lo avevano mai interessato più di tanto. Preferiva perdersi nei
libri o curiosare tra gli oggetti magici di famiglia, piuttosto che correre
dietro ad un pallone, discutere di Quidditch,
o impegnarsi in molti altri giochi che trovava troppo rumorosi e stancanti.
Il fatto di essere figlio unico gli aveva reso più difficile farsi
degli amici della sua età e, comunque, sentiva di non piacere molto agli altri
bambini che lo prendevano in giro per il suo aspetto, per il suo naso, per il
solo fatto che lui era “strambo”.
Questo lo aveva
reso insicuro, ma gli aveva anche fatto scoprire l’amore per la lettura e
l’interesse per la conoscenza. I suoi desideri più grandi, a quell’età erano
imparare il più possibile ed essere accettato e ben voluto dagli altri.
Poi, ad undici
anni, era giunto il momento di entrare a Hogwarts, la scuola
che, secondo sua madre, avrebbe potuto schiudergli le porte della
sapienza più di qualunque altro luogo.
Severus sorrise al
pensiero di quanto era stato impaziente di varcare i cancelli della scuola e di
quanto ingenuo fosse stato, allora, nelle sue aspettative.
Mentre l’espresso
lo portava a quella che per sette anni sarebbe stata la sua nuova casa, aveva
pensato che finalmente sarebbe diventato “uno come tutti
gli altri”. Si sarebbe fatto degli amici, sarebbe stato apprezzato ed ammirato,
perché lì non avrebbe dovuto far altro che quel che meglio gli riusciva:
studiare.
Dal
momento che tutti i giovani che lo attorniavano sul treno andavano ad
Hogwarts proprio per imparare, si era sentito alla pari con loro ed aveva
supposto che per loro lo studio fosse importante quanto lo era per lui.
Certamente, se così era, aveva finalmente qualcosa in comune con i suoi
coetanei ed, anzi, per la prima volta, era in grado di essere
più bravo di loro. Persino il fatto di indossare un uniforme l’aveva fatto
sentire piacevolmente parte di un gruppo.
Piton si era dovuto
accorgere molto presto che il suo era stato un ragionamento sbagliato. Il suo
aspetto continuava a suscitare battute e scherno,
perché gli adolescenti, non meno crudelmente dei bambini, sono istintivamente
portati a deridere chi appare loro per qualsiasi motivo “diverso”. Quanto al
suo amore per lo studio, neanche quello era servito a renderlo popolare o, comunque, ben accetto ai suoi compagni. Anzi
era vero il contrario. La maggior parte degli altri studenti lo consideravano un, noioso, insopportabile, secchione e
scambiavano la sua timidezza per alterigia, o eccessiva serietà, mentre, quelli
che tenevano particolarmente al rendimento scolastico lo detestavano per il
solo fatto che otteneva, senza troppi sforzi, risultati migliori dei loro.
Era venuto un
momento in cui, alcuni studenti, i più vivaci e popolari della scuola, avevano
finito col rendergli la vita impossibile, con i loro dispetti e le prese in
giro quotidiane. James Potter e Sirius Black, più di
chiunque altro, erano riusciti a renderlo definitivamente la macchietta della
scuola.
Severus,
all’inizio, aveva provato a reagire tirando fuori tutta la sua rabbia, ma non
era servito a nulla, così aveva imparato a reprimerla e a farsi pungente più
che aggressivo. Aveva smesso di cercare l’approvazione e la
stima degli altri, perché, farlo in quelle condizioni, lo faceva sentire
ancor più umiliato. Così, si era trincerato dietro al personaggio che per tanto
tempo non aveva voluto essere e che gli altri gli avevano imposto.
In lui era sorto un
senso di superiorità, fondato sulle proprie capacità intellettuali e sui
successi scolastici, che gli permetteva di sentirsi
migliore di chi lo tormentava e di non perdere ogni fiducia in se stesso.
Severus Piton era
diventato, realmente, freddo, serio e distaccato come tutti
gli imputavano di essere e quella sua corazza lo aveva protetto a lungo.
Indossarla,
inoltre, gli aveva fatto trovare, per la prima volta, qualche estimatore tra i
Serpeverde, che di solito si ricordavano di lui soltanto
quando faceva guadagnare punti alla Casa. Persone come Lucius Malfoy
avevano scambiato il suo modo di difendersi per il comportamento di chi, come
loro, si sentiva superiore a tutti per nascita ed
educazione, l’avevano ritenuto simile a loro, per indole ed ideali e, di
conseguenza, si erano avvicinati a lui.
Il pensiero di
quegli anni gli lasciava sempre l’amaro in bocca. Se vi rifletteva
a fondo, comprendeva che, se, ad un certo punto, era entrato a far parte degli
adepti di Voldemort, era anche per il ruolo che si era imposto allora, per non
perdere le poche amicizie che si era faticosamente creato, per il desiderio di
rivalsa verso chi lo aveva allontanato o deriso. Perché, anche se nessuno dei
suoi compagni degli anni di Hogwarts ne era mai stato
consapevole, Severus doveva ammetterlo: tutta quella freddezza, tutta la sua
imperturbabilità, non lo avevano comunque protetto del tutto. Molto più spesso
di quanto non amasse ammettere era stato ferito ugualmente dal comportamento
altrui. Solo dopo molto tempo, aveva imparato a stimarsi abbastanza da non
tenere più in conto il giudizio degli altri, a meno che
tale giudizio non fosse pienamente giustificato.
Ad ogni modo, era
sopravvissuto a quei dispiaceri, quasi infantili, mentre ora, accoccolato su se
stesso nell’oscurità della Stamberga Strillante, Severus si accorse
che la sua armatura di gelo non poteva proteggerlo nemmeno un po’ dal dolore
per la morte di Silente. Nulla poteva difenderlo dalla rabbia, dalla
disperazione, dal lancinante rimorso che provava adesso. Anzi, quell’armatura -
ora lo comprendeva - si era infranta definitivamente nel momento in cui il
corpo del vecchio era volato giù dal parapetto della Torre di
Astronomia. Piton poteva soltanto rimetterne insieme i pezzi e fingere
che non si fosse incrinata. Doveva farlo per portare a termine il compito che
Silente gli aveva assegnato, ma sapeva che non ne avrebbe
tratto alcun conforto.
Due giorni prima,
in quella orribile notte, Severus Piton era rimasto
nudo, privo di ogni difesa, soprattutto contro se stesso.