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Autore: _Shantel    05/06/2011    15 recensioni
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Piccola parentesi: scusateci per l'enorme ritardo ma la mia adorata Lover ha problemi con internet è.é e quei cattivoni dell'adsl non glielo vogliono riattaccare! Cmq siamo riuscite a sentirci e a postare il capitolo, anche se ci è voluto un po' più di tempo!



CAPITOLO 3
Quanto sei bella Roma

«Cosa vuol dire che non vuoi prestarmi quella specie di catorcio con cui vai in giro?».
Quella mattina mi ero già alzato dalla parte sbagliata del letto, ricordando amaramente come quella ragazzina sfrontata aveva osato sbattermi nudo fuori di casa, dopo che avevo solamente cercato di fare quello che tutte volevano dal sottoscritto.
Ora nemmeno il mio fedele amico Ruben, nonché fidato manager e amico fin dall’inizio della mia carriera calcistica, voleva collaborare.
«Ch-che c-ci d-devi f-fare?» balbettò, tenendosi le chiavi della Vespa strette al petto neanche valessero la sua stessa vita.
«Ruben, respira. Lo sai che quando vai nel pallone cominci a tartagliare peggio di una sparachiodi» gli ricordai, facendo riferimento al suo difetto linguistico.
Lui mi guardò al di là delle spesse lenti degli occhiali, mentre deglutì a vuoto.
«Ti ho già spiegato cos’è successo ieri. Devo riprendere il casco firmato di Vale che ho lasciato a casa di una tizia stramba, che mi ha buttato fuori di casa senza motivo, ma non mi ricordo in quale cazzo di buco abita, perciò devo tornare all’università e vedere se riesco a trovarla» ripetei, per l’ennesima volta quella mattina.
«S-sì h-h-ho cap-pito.. m-ma p-perché v-v-.. vuoi usare la v-v-.. vespa!» mi chiese, quasi  urlandomi in faccia l’ultima parola.
Lui e quella sua pidocchiosissima Vespa! Soltanto perché era un modello autentico degli anni ’60 la trattava come fosse d’oro, anche se non valeva nemmeno la metà della mia bambina.
Mi posai una mano sul viso e tentai di non andare in escandescenze. «Allora, visto che a quella squinternata ho raccontato solamente un mucchio di balle, nascondendole volontariamente la mia identità e la mia professione, non posso presentarmi da lei nuovamente con la Ducati.. le ho detto che faccio il fioraio, dannazione! Un pezzente del genere andrebbe in giro con quel cesso ambulante che ti tieni stretto al petto, nemmeno fosse tua madre!».
Stavolta pensai di essere stato abbastanza chiaro, dal momento che la faccia basita di Ruben parlava da sola.
«V-va b-be-bene! P-però p-pro-promettimi che c-ci s-starai attento..» mi disse preoccupato, allungandomi le chiavi con mani tremanti.
Lo fissai con un sopracciglio alzato, rifilandogli un falso sorriso. «Dormi pure fra due guanciali, amico!».
Finalmente aveva mollato ed io afferrai più di fretta che di corsa l’altro casco e me lo infilai per metà, posando una mano sulla maniglia pronto ad uscire.
«L-leonardo..» mi bloccò Ruben, prima che riuscissi ad evadere da quelle quattro mura.
«Che c’è!» tuonai esasperato, troppo scocciato dall’amaro che quella biondina inviperita mi aveva lasciato in bocca.
Ruben si aggiustò gli occhiali sul naso, poi deglutì a vuoto. Forse ero stato un po’ troppo brusco nei modi e ogni tanto, ma molto raramente, riuscivo anche a chiedere scusa.
«Avanti, dimmi, non volevo risponderti male» aggiunsi.
«R-ricordati c-che og-oggi pomeriggio hai il s-servizio p-per V-vogue» mi disse, ed io mi sentii un emerito stronzo ad avergli risposto male poco prima.
«Me lo ricorderò, grazie» gli dissi, poi finalmente riuscii ad uscire di casa.



«Ma quindi il casco firmato da Valentino non è per me?» chiese Romeo, mentre ci dirigevamo all'aula per seguire la lezione del professor Oscari.
«Per l'ennesima volta: no!» sbuffai, esasperata da quella domanda che si ripeteva come un disco incantato dal pomeriggio precedente.
«E allora da dove viene?»
«Era racchiuso in un meteorite che mi è piombato davanti i piedi mentre tornavo a casa» risposi sarcastica, guadagnandomi un'occhiata dubbiosa da parte di Romeo «Te l'ho già detto. Ieri ho incontrato un pallone gonfiato e dato che non volevo che morisse di broncopolmonite l'ho invitato a casa. Il casco di Valentino è suo!»
«Ah ma quindi non mi stavi prendendo in giro quando dicevi che un balordo ti ha bagnato con la sua moto»
«Romeo ma sei proprio scemo!» sbottai irritata «Te lo meriti proprio il soprannome di babbeo!»
Scossi la testa seccata dalla stupidità del mio migliore amico. Sembrava quasi che vivesse su un altro pianeta lontano decine e decine da galassie dal nostro o che dormisse perennemente, anche quando aveva gli occhi aperti. La cosa, però, che mi infastidiva maggiormente era il casco di Valentino che quel bell'imbusto aveva lasciato a casa mia. E dato che Ruben amava quell'aggeggio quasi fosse stato fatto di un minerale preziosissimo e introvabile, me lo sarei trovato nuovamente tra i piedi. Diamine, era solo firmate da un altro deficiente il cui unico merito era guidare una moto!
Uomini, valli a capire!
Poi dicevano che eravamo noi quelle complicate. Cosa c'era di così difficile da comprendere in una donna? Eravamo come un libro aperto, bastava solo prestare attenzione a quello che c'era scritto. Invece loro erano un enorme punto di domanda senza una risposta. L'unica cosa di cui era sicura era che il loro cervello era posizionato troppo in basso rispetto alla loro sede naturale.
«Ma non è successo nulla tra di voi, no?!» domandò con una certa preoccupazione e un crescente imbarazzo che gli colorò le guance di rosso, perfettamente intonato alla sua orribile zazzera.
«Sesso sfrenato» esclamai e vidi gli occhi di smeraldo di Romeo spalancarsi «Ti pare che io la smolli ad uno che nemmeno conosco?! Soprattutto poi se questo è un ignorante spocchioso belloccio alla Dawson's Creek?!»
Il volto del mio amico venne subito illuminato da un sorriso e la sua espressione si fece d'un tratto tranquilla. Alzai gli occhi al cielo, avendo ormai la convinzione che Romeo era un caso disperato, fisicamente e psicologicamente parlando.
Arrivammo nell'ampia aula in cui si sarebbe tenuta la prima lezione della giornata e, come al solito, io e Robbeo fummo tra i primi ad arrivare. Ero io che lo trascinavo fuori di casa quarantacinque minuti prima che iniziasse la giornata universitaria, nonostante abitassimo vicino alla nostra facoltà. Fortuna che in quella casa era la sottoscritta a dettare legge. Fosse stato per lui saremmo rimasti a poltrire a casa davanti alla televisione a guardare Sky e Studio Sport, mangiando schifezze caloriche che ci avrebbero fatti diventare delle mongolfiere.
Ci sedemmo in prima fila, proprio davanti alla cattedra del docente, i nostri posti oramai erano intoccabili e cominciai a ripassare la lezione del giorno precedente, godendo di quel poco di silenzio che ben presto avrebbe abbandonato l'aula. Infatti, dopo nemmeno dieci minuti, i vari posti vennero occupati e le mie orecchie vennero sommerse dal chiacchiericcio dei miei compagni di corso. Non conoscevo nessuno di loro, tra di noi solo saluti sfuggenti di circostanza, ma sapevo nomi e cognomi di quasi tutti, imparati in due anni di Università.  Ero una ficcanaso curiosa che appena sentiva l'inizio di un discorso interessante, aguzzava l'udito in cerca di particolari stimolanti da parte dei miei compagni. Avrei potuto scrivere un libro con tutti i loro segreti più nascosti se avessi voluto ed ero sicura che se lo avessi pubblicato, nessuno di loro avrebbe lasciato la propria cameretta.
I vari gruppi che si erano creati nella facoltà erano ormai quasi tutti presenti: le Prada's addicted, ragazze che avevano tutto griffato, perfino l'elastico dei capelli; dal Giappone con furore, i patiti di manga e anime che non facevano che parlare di fumetti tutto il giorno; culi di bottiglia, i secchioni, quelli che sul libretto avevano scritti solo 30 e lode, tutti gli altri voti erano schifati come se fossero sedano ammuffito. Avevo inventato un nome per chiamare ogni gruppo, tranne per quello meno numeroso, formato solo da due persone, ossia io e Robbeo. Ormai io e lui facevamo coppia fissa. Da quando andavamo al liceo eravamo sempre stati considerati l'ultima ruota del carro, nessuno ci rivolgeva mai la parola se non per prendere per i fondelli Romeo. Ma a me andava bene così, stavo bene da sola e la compagnia di Robbeo era più che sufficiente.
«Ma secondo voi è vero?» domandò una delle Prada's addicted ad una sua amica.
Tesi l'orecchio, mantenendo però gli occhi fissi sui fogli.
«Che cosa?»
«Leonardo è fidanzato?!» chiese sempre la stessa, con tono preoccupato.
Rimuginai su quel nome, dubbiosa. Ero più che certa che nel nostro corso non ci fosse nessun Leonardo, quindi potevo benissimo smettere di ascoltare quel gossip inutile, ma le mie orecchie curiose rimasero concentrate sulle loro chiacchiere.
«Intendi il pittore?» si accertò l'amica.
Oddio, parlavano di quel calciatore idolatrato da Robbeo, il genio del calcio che eguagliava il grande Leonardo da Vinci.
«Sì, il pittore!» piagnucolò.
«No, impossibile!» esclamò l'altra.
«E dove l'hai letto, scusa?» intervenne la terza.
«Su Facebook. Gira la voce che si veda con una bionda, ma non si sa chi sia in realtà. Hanno detto solo che lo hanno visto aggirarsi mano nella mano con questa»
«Sarà la Velina, sicuramente» commentarono acide.
«Che odio mamma mia! Il pittore è solo mio!» protestò sempre la stessa.
Non sapevo se mi faceva più pena questo fantomatico pittore che era solo uno stupido calciatore ignaro dell'esistenza dei tempi verbali e che si vedeva con una più stupida di lui o le Prada's addicted, gelose di una persona che nemmeno sapeva della loro esistenza e che mai l'avrebbe saputo. Anche nell'ipotesi più remota che lui le avesse incontrate, non le avrebbe minimamente calcolate. Uno di quei boriosi palloni gonfiati non si sarebbe mai abbassato a stare con una ragazzina normale.
«Dai tesoro, vedrai che non è vero» la consolò l'amica.
No, ok. Loro erano decisamente patetiche. Struggersi per un bisonte privo di neuroni che sapeva solo correre superava di gran lunga la mia idea di ridicolo. Erano ben altre le cose per cui arrabbiarsi, non certo un amore platonico per un'ameba.
«Parlano del pittore!» mi sgomitò con poca grazia Romeo.
«Oh, evviva!» esclamai fingendo entusiasmo.
«Il grande e unico Sogno!» riprese lui in estasi, quasi ne fosse innamorato.
«Ma sei gay, Robbeo? No, perché adesso mi vengono i dubbi»
«Ma che dici Cel!» si stizzì lui, guardandomi torva.
«Sembra che ne sei innamorato!» sbottai, indispettita.
«Questo non è amore Cel! È rispetto, è devozione!»
«Se vabbè» roteai gli occhi «San Leonardo ora pro nobis» dissi sarcastica.
«Cel tu non puoi capire. C'è qualcosa di speciale che ci lega» trillò con gli occhi lucenti e spalancati.
«Sarà che siete entrambi stupidi?» ipotizzai.
«Può darsi» rispose con un sorriso ebete, che si tramutò in un viso imbronciato non appena realizzò che avevo offeso lui e il suo idolo «Ehi! Non siamo stupidi!»
Scoppiai a ridere e poco dopo Romeo si unì alla mia risata. Tra me e lui c'era sempre una bella atmosfera, una strana sintonia. Nonostante il mio carattere che nemmeno il valium sapeva calmare e lo aggredissi costantemente, 24 ore su 24, non litigavamo mai veramente. Lui era troppo buono per arrabbiarsi con me. O forse aveva troppa paura della mia reazione.
Cercai invano di tornare a leggere gli appunti. Infatti, appena posai gli occhi sulla mia tonda calligrafia, uno scroscio, simile ad un piccolo applauso, mi fece voltare verso Romeo, piegato verso il tavolo per la pacca non proprio amichevole appena ricevuta.
«Ehilà Romeo, er peggio der Colosseo!» esclamò Giuliano, il rocker della facoltà, dai selvaggi capelli ricci e sguardo magnetico.
«Mamma mia quanto sei brutto!» ridacchiò Michele, belloccio, ma neanche tanto «Dovrebbero farti circolare con un secchio in testa per l'incolumità altrui!»
«Bella questa!» sorrise entusiasta il rocker, battendo il cinque al suo amico
Avevo sempre pensato che, giunti all'Università, nessuno avrebbe più preso di mira Robbeo, credevo che dei ventenni avessero raggiunto una maturità tale da capire che prendere in giro una persona non era divertente, ma solo frustrante. Invece mi sbagliavo di grosso. Sembrava quasi che i ragazzi, più passavano gli anni, più regredivano verso l'età della pietra. Mi stupivo che per parlare non usassero l'evocativo Uga Buga.
Romeo si era quasi accasciato sul banco e un istinto di protezione crebbe dentro di me. Mi voltai verso i due Uga Buga e li guardai severa.
«Buongiorno anche a voi» dissi sarcastica, sorridendo sorniona «L'hai studiata di notte questa battuta? No, perché mi stupisco che uno con la tua capacità cerebrale possa utilizzare una parola come incolumità»
Michele corrugò la fronte e abbassò un sopracciglio, poi si rivolse al suo amico dubbioso.
«Ma questa che vuole?!»
«Questa avrebbe un nome!» ribattei stizzita.
«E quale sarebbe, Miss Perfettina?» mi provocò Giuliano Miriani.
«Di certo non vengo a dirlo a te!» sbottai, vedendo sorgere sul volto del rocker un'espressione più che perplessa «Comunque, ora che voi comici di Zelig avete fatto la vostra plateale apparizione, potete tornarvene nelle vostre caverne a fare graffiti»
I due si scambiarono uno sguardo complice, prima di guardarmi come se fossi appena uscita da un'astronave giunta da chissà dove.
«Uga buga!» esclamai, adeguandomi al loro linguaggio.
Michele si portò un indice alla tempia, roteandolo e ghignando con il suo amico. Subito dopo se ne andarono, portando con sé la loro irritante stupidità.
Quando finalmente credevo di poter leggere in santa pace i miei appunti, un risolino mi sorprese da dietro, costringendomi a voltarmi a guardare chi aveva osato ridere di me con occhi truci e inceneritori.
«Grande! La tua risposta è da sganasciarsi!»
Il mio viso, contratto prima in una smorfia irata da Jack Nicholson in Shining, mutò all'istante in quella di un baccalà surgelato. Era raro che mi trasformassi in uno stoccafisso, soprattutto quando parlavo con un essere dell'altro sesso. Ma lui era l'unico in grado di farmi perdere la mia razionalità, con i suoi meravigliosi occhi verde acqua. Jean Philippe Rossi, conosciuto al grande pubblico come J, era il ragazzo dei miei sogni, bello e con un'intelligenza rara da trovare in un belloccio.  Merito dei suoi genitori. Sua madre era la rinomata ex top model francese Fleur Delacroix, di una bellezza quasi innaturale; suo padre, invece, era il celebre ingegnere Pietro Rossi, rinomato in quasi tutto il mondo.
«Acida e arguta al tempo stesso» continuò, sorridendomi, mettendo in serio pericolo quel briciolo di lucidità che mi era rimasto. Temevo di aprire bocca, ero sicura che dalla mia bocca sarebbero uscite solo sciocchezze disconnesse, magari anche in una lingua inesistente.
«Gr-Gr» arrancai, con la voce incrinata. Tossicchiai, cercando di recuperare la voce che sembrava avermi abbandonata «Grazie» riuscii a dire, nonostante il mio tono di voce sembrasse quello di un uomo.  J ridacchiò facendomi sprofondare in un insopportabile imbarazzo. Sicuramente le mie guance potevano benissimo intonarsi ai capelli di Romeo.
«J» si presentò allungandomi una mano.
Già lo so. So praticamente tutto di te, mio caro. Sono meglio di James Bond, una spia nata. Forse dovrei andare nella CIA...no, no Celeste, non divagare. Stai concentrata e fai la finta tonta.
Sorrisi impacciata, annuendo come una cretina e solo dopo che J mi indicò dubbioso la sua mano, mi ricordai le buone maniere.
«Oh sì» ridacchiai come una civetta qualunque «Celeste» mi presentai, afferrandogli la mano e sbatacchiandola con forza e ripetutamente.
Lui si liberò con forza dalla mia stretta, sghignazzando nervosamente. Probabilmente anche lui stava pensando che fossi matta. In realtà, in quel momento, qualche dubbio lo avevo anche io. Possibile che J riuscisse a intontirmi in quel modo, a rendermi una Barbie decerebrata, che civettata con qualsiasi essere vivente del sesso opposto.
«Che bel nome!» esclamò «Inusuale e molto particolare. Poi ha un suono molto dolce»
«Sei uno dei pochi a cui piace» ammisi sorridendogli.
«Ehi!» mi sgomitò Robbeo «Anche a me piace!»
«Sì, lo so Romeo. Infatti ho detto pochi, non unico. Sai c'è una differenza tra questi due termini, ma proprio lievissima!» ribattei, ritrovando il mio amato sarcasmo.
Romeo mi mostro pigramente la sua lingua, incrociando poi le braccia al petto e assumendo un'espressione imbronciata.
«La tua ironia è tagliente» commentò serio J, gettandomi per un istante nello sconforto più totale, credendo che quell'enorme particolare del mio carattere lo infastidisse «J'adore!» aggiunse sogghignando «Amo il sottile sarcasmo! Credo di non aver trovato mai nessuno che lo sapesse sfruttare con la tua dimestichezza»
Mi sentii avvampare e le mie care compagne di vita, ossia le parole, sembrasse avessero fatto i bagagli in partenza verso mete calde e soleggiate. L'unica rimaste sembrava essere il Grazie, che ormai gli ripetevo come se il mio vocabolario contenesse solo lei.
Fu in quel momento che un uomo dalla pancia bombata fece il suo ingresso in aula. Gli occhi dell'Oscari sembravano essere sempre essere atterriti, spalancati, nel ricordo, probabilmente, della sua immagine riflessa nello specchio. I capelli candidi erano sempre più radi e vani erano i suoi tentativi di coprire i buchi con un improbabile riporto. Anche quel giorno indossava un maglione, ilo suo indumento preferito dato che lo indossava praticamente tutti i giorni. Il dubbio che lo indossasse anche ad Agosto si rafforzava sempre di più. Aveva una collezione infinita di maglioni, di qualsiasi colore e ogni modello, per non parlare delle fantasie. Quelle natalizie erano le peggiori. Nemmeno quando avevo nove anni indossavo un maglione di lana con una renna e il naso a pon pon. Vedendo l'Oscari non potevo fare a meno di pensare a Romeo. Ero più che certa che quella era l'immagine di lui tra qualche anno: spelacchiato, docente universitario e con l'ossessione dei maglioni. E ovviamente, zitello o, come preferiscono gli uomini perché suona più da macho e non da sfigato, scapolo. Appena poggiò le sue cose sulla cattedra, cominciò la lezione, infischiandosene che ognuno si stava facendo i fatti propri e senza il favore del silenzio. Lo faceva sempre ed era una delle cose che mi infastidiva di più, dato che mi perdevo sempre l'inizio della spiegazione.
«Meglio che torni al mio posto se non voglio saltarmi la lezione» mormorò J «Mi ha fatto piacere conoscerti»
«Anche a me» risposi, intimidita.
«Ci si becca in giro allora» mi sorrise, sventolando una mano mentre si allontanava per raggiungere l'ultima fila.
Imbambolata, continuai a muovere la mano a destra e a sinistra come una scema, anche quando lui non poteva più vedermi. Ci volle uno spintone da parte di Romeo perché mi riprendessi. Ovviamente, non mancò la mia occhiata furente verso Robbeo che mi aveva scardinato una spalla con le sue manacce da muratore.
Tornai a guardare davanti a me, prestando attenzione a ciò che l'Oscari diceva, con finalmente il silenzio adatto per poter godere di quella lezione. La mano su mosse veloce sul foglio, appuntando ciò che diceva il docente e il tempo diventò qualcosa di nemmeno percepibile. Sembrava che le lancette si fossero fermate, che nessun ticchettio scandisse più i secondi passare, compito riservato adesso alla voce stridula dell'Oscari. Talmente ero concentrata e presa dalla spiegazione, che non mi accorsi che le ore di quella lezione erano volate via leggere, come fumo da un camino che leggiadro si levava nel cielo.
«Grazie a Dio!» esclamò Robbeo, scivolando lungo il sedile, annoiato.
«Ma è già finita la lezione?» domandai incredula, contando le sette pagine di appunti che avevo preso e che non mi ero resa conto di scrivere.
«E ti lamenti! Non passava più!» ribatté seccato lui.
«Ma se il tempo è volato!» lo canzonai.
«Sì, come un pinguino» ridacchiò Romeo «Comunque aspettami qui. Devo andare a parlare con la segreteria» disse e raccattò la sua roba, sparendo dall'aula.
E quando dico sparendo, intendo proprio S P A R I T O, dissolto, volatilizzato. Per le successive ore non ebbi sue notizie ed ero anche abbastanza preoccupata, nonostante sapevo che nessuno mai lo avrebbe rapito e nemmeno ucciso. Comunque, non era normale sparire senza lasciare traccia.
Ma certo!
Altro che segreteria, quello se l'era svignata ed era tornato a casa per non seguire le altre lezioni. Era un pigrone svogliato, altro che preoccupazioni. Ma appena sarei arrivata a casa mi avrebbe sentito, così come tutta Roma per i decibel che la mia voce avrebbe raggiunto per la collera. Agguantai astuccio e quaderni, lanciandoli alla rinfusa nella borsa.
«Stupido Robbeo! Mi lascia qui da sola, come una deficiente, mentendomi anche. Vado in segreteria. Come no! E io che ci ho creduto! Che stolta! Quello è tornato a casa perché è uno scansafatiche! Un lavativo senza aspirazioni nella vita! Ma appena arrivo a casa mi sentirà!» borbottai tra me e me.
A passo svelto e pesante uscii dall'aula, superando i miei compagni che si attardavano a spettegolare tra di loro, urtandoli anche di tanto in tanto e guadagnandomi qualche occhiata furibonda o insulti poco carini. Ma poco mi importava. In quel momento, nella mia testa, c'era solo Romeo che, con la sua pigrizia, mi aveva fatto ribollire il sangue nelle vene, offuscandomi qualsiasi senso per la rabbia che provavo nei suoi confronti in quel momento. Velocemente, scesi le scale, stando attenta a non cadere e rompermi rovinosamente l'osso del collo, e dopo poco riuscii a vedere la luce del sole.
«Ehi, Celeste, aspetta!» mi chiamarono da dietro.
Ero già pronta a ringhiare e sbranare come una tigre affamata la persona che mi aveva fermato. Ma quando mi voltai e vidi J raggiungermi trafelato, con le guance rosse per la corsa e l'affanno da praticamente di ozio intensivo su divano, il mio istinto da animale feroce mutò in quello di una pecorella indifesa. Sorrisi imbarazzata, sentendo affiorare un lieve calore sulle guance.
«Ciao J» lo salutai, cercando di mostrare tranquillità e sicurezza.
«Hai dimenticato questo» mi tese il mio cellulare e si sistemò la tracolla che gli aveva inclinato una spalla.
«Oh» ridacchiai nervosamente «Grazie» ed eccola di nuova quella parola che cominciavo ad odiare.
«Ero venuto a salutarti a fine lezione, ma c'era solo il tuo cellulare» spiegò con un sorriso.
«Sai com'è, nella fretta» arrancai, gesticolando come una pazza.
«Il tuo amico che fine ha fatto?» mi chiese poi, notando l'assenza di Romeo.
«Se lo sapessi» risposi, sentendo l'acidità tornare a scorrermi nelle vene «Puff, sparito nel nulla, come un illusionista»
J rise e io mi unii a lui. Le nostre risate s'intrecciavano perfettamente, come due strumenti di un'orchestra e non volevo che quella musica così armoniosa finisse. Ma, ahimè, le cose belle sono destinate a morire, come uno splendido fiore o una leggiadra farfalla. Due suoi compari lo richiamarono a gran voce e lui fece cenno loro di aspettare un attimo.
«Devo andare» disse, sorridendomi «Ci vediamo domani»
Cominciò a indietreggiare, senza staccare il nostro contatto visivo.
«Prima fila a ripassare gli appunti» aggiunse «Tienimi un posto, mi raccomando»
Non risposi, mi limitai solo a sventolare una mano e annuire come una decerebrata. Mi risultava difficile credere che Jean Philippe mi avesse chiesto di tenergli un posto accanto a lui. Era già il colmo che lui si era avvicinato a me, dopo due anni di totale disinteresse nei miei confronti. Lo vidi raggiungere i suoi amici, scambiarsi con loro pacche amichevoli, ridere divertito alle loro battute. Sarei rimasta volentieri lì a fissarlo all'infinito, a godere della sua bellezza. Ma dovevo tornarmene a casa e, soprattutto, non volevo sembrare una rimbambita fossilizzata sul vialone dell'Università. Non era il mio sogno diventare la statua che dava il benvenuto agli studenti. Perciò ripresi il mio cammino verso casa, con due Celeste che si battevano dentro di me. Una irremovibile nell'arrabbiatura con Robbeo, pronta ad uno scontro epico con lui e l'altra, più pacata e tranquilla, che non faceva altro che pensare agli occhi azzurri di J.
D'improvviso un braccio sbucò da una delle siepi che costeggiava il vialone dell'Università e mi trascinò con forza tra le foglie. Mi tappò la bocca, per impedirmi di urlare e fece aderire il mio corpo al suo. Non potevo nemmeno vedere la faccia del mio aggressore perché era coperta da un casco dalla visiera scura. Forse quel maniaco era lo stesso che aveva rapito Robbeo. Forse ci stava seguendo e spiando da settimane per studiare i nostri spostamenti con l'unico scopo di ucciderci. Dovevo reagire, dargli un pestone o una gomitata, ma ero pietrificata dalla paura. Già immaginavo i miei necrologi sparsi per la città, vicini a quelli di Romeo e i telegiornali impazziti che davano tutte le ultime notizie sull'omicidio dei due universitari assassinati. Non avevo nemmeno dato l'addio ai miei genitori! Respirai a fondo, pronta ad andare incontro al mio nefasto destino. Il maniaco levò lentamente la mano dalla mia bocca e mi voltò repentino verso di lui. Si tolse il casco, voleva che prima di morire, vedessi il volto del mio assassino. Quando riuscii a vedere finalmente i suoi occhi smeraldini, avrei dovuto tirare un sospiro di sollievo vedendo un viso familiare. Ma non fu così. Avrei preferito cento volte un maniaco, piuttosto che quel pallone gonfiato di Ruben che era diventato d'un tratto anche rapitore.



«Cosa diavolo ci fai tu, qui?!» mi urlò in faccia, con i capelli tutti arruffati e la borsa dei libri che le pendeva in modo scomposto da una spalla.
Il suo aspetto era talmente buffo che non riuscii a trattenere un sorriso, soprattutto per il modo in cui aveva scalciato e con cui si era battuta pensando fossi chissà quale specie di maniaco.
«Cos’hai da ridere, eh, fioraio? Mi hai quasi fatto prendere un infarto con i tuoi modi da troglodita!» continuò a starnazzare, mentre tentava di darsi una sistemata.
«Trogoche?» chiesi di nuovo, sapendo perfettamente di farla infuriare ulteriormente.
Cosa ci potevo fare se era tremendamente stuzzicante farla incavolare?
«Sei. Un. Cretino. Così ti è più chiaro?» mi rimbeccò, partendo con le offese.
Era riuscita a lisciarsi i capelli e a togliersi le foglie di dosso, ma le era rimasto un ramoscello fra i capelli che non aveva evidentemente visto. Mi avvicinai, armato solo di buone intenzioni, e mi chinai per toglierle quel pezzettino di legno.
D’improvviso s’irrigidì del tutto, forse turbata dall’eccessiva vicinanza del mio corpo al suo, ed i suoi occhi chiari erano liquidi quasi come quelli di un lago. Tutto sommato era carina, per quanto la sua semplicità potesse essere attraente per uno come me.
Da una botta e via, amico.
Se avessi potuto battere il cinque con il mio ego, l’avrei fatto in quel preciso istante, ma non appena tolsi il ramoscello di legno dai capelli di Celeste, riuscii, d’istinto, a spostare il piede prima che quella pazza inferocita mi assestasse un pestone che avrebbe fatto invidia a quelli cui era solito Chivu, il difensore romeno dell’Inter.
«’Ci tua!» le dissi, fissandola in cagnesco ma il suo cipiglio non era da meno.
Se uno sguardo avesse potuto uccidere, sarei stato già in una bara, pronto a concimare la terra.
«Così impari a tenere le tue manacce lontano da me!» ringhiò furiosa, rispolverando nuovamente la sua caratteristica Brontolo-posa.
Evidentemente era appena fuggita da un manicomio o da un centro di recupero mentale, perché una persona sana di mente non poteva avere quel genere di reazioni che rasentavano la schizofrenia.
A quel punto, pieno di rabbia quasi fin sopra le orecchie, le avvicinai il ramoscello proprio davanti agli occhi e ci vollero tutti i santi del paradiso per impedirmi di tirarglielo dritto in faccia.
«Avevi questo nei capelli, volevo soltanto togliertelo!» le urlai, stufo di quel suo comportamento da suora acida.
Gli occhi di Celeste si spalancarono, diventando deliziosamente grandi e azzurri, poi un lieve rossore le affiorò alle guance, facendomi seccare la bocca.
«T’oh!» ridacchiò nervosamente «è un bastoncino».
Se non avessi avuto le mani impegnate dal ramoscello e dal casco, l’avrei sicuramente strozzata. Avevo evitato per miracolo di rimanere senza alluce, e lei se ne usciva con una frase banale come quella.
«Adesso, chi dei due che deve chiedere scusa?» le rinfacciai, riferendomi a meno di ventiquattr’ore prima, quando si era impuntata soltanto per sentire quella parola uscire dalla mia bocca.
«Tanto so che c’era un secondo fine, che ti credi! Non sono mica nata ieri! Li conosco quelli come te, che fanno i fighetti e che pensano di avercelo solo loro.. eh, eh! Sei solo un cazzaro, come tutti gli altri!» continuò, riprendendo lo stesso tono inviperito di poco prima.
Non erano nemmeno passati cinque minuti da quando ci eravamo incontrati, e già avevo voglia di ucciderla. Per quale motivo continuavo ancora a darle retta?
«Senti, non me ne frega nulla di quello che pensi e me ne sbatto delle considerazioni che hai di me, voglio solo il casco di Valentino e poi sparirò dalla tua vista» le spiegai, raggiungendo l’esasperazione.
«Il tuo preziosissimo gingillo è a casa, dove lo hai lasciato ieri!» s’impuntò, incrociando le braccia al petto e guardandomi di sbieco.
«IO?!» sbraitai, indicandomi. «Ma se tu mi hai buttato fuori senza darmi nemmeno il tempo di rivestirmi!».
Eh, no! Un conto era prendere di mira il mio essere, come dire, un po’ cascamorto, ma accusarmi di qualcosa di cui non avevo colpa, era un altro paio di maniche.
«Non urlare, la gente ci sta guardando» mi fece notare e, voltandomi, intravidi degli studenti che parlottavano tra loro, indecisi se avvicinarsi oppure no.
Quando avevo ‘attirato’ l’attenzione di Celeste, o meglio, quando l’avevo rapita, mi ero riparato dietro una sorta di alberello a cespuglio, in modo che nessuno potesse riconoscermi. Evidentemente avevo fatto male i conti e la mia notorietà, per la prima volta, giocò a mio sfavore.
«Senti» le dissi, inspirando forte per controllarmi «andiamo a casa tua, mi dai il casco, e proseguiamo ognuno per la propria strada».
Anche se l’idea iniziale era stata quella di ‘provare’ un’avventura con una ragazza che non conoscesse affatto la mia identità, il carattere di Celeste era davvero insopportabile e non avrei voluto ritrovarmi, fra qualche anno, in cura da uno psichiatra.
Celeste mi fissò, poco convinta da quella mia proposta. «Va bene, ma tu aspetti sotto casa» puntualizzò, evitando accuratamente la possibilità che si potesse ripetere ciò che ieri mi aveva fatto guadagnare un biglietto gratis per Nudolandia.
«Giuro di non mettere più piede in quella bettola» esclamai, fregandomene altamente di apparire scortese.
Miss Acidità mi fulminò con lo sguardo, valutando attentamente l’ipotesi di continuare quel battibecco, poi scrollò le spalle e mi afferrò per il giubbotto di pelle, trascinandomi oltre il cespuglio.
«A-aspetta!» le intimai, per paura che qualcuno mi riconoscesse, ma ormai c’era ben poco da fare, eravamo ufficialmente usciti allo scoperto.
«Dove tieni quella tua specie di trabiccolo che solo un fioraio può permettersi» mi ricordò, sfoderando un sorriso fin troppo furbo.
«Ah, ah!» le risposi, cominciando ad accelerare il passo dirigendomi verso il parcheggio dei motorini. «Il sarcasmo non manca mai nei tuoi discorsi».
«Diciamo che ne faccio un’arma di difesa» mi spiegò lei, cominciando a blaterare su aneddoti della sua vita talmente pallosi che mi limitai ad annuire e a pensare a tutt’altro.
Quando passavamo vicino a qualche gruppetto di gente, i mormorii si levavano dai ragazzi più vicini ed io tentavo in tutti i modi di nascondermi, alzando magari il colletto del giubbotto, calcandomi meglio il cappello da baseball sulla testa e spingendo i Ray-Ban ancora più verso gli occhi.
Celeste, invece, procedeva spedita, a testa alta, completamente assorta nella storia di un certo suo amico, Roberto, Rodrigo, non ricordavo bene, e di un pennarello indelebile che lo riguardava. Avevo disconnesso il cervello quando dalle sue labbra erano uscite le famose parole ‘ad un mio amico è successo..’ e l’unica mia preoccupazione, in quel momento, era solo riuscire ad arrivare alla Vespa prima che qualcuno potesse gridare ‘Pittore, Pittore, posso farmi una foto con te?’.
La vernice bianca del trabiccolo spiccava come una macchia di latte nel caffè e ci misi tre secondi per raggiungere il mezzo a due ruote.
«E questo cos’è?» mi chiese Celeste, sempre più sospettosa.
«Una Vespa» risposi, facendo spallucce e cominciando ad indossare il casco.
«Questo lo vedo» sospirò «ma dov’è sparita la bambina?».
Per un attimo i nostri due sguardi s’incrociarono e dovetti accampare una scusa che precedentemente non mi ero preparato.
«Ho mentito, era di un mio amico la moto» dissi, sperando di essere convincente.
«Lo sapevo!» esultò lei trionfante, puntandomi il suo solito dito indice sotto al mento. «Sapevo che un fioraio non poteva permettersi una moto da 10.000 euro!».
«Brava, Sherlock» mormorai «cosa vuoi? Un premio?».
«Credo sia sufficiente un ‘avevi ragione’» disse, aspettando che quelle parole uscissero dalla mia bocca.
Se avesse saputo che la Ducati non solo era intestata a me, ma che nel garage di casa ne avevo anche una nera e un’altra gialla, l’avrei lasciata con la bocca asciutta. Purtroppo ero Ruben il fioraio, un ragazzo sempliciotto che poteva permettersi, al massimo, una Vespa vecchia come il cucco.
«Monta, spiritosona!» l’apostrofai, porgendole un altro casco, quello del vero Ruben.
«Mi sembrava di averti detto che non sarei mai salita su uno di quelli» mi fece notare stizzita.
«No, tu hai detto che non saresti mai salita su quel trabiccolo.. questo è un altro» le feci notare con ovvietà.
Celeste aprì la bocca, per poi richiuderla e sorridermi.
Per la prima volta riuscii a vedere un’espressione di reale divertimento sul suo viso perennemente imbronciato.
«Rigiri la frittata sempre come ti pare» disse, indossando il casco e montando dietro.
«È la mia specialità» sorrisi, ritrovando la mia solita arroganza.
Feci girare le chiavi nel cruscotto e la Vespa rombò rumorosamente. Feci scattare il cavalletto e diedi un po’ di gas, zigzagando tra gli altri motorini parcheggiati e accompagnando il moto con i piedi.
Arrivai fino all’uscita di Via Regina Elena, poi spinsi un altro po’ la Vespa e riuscii a imboccare la strada. Il semaforo era verde, perciò proseguii più avanti, attendendo le indicazioni del mio navigatore personale.
«La prossima a destra» mi disse, sporgendosi oltre la mia spalla e sussurrandomelo quasi all’orecchio.
Con la coda dell’occhio riuscii a vedere il suo viso, completamente rapito da quel mondo in movimento. Per un attimo mi sembrò perfino fin troppo carina, ma scossi prontamente la testa e ritornai in me.
«A sinistra e a destra, poi siamo arrivati» aggiunse, indicandomi una viuzza nascosta.
«Okay» risposi.
Feci sgasare la Vespa e seguii le indicazioni che mi aveva dato, fermandomi proprio sotto l’ingresso del palazzotto che avevo visto di sfuggita l’altro giorno, in mezzo alla pioggia.
«Siamo arrivati» comunicai, spegnendo il motore.
Celeste scese delicatamente, si tolse il casco e me lo porse. «Arrivo subito» disse, poi cercò le chiavi nella borsa e sparì al di là del portone.
Attesi qualche minuto, trastullandomi con le macchine che passavano e con i passanti che mi fissavano dubbiosi, senza riconoscermi. In fondo, passare qualche ora a vagare per la città senza essere fermato ogni cinque secondi aveva il suo fascino.
La notorietà era stancante, alle volte.
All’improvviso sentii una specie di tonfo provenire all’interno dell’androne, così mi alzai, tirai giù il cavalletto alla Vespa, e tentai d’intravedere qualcosa dalle vetrate. Feci un po’ d’oscurità con entrambe le mani, poi non riuscii a trattenere un sorriso.
Ai piedi delle scale c’era Celeste seduta per terra, intenta a massaggiarsi il sedere. Evidentemente era scivolata dalla fretta e il casco le era rotolato quasi fino ai miei piedi, vicino al portone appunto.
Poco dopo che la stavo osservando, i suoi occhi incrociarono i miei e come se fosse stata punta da un’ape, si alzò di scatto, rossa in volto e imbarazzata dalla scena che mi ero goduto dal primo all’ultimo minuto.
Riuscì a riacquistare quel poco di dignità che le era rimasto e raccolse il casco da terra, poi aprì il portone, fissandomi in cagnesco.
«Se dici qualcosa, ti uccido» ringhiò, poi mi spinse il casco a forza tra le mani.
«E chi ha parlato» risposi, soffocando a stento una risata.
Celeste sembrò poco convinta di quella mia falsa aria innocente, poi fece spallucce e tornò verso il portone. Io, dal mio canto, ritornai in sella alla Vespa e accesi il motore, fiero di aver ottenuto ciò che volevo.
«Allora è un addio» le urlai, al di sopra del rumore.
«Bye bye, fioraio» ridacchiò lei.
«Ancora non mi credi?».
«Non mi fiderò mai a quella faccia da mascalzone che ti ritrovi» mi rispose, posando una mano sulla porta.
A quel punto avrei dovuto tagliare il discorso e tornare a casa, magari per farmi una doccia e presentarmi al meglio per il servizio che avrei dovuto fare il pomeriggio, invece ebbi un’idea migliore.
«Scommettiamo?» le chiesi furbo.
Celeste sulle prime sembrò disorientata, poi lasciò andare il portone e mi raggiunse.
«Perché?» mi domandò, incuriosita.
Era acida, rompicoglioni, chiacchierona e frigida, ma aveva una curiosità tale che sarebbe andata in capo al mondo pur di ottenere quello che voleva.
«Secondo te io non sono un fioraio, giusto? Quindi io ti dico di scommetterci sopra» le spiegai, divertito dalle facce che stava facendo.
«E cosa dovremmo scommettere?» chiese, ormai divorata dalla curiosità. «Io non ho un becco d’un quattrino».
E il quel preciso istante si rivoltò le tasche, racimolando venti centesimi, o qualcosa di più.
«Non si tratta di soldi» le risposi.
Nemmeno se si fosse venduta quel pidocchioso appartamento in cui abitava sarebbe riuscita a pagare la cena cui ero solito recarmi il venerdì con i miei compagni di squadra. Cosa ci avrei fatto con i suoi soldi? Già ne guadagnavo a bizzeffe e non mi sarebbero serviti a nulla.
«Cosa ci scommettiamo, allora?» domandò, piegando la testa di lato, sempre più confusa.
Cos’altro avrebbe potuto chiedere un ragazzo che aveva già tutto?
«Te lo dirò alla fine di questa giornata, ci stai?» le chiesi, convinto che avrebbe fatto di tutto pur di avere ragione.
Celeste sembrò sul punto di rinunciare, troppo diffidente per fidarsi di uno con la faccia come la mia, però la sfida era troppo allettante per astenersi.
«Voglio proprio vedere cosa farai quando non saprai più che inventarti!» disse, afferrando il casco di Vale che mi aveva appena dato e riponendo quello di Ruben dentro il bauletto.
«Tieniti forte, allora. Ti faccio fare un giro della mia città» sorrisi.
«Non è tua» mi apostrofò, come al solito.
Sì, invece, perché io ero l’ottavo re di Roma.

Quanto sei bella Roma, quann’è sera
quanno la luna se specchia dentro er fontanone.

Non era notte e il sole splendeva alto nel cielo, ma noi avevamo appena imboccato Via Nazionale e la mia città già ci parlava. I semafori verdi, il traffico scorrevole, tutto stava ad indicare che quella giornata era iniziata col piede giusto e nonostante avessi fatto mille storie per ottenere il casco di Vale, vederlo fasciare la testa di Celeste mi dava una certa soddisfazione, tanto che non riuscivo a spiegarne il motivo.

E le coppiette, se ne vanno via
quanto sei bella Roma, quanno piove.

Arrivammo a Piazza Venezia quasi subito, beandoci della vista immensa del Vittoriano, così bianco da accecare i turisti che cercavano, invano, di fotografare l’immensità di quella struttura. Le coppie d’innamorati che si tenevano per mano e si scambiavano effusioni sulla scalinate, incuranti degli sguardi degli altri.
«Sapevi che la statua al centro, quella sul cavallo, è dedicata al Milite Ignoto?» mi chiese, cercando di fare sempre la parte della maestrina.
«No» mentii, ma la storia di quella piazza era l’unica cosa che mio padre mi avesse mai raccontato, al di là di ogni altra che riguardasse unicamente il calcio.

Quanto sei grande Roma, quanno è tramonto
Quanno l’arancia rosseggia ancora sui sette colli.

Imboccai la via del mercato, quella che costeggia i Fori e giunge fino ad una delle sette meraviglie del mondo: il Colosseo.
«Vedo la maestà del Colosseo» canticchiai, ricordando Roma Capoccia come uno degli inni più belli a quella meravigliosa città. «Vedo la santità del Cuppolone».
Inizialmente Celeste mi fissò sorpresa, poi si rilassò. «E so’ più vivo, e so’ più bono. No, non te lasso mai, Roma capoccia..» intonò lei, urlandolo quasi nel mio orecchio.
«Der monno ‘nfame!» continuai io, lasciando la presa sul manubrio del motorino e facendomi guidare dal vento.
«Ma che sei pazzo?!» gridò Celeste, completamente terrorizzata, avvolgendo le braccia strette attorno al mio busto e infossando il viso nella mia schiena.
«E anche se fosse?» ridacchiai, riprendendo il controllo del mezzo.
Per il resto del viaggio, Celeste non parlò più e si limitò a tenermi stretto. Non dissi niente per farle cambiare idea, soprattutto perché sentirla così vicina a me, senza che le parole taglienti che spesso uscivano dalla sua bocca riuscissero a dividerci, era quasi piacevole.
Svoltai a destra e rallentai, perché il negozio di fiori di mia nonna era vicino.
«Siamo arrivati?» mi chiese, mezza intontita.
«Sì» le risposi, poi mi fermai del tutto davanti al suddetto locale.
Celeste scese dalla Vespa e si slacciò il casco, porgendomelo e guardando Petali d’amore come se non avesse mai visto un’insegna in tutta la sua vita.
«Vorresti farmi credere che tu lavori qui» sentenziò subito, non fidandosi minimamente del mio continuo annuire con il capo.
«Non credere che ti basti farmi vedere la vetrina per poter vincere la tua stupida scommessa» puntualizzò, poi spinse la porta e si decise ad entrare.
Riluttante, la seguii, pronto a farmi una grandissima dose di risate.
«Buon giorno» disse timidamente, facendosi largo tra petunie e gigli.
«Vieni, vieni, cara!» gridò una voce proveniente dal fondo del negozio.
Avanzammo tra ficus benjamin un po’ troppo folti e interi cespugli di Ibiscus, ma finalmente, in mezzo a quel caos, riuscimmo ad individuare il bancone.
«Salve» ripeté Celeste, non vedendo comparire nessuno.
«Un attimo, sto arrivando!» gridò nuovamente quella voce, sempre più vicina.
Dietro ad una pianta di limone sbucò una vecchietta, con una nuvola di capelli bianchi sulla testa e un paio di occhi verdi vispissimi.
«Sono riuscita finalmente a ritrovare la strada» sospirò sfinita «alle volte questo negozio è come una giungla!».
Celeste non riuscì a fare a meno di sorridere vedendo quella donnina dai modi gentili e dai capelli arruffati, poi tentò di riprendere un po’ di contegno.
«Salve, signora» disse educatamente «volevo solamente sapere se questo baldo giovane al mio fianco lavora per lei. Si tratta di una scommessa e non vorrei perdere» sorrise, mantenendo un tono garbato.
La vecchietta cominciò a rovistare in giro, spostando rotoli di carta colorata e fiocchi di tutti i tipi, poi riuscì ad afferrare un paio di occhiali spessissimi e li inforcò, tornando a guardarci.
«Tu devi essere l’angelo che ha parlato» sorrise «cosa volevi sapere?».
Celeste tentò di non andare in escandescenze, come suo solito, perciò si armò di un falsissimo sorriso e ripeté la domanda.
Lo sguardo della vecchietta si spostò su di me ed io sorrisi facendole un cenno con la mano. I suoi occhi s’illuminarono, poi fece il giro del bancone e corse ad abbracciarmi mozzandomi il respiro.
«Chicco! Tesoro mio!» gridò euforica, stritolandomi tra le sue braccia.
Celeste ci fissava entrambi perplessa, poi sfoderò nuovamente la Brontolo-posa e incrociò le braccia al petto.
«È tua nonna» sbottò delusa.
«Credo sia sufficiente un ‘avevi ragione’» le rinfacciai, utilizzando le sue stesse parole e sfoderando un sorriso sfrontato.
Rimase di stucco quando le rifilai quella genialata di dialettica, ma evitò il mio sguardo pur di non darmela vinta.
«Chicco di nonna, ma cosa ci fai qui?» mi domandò lei, senza mai smettere di frantumarmi le ossa.
«Come cosa ci faccio qui? Non ricordi? Io ci lavoro!» le dissi, stando attento a non far scorgere un lieve cenno d’intesa che soltanto io e Annunziata conoscevamo, fin da quando ero bambino.
«Ah! È vero, che smemorata che sono! Certo, alla mia età, queste sviste sono normali..» ridacchiò rivolgendomi l’occhiolino.
«Quindi fa veramente il fioraio» sospirò Celeste, quasi incredula.
Sei un genio, Leo!
«Certo, cara, cos’altro pensi che facesse il mio Chicco?» le domandò la nonna, calandosi perfettamente nella parte. «È nato per coltivare fiori».
A quel punto rifilai a Celeste un sorriso a trentadue denti. Non potevo resistere al profumo della vittoria, sia che si trattasse di una partita, sia di una semplice scommessa.
«Ma questo bel bocciolo chi è, nipotino mio?» mi chiese Annunziata, facendo gli occhi dolci. «Non sarà mica la tua fidanzata!».
«No, no, signora!» precisò immediatamente Celeste, cominciando a gesticolare anche con le mani, come una pazza. «Io e Ruben siamo soltanto.. ehm.. conoscenti?» disse lei, non sapendo nemmeno come definire il nostro rapporto.
«Ruben, eh?» ripeté la nonna, guardandomi complice.
Decisi, allora, di peggiorare la situazione, tanto perché ormai ero calato nella parte e non mi pareva corretto non approfittarne. Mi avvicinai ancor di più a Celeste, liberandomi dalla stretta della nonna, e passai un braccio attorno alle spalle di Miss Acidità, avvicinandola al mio petto e facendola arrossire fino alla punta dei suoi capelli biondi.
«C-che fai?» balbettò confusa.
I suoi occhi acquamarina incontrarono i miei ed io non potei fare a meno di tirar fuori un sorrisetto furbo che la fece immediatamente accigliare.
«Beh, nonna, a questo punto possiamo anche andare» dissi, visto che l’ora del mio servizio fotografico si avvicinava e dovevo ancora riaccompagnare Celeste a casa. «Siamo passati soltanto perché la mia ragazza non credeva che uno come me potesse fare il fioraio» ridacchiai.
Annunziata mi sorrise complice. «Beh, dì a questa adorabile fanciulla che nessuno meglio di te può trasformare un semplice bocciolo in un bellissimo fiore».
Ovviamente si riferiva al soprannome che aveva dato a Celeste, non appena l’aveva vista, ma la biondina non aveva compreso il riferimento che quella volpe di mia nonna aveva tirato fuori.
«Noi andiamo, nonna» dissi abbracciandola «ci vediamo domani».
«Arrivederci, signora» mormorò Celeste educatamente, per poi soccombere alla stretta soffocante di Annunziata.
Uscimmo a fatica da quel negozio-giungla, poi raggiungemmo la Vespa parcheggiata poco più avanti e tirai fuori i due caschi, porgendole quello di Vale. Lei lo afferrò diffidente, senza dire una parola.
Era la prima volta che rimaneva in silenzio per più di cinque minuti.
«Non hai più niente da rinfacciarmi?» ridacchiai provocandola.
Celeste s’imbronciò e mi fissò col suo solito cipiglio acido. «Il fatto che tu sia un fioraio non cambia nulla, rimani sempre e comunque un pallone gonfiato».
Montai sulla Vespa e accesi il motore. Celeste si allacciò il casco e mi afferrò per un braccio, pronta a salire.
«Aspetta» la fermai, tirando fuori un ghigno quasi da folletto. «Non abbiamo lasciato in sospeso qualcosa io e te?» le ricordai.
Celeste inghiottì a vuoto e cercò di fare finta di nulla. «Non ricordo».
«Mi pare che la scommessa parlasse chiaro e visto che io sono il vincitore, ora posso dirti cosa riceverò in premio».
I suoi occhi azzurri divennero improvvisamente grandi, forse troppo, tanto che riuscii a sento a non perdermi in quell’oceano di emozioni. D’improvviso Celeste ritornò in sé e mi fissò dall’alto in basso, nella sua caratteristica Brontolo-posa.
«Avanti, spara. Cosa vuoi?» ringhiò indispettita.
Ci pensai un po’ su, non sapendo davvero cosa poterle chiedere di così imbarazzante da prendermi una piccola vendetta per avermi sbattuto nudo fuori di casa. Le avrei potuto restituire pan per focaccia, facendola girare in reggiseno e mutandine per il centro di Roma, ma poi pensai di essere lievemente maniaco a pensare una cosa del genere, poi mi venne in mente di mollarla lì e di farla tornare a casa a piedi, ma cancellai immediatamente quell’ipotesi dalla mente.
«Allora?» insistette, scocciata. «Non ho tutto il giorno da sprecare, io ho una vita da portare avanti e non sto tutto il giorno davanti allo specchio a pavoneggiarmi!».
Cosa c’era di più allettante di chiuderle finalmente quella ciabatta rumorosa?
«Baciami» le dissi e lei sgranò quei giganteschi occhi blu, come quelli delle bambole di porcellana.
«P-prego?» balbettò incredula, con la bocca che le si apriva e le si chiudeva a vuoto.
Il sorriso traverso che ero solito utilizzare nelle mie conquiste apparve al lato delle mie labbra, dandomi un aspetto malizioso. «Sei in debito con me, ricordalo» le mormorai, avvicinandomi pericolosamente e passandole un braccio attorno alla vita. «Ti chiedo soltanto un bacio e poi nient’altro».


Bene, bene, bene! Cosa dire di questo capitolo tanto sudato? Innanzitutto devo complimentarmi con la mia Lover, perché sono stata 3 ore buone a ridere di tutti i nomignoli dati ai gruppetti dell'università (anche perché io faccio uguale!) e voglio proprio farle un applauso per la bellezza della sua Celeste e del suo Robbeo *si alza in piedi e batte le mani con gli occhi  luccicanti*
Insomma avete conosciuto il bellissimo JeanPhilippe (o J che dir si voglia) e sappiamo con certezza che è l'unico ragazzo che, per ora, è riuscito a rendere quanto meno 'docile' la nostra piccola furia bionda di nome Celeste, ma chissà che il nostro Leo/Ruben, con la scusa della scommessa, riesca a far breccia in quel suo muro di sarcarso e acidità!
Uhuh, mi ero dimenticata del vero Ruben! -.-'' è pietoso, lo so, però divertente con la sua balbuzia! Diciamo che è tutto il contrario di Leo, per questo si trovano bene insieme!
Cos'altro dire? Ah! La nonnina di Leo, cioè Annunziata, che è complice tanto quanto il nipote della presa in giro nei confronti della porvera Celeste, e vi assicuro che apparirà più spesso d'ora in poi, rendendo la vita della nostra protagonista ancor più ingarbugliata!
Bene, bene.. passiamo ai ringraziamenti!
O.O'' già al secondo capitolo siamo arrivate a 10 recensioni! (ç.ç *io e Lover siamo commosse*) e mi scuso se non abbiamo risposto all'ultima della mia Khristh, ma internet con i suoi problemi permette a Manu di essere connessa sì e no 3 secondi! è.é
Ringraziamo le 9 persone che l'hanno inserita nei preferiti, le 23 nelle seguite e l'unica che l'ha messa tra le ricordate.
Inoltre ringraziamo i lettori silenziosi che hanno permesso al primo capitolo di ricevere ben 386 visite! Vi lovviamo!

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PERSONAGGI:

Celeste Fiore                                              Leonardo Sogno                    Romeo/Robbeo Ciuccio



JeanPhilippe                                                    Ruben Canilla





   
 
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