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Autore: L_Fy    06/06/2011    20 recensioni
...Se lo disse anche a fior di labbra, sottovoce: "Veronica Alberice Scarlini della Torre, sei uno schianto."
Aveva diciotto splendidi anni, era raffinata, ricca, alla moda, trendy da morire, più fashion di Paris Hilton, più glamour di Anna Wintour, più sensuale di Monica Bellucci. Nessuno del centinaio abbondante di ragazzi della sua scuola poteva non sbavare mentre lei passava senza degnarli di un solo sguardo, nessuna delle 2000 oche della sua scuola poteva non morire d’invidia, nessuno del corpo insegnanti poteva non rimpiangere di non avere avuto un solo grammo del suo allure nella loro triste, patetica esistenza.
Quindi, non poteva essere altrimenti: lui finalmente l’avrebbe guardata.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Serena avrebbe dovuto essere felice, e invece erano due ore che aveva un muso lungo come quello di un mastino napoletano. Tutta colpa di Tebaldo “puzza sotto il naso” Santandrea dalla Torre, che quel giorno aveva esaudito le sue silenziose preghiere e non l’aveva salutata. Nemmeno guardata. Nemmeno annusata. Le era passato di fianco ignorandola come se lei facesse parte dell’intonaco scrostato alle sue spalle. Il che era normalissimo per chiunque, compresa lei stessa, tolti gli ultimi giorni e il metaforico meteorite del canile. Quindi, avrebbe dovuto essere contenta di aver ripristinato il normale equilibrio delle cose. Infatti, lo era. Doveva esserlo! Aveva un ragazzo che le voleva bene, forse noioso ma buono e bravo. E anche lei era buona e brava: figurarsi se una ragazza esteriormente banale, mediamente intelligente e socialmente nerd doveva perdere tempo a pensare a due occhi verdognoli e obliqui. Due occhi sospettosi, quasi fragili; a un viso antipatico, indisponente… affascinante. A una voce dura che nascondeva carezze. Certo che non ci pensava. Nemmeno per un secondo. 
“Paolo!” esclamò quasi con sollievo quando lo vide da lontano che ciabattava verso l’uscita buttando le lunghe gambe un po’ a casaccio.
Paolo Bianchi alzò la faccia pensierosa e un sorriso gli illuminò le spesse lenti degli occhiali: colta da un improvviso moto di tenerezza mista a un velato senso di colpa, Serena gli corse incontro e, sullo slancio del momento, lo abbracciò stretto baciandolo sulla bocca.
“Ehi?” rise Paolo arrossendo vivacemente e allontanandosi di un passo: la sua naturale riservatezza lo rendevano sempre un po’ impacciato nelle effusioni, figurarsi quelle in pubblico.
“Ciao” lo salutò Serena, già smontata “Scusami, non volevo metterti in imbarazzo.”
“Macché, mi hai fatto piacere.” balbettò Paolo arrossendo ancora di più.
Era una chiavica anche a mentire, poverino.
“Hai, uhm… ehm… ti accompagno fuori?”
“No devo passare in segreteria per prendere delle fotocopie.”
“Ah, ok. Ci sentiamo dopo?”
“Ok.”
“Bene, ok.”
Di nuovo i discorsi fra due tuberi. Abbattuta, Serena salutò con la mano e un sorriso mesto allontanandosi. Non ci capiva più niente di quello che sentiva per Paolo. Il loro era stato un avvicinamento graduale, da amici: le famose campane, i fuochi d’artificio, le passioni incendiarie tra loro non c’erano mai state. Ma pomiciare con lui era piacevole, aveva un buon odore e un buon sapore. Era dolce e tenero e delicato. “Era una noia.”
No! Insomma, era ingiusto pensarla così. Certo, Paolo non aveva inquietanti occhi verdognoli e non era crudele con qualsiasi cosa osasse respirare verso di lui, ma questo non voleva dire che fosse noioso. Era solo… solo…
“Noioso.”
Serena arrivò in segreteria sbattendo con forza la borsa sul tavolo.
“Mi servono le fotocopie richieste dalla professoressa di biologia.” disse in fretta alla segretaria che la stava guardando col sopracciglio alzato.
Intascò le fotocopie e si allontanò a testa bassa: non riusciva a togliersi dalla testa una certa voce bassa e sprezzante. Una voce da uomo. Paolo aveva una voce così da ragazzo, piacevole ma delicata.
“Noiosa.”
Non noiosa! Dolce. Certo, dei gran paroloni non glieli aveva mai detti… col tempo, forse. Facendo uno sforzo per vincere la timidezza. Anche se poi a conti fatti non era così timido, valutò dirigendosi verso l’uscita. Certo, non aveva la spavalda arroganza di un ricco e viziato rampollo dell’alta società…. Certo, non trasudava sicurezza, non era merdosamente ammaliante anche senza volerlo, non sorrideva in una maniera da far sciogliere i cubetti di ghiaccio nei bicchieri… ma Paolo (perché era a Paolo che stava pensando, ok?!)… Paolo era buono, onesto, pulito.
“Noioso!”
“Adesso basta!” ringhiò sottovoce alzando bruscamente il viso: suo malgrado incappò in uno sguardo obliquo e verdognolo, così gelido da ghiacciare l’Antartide.
Veronica Scarlini della Torre. Con tutto l’entourage intorno, intento a cicalare con un gran movimento di unghie laccate e braccialetti tintinnanti. Fortuna che non l’avevano sentita: Maria Vittoria parlava a raffica, immersa nell’entusiasmante descrizione dell’ultima sessione di shopping, Maria Lucrezia inviava un messaggio dal suo i-phone fingendo di ascoltare Maria Vittoria e Maria Beatrice sbirciava il messaggio di Maria Lucrezia senza nemmeno preoccuparsi di fingere di ascoltare Maria Vittoria. Quando Veronica e i suoi inquietanti occhi verdognoli la abbandonarono, Serena sentì subito meno freddo: finse di armeggiare col rubinetto, si lavò le mani cercando di recuperare il contegno. Sbirciò dallo specchi e vide Veronica che si stava lisciando i capelli stranamente poco impalcati.
“Sapete che ho un nuovo ospite in casa mia?” disse poi nel bel mezzo del discorso di Maria Vittoria, come se quella nemmeno stesse parlando.
“Davvero?” abboccò subito Maria Beatrice, già abbondantemente stufa dei deliri moderecci di Maria Vittoria “E chi è?”
“Cos’è vorrai dire” rispose Veronica con voce morbida: teneva gli occhi bassi, ma chissà perché Serena si sentiva ancora osservata “Si tratta di un cane.”
“Byron?” propose molto argutamente Maria Lucrezia.
“No. E’ un certo Sancho.”
“Spagnolo, allora.” approvò Maria Vittoria: era inguaribilmente esterofila, a sua insaputa.
“Italiano meticcio, credo. E’ un bastardone pulcioso e incredibilmente puzzolente che Tebaldo, per chissà quale aneurisma cerebrale, ha prelevato dal canile per poi scaricarlo nel mio giardino, come se fosse un inutile ammasso di spazzatura. Inocencia è quasi svenuta dalla costernazione.”
A nominare Tebaldo, le antenne delle tre Marie si erano messe a vibrare tutte contemporaneamente come uno stormo di locuste: il nobile cugino si era ripassato più o meno segretamente tutte loro, trattandole malissimo e disprezzandole pubblicamente. Ovvio che lo adorassero e venerassero come se fosse un Dio dell’Olimpo.
“Tebaldo è venuto a casa tua?”
“Ti senti con Tebaldo?”
L’espressione di Veronica lasciò trasparire per un secondo annoiata esasperazione.
“Ragazze, non sto parlando di Tebaldo: sto parlando delcane di Tebaldo parcheggiato a casa mia.”
“Allora Tebaldo è venuto a casa tua!”
“Ma ti senti con Tebaldo?”
Veronica sembrò quasi digrignare i denti: persino Serena, improvvisamente interessata al fatuo discorso, per un attimo fu solidale con il suo evidente sforzo di comunicare con qualcuno di intellettualmente paragonabile a un parasole.
“Si, Tebaldo è venuto a casa mia: mi ha mollato lì un cane dalle eccentriche preferenze sessuali. No, non mi sento con Tebaldo, e non mi ci sentirò in futuro, se non per comunicargli che il suo dannato cane deve sloggiare dal mio giardino che ormai ha più buche di un campo da golf e inizia a puzzare come una latrina a cielo aperto.”
“Oh” fecero quasi in coro Maria Vittoria e Maria Lucrezia: Maria Beatrice, che era rimasta miracolosamente zitta, sembrò improvvisamente connettersi in rete e girò uno sguardo stupefatto su Veronica.
“Ma Tebaldo ha un cane?” esclamò sinceramente costernata “Non lo sapevo!”
Lo sguardo di Veronica diventò adamantino: passò su Serena che comunque si sentiva già un blocco di ghiaccio e finì su Maria Beatrice schiacciandola giù con aria schifata come se fosse stata uno scarafaggio ribaltato che agitava inutilmente le zampette.
“Tebaldo non ha un cane” esalò con voce musicale e fredda come vento artico “Tebaldo non può avere un cane, perché non gliene frega di niente e di nessuno e un qualsiasi essere vivente nelle sue mani morirebbe di crepacuore, fosse anche un cactus millenario. Ha preso questo povero cane per capriccio e quando si è annoiato l’ha buttato via nel mio giardino.”
Serena pensò a Sancho, l’allegra Furia Miasmatica, seduto mogio e triste in un ricco giardino solo e abbandonato da tutti e le si strinse il cuore in una morsa; si girò lentamente, sicura di incontrare lo sguardo di Veronica. Lo incontrò, infatti, persino meno freddo e crudele del solito.
“Tebaldo butta via qualsiasi cosa, quando si annoia.” concluse Veronica tornando a lisciarsi i capelli, parlando a tutti e a nessuno. Parlando a lei, evidentemente.
A Serena mancava l’aria: stava ricordando lo sguardo cupo e tormentato di Tebaldo mentre parlava della sua povera nonna malata e per la prima volta le sembrò una grottesca versione di Cappuccetto Rosso a suo uso e consumo: rivide lo sguardo di Tebaldo com’era di solito, freddo, calcolatore, spietato. “… a Tebaldo non gliene frega di niente e di nessuno…”
Vero. Verissimo. Ne aveva avuto la riprova anno dopo anno: come aveva fatto a credere che fosse diverso? Come aveva potuto farsi abbindolare come una stupida qualunque?
“Ma tu sei una stupida qualunque…” le disse una vocina triste nella testa “Tu sei solo la povera signorina Salsicce & Co e uno come Tebaldo non può che prenderti in giro come e quando vuole.”
Serena girò i tacchi e volò fuori dalla stanza in un silenzioso turbinio di fotocopie e capelli, seguita dal sorrisetto trionfante che stirò le labbra di Veronica.
“Comunque non è vero che Tebaldo butta via tutto” sentenziò una ignara Maria Beatrice dopo una accurata riflessione “L’ho visto io l’altro giorno che indossava un giacchino di Dolce dell’anno scorso… cioè, praticamente vintage!”
“Praticamente.” la compatì Veronica senza lasciar spegnere il sorriso.
*          *          *
Tebaldo si stava annoiando: era indeciso se chiamare il maestro di tennis per una partita volante o se ripiegare su palestra e massaggio. Il cielo nuvoloso suggeriva forse la seconda ipotesi, ma a Tebaldo piacevano le sfide e aveva appena afferrato la racchetta da tennis quando Conception, la sua domestica, fece capolino dalla porta con un’espressione nebulosamente sorpresa sul viso.
“Senor, uhm… la cercano alla porta.”
Immediatamente, Tebaldo tornò di buonumore: non aveva idea di chi poteva essere ma la curiosità era ottima per scacciare la noia. Non chiese nemmeno chi fosse che lo stava cercando.
“Vengo subito.” rispose avviandosi verso la porta con la racchetta in mano.
E fu così che Serena lo vide arrivare: pantaloncini bianchi, maglietta Lacoste sbottonata, aria sportiva… bello e altero da prendersi a schiaffi. Bello e altero da lasciarla senza fiato. Infatti dovette costringersi a respirare mentre le mani le si ghiacciavano immediatamente, pur continuando a sudare. Quando Tebaldo la inquadrò nel vano della porta, sul viso gli si dipinse un’espressione di blanda sorpresa.
“Ma tu guarda” la salutò con voce strascicata e fredda “La signorina Salsicce & Co. A cosa devo l’onore di una visita?”
Solo allora si accorse della presenza vicino a Serena: si trattava di un formidabile donnino alto un metro e un anacardo, largo altrettanto, di età indefinibile e dal viso sorprendentemente simile al muso di un bulldog infuriato. La mano grassoccia del donnino scattò all’insù e afferrò quella di Tebaldo con sorprendente rapidità.
“Signor Santandrea, buongiorno, sono Amaltea Giovinazzi la direttrice del canile comunale. Sono qui con uno dei nostri collaboratori per controllare lo stato di salute del cane che lei ha adottato da noi, Sancho. Possiamo vederlo?”
Anche la voce del donnino sembrava quella di un bulldog infuriato: Tebaldo le fece cadere addosso uno dei suoi migliori sguardi glaciali, uno sguardo che avrebbe rotto chiunque in due come un uovo di quaglia. Chiunque, ma non il metro sferico della signora Giovinazzi, che ricambiò lo sguardo col mento bulldoghiano ben proteso.
“Giovanozzi, ha detto?” cercò di demolirla Tebaldo con fredda alterigia.
“Giovinazzi, signore. Sancho dov’è?”
Bella domanda: Tebaldo girò lo sguardo su Serena che dovette fare appello a tutta la sua forza per non scappare via a gambe levate.
“Già, ehm , noi… vorremmo vedere Sancho, se non ti spiace.” disse in fretta con una voce che sembrò quasi normale.
Tebaldo non perse un grammo della sua alterigia.
“Posso chiedere perché, di grazia?”
“Certo” rispose a raffica la Giovinazzi, come se avesse avuto la bocca piena di petardi “E’ prassi comune controllare che i nostri cani adottavi si siano ben inseriti nel contesto familiare dei loro nuovi padroni. Una specie di check up che ripetiamo più volte nell’arco dell’anno.” 
Tebaldo, dietro la sua maschera di freddezza, stava pensando velocemente: era indeciso se credere che la piccola occhioni da cerbiatto avesse inscenato quella storiella solo per poterlo incontrare o se credere che fosse tutto vero. Dalla presenza del piccolo e scoppiettante bulldog umano si sarebbe detto la seconda ipotesi, ma doveva accertarsene. In maniera che risultasse divertente per lui, ovviamente.
“Sancho non è qui” rispose quindi prontamente “Ma posso garantire che si trova in una delle proprietà di famiglia, in piacevole e sanissima compagnia.”
“Capisco” abbaiò la Giovinazzi per niente scalfita “Ciò non toglie che è nostro dovere verificare lo stato di salute del nostro cane.”
“Mi scusi signora Giovanotti, ma non è più il vostro cane.”
“Giovinazzi, signore. Il nostro cane in senso lato, naturalmente; ci potrebbe accompagnare da lui, dovunque esso sia?”
Quella non mollava l’osso al pari dei suoi degni consanguinei canini, pensò Tebaldo divertito suo malgrado. Forse doveva cambiare tattica, quell’essere rotondeggiante non veniva minimamente scalfito dai suoi modi aristocratici.
“Ne sarei lieto” sorrise quindi cavallerescamente “Ma avrei prima una partita a tennis.”
“Non c’è problema, la aspettiamo.”
“Potrei metterci delle ore, e non vorrei mai rubare tempo a una persona impegnata come lei; chissà quanti figli adottivi deve controllare oggi.”
“Figli?” si confuse la Giovinazzi mentre Serena sembrava sempre più muta e pallida al suo fianco.
“Beh, quasi, si” chiocciò Tebaldo con candore sfoderando un sorriso scintillante “Ho una proposta da farle, signora Giovanelli.”
“Giovinazzi, signore.”
“Come vuole. Si fida della sua collaboratrice?”
“Si, certo.” rispose la Giovinazzi insospettita, più che altro dal colorito cinereo di Serena.
“Allora potrebbe lasciare qui in ostaggio la sua giovane apprendista e finire il giro di visite da sola.”
Lei sola a casa di Tebaldo?, pensò Serena con autentico panico.
“No.” sfiatò ma Tebaldo finse bellamente di non sentirla.
“Poi quando avrò finito la mia partita a tennis mi preoccuperò personalmente di accompagnare la signorina a controllare lo stato di salute di Sancho, e poi a casa, da dove le riferirà tutto quanto necessita sul vostro diletto canide, pelo per pelo.”
“Non se ne parla nemmeno.” si ribellò Serena scrollandosi di dosso il gelo che l’aveva attanagliata.
Tebaldo inalberò una compunta faccia dispiaciuta.
“Io lo dicevo solo per ottimizzare i tempi. Capisco l’urgenza di controllare che il povero e soave Sancho non sia finito in un lager nazista, ma la signora Giovanardi avrà sicuramente mille impegni e noi due, essendo compagni di scuola, potremmo di sicuro passare qualche ora insieme senza destare le ire dei puritani...”
Le stava facendo fare la figura della demente, pensò Serena angosciata: era partita battagliera, convinta di farla pagare a quel bugiardo borioso e crudele… com’è che si stava rapidamente trovando dalla parte del torto?
“Veramente io… devo fare i compiti.”
“Sciocchezze” tagliò corto la Giovinazzi che nel tempo in cui Tebaldo tesseva la sua tela e Serena sprofondava nel guano aveva già tratto tutte le sue conclusioni “Aspetterai il signor Santandrea e ti farai accompagnare a controllare Sancho. Nel frattempo, io finirò il giro da sola.”
Serena pressò le labbra frustrata: non c’era nessun giro da finire, lei stessa ci aveva messo più di un’ora a convincere la direttrice della necessità di quel controllo. Evidentemente, la faccia da schiaffi di Tebaldo aveva confuso anche lei.
“Posso parlarti un momento?” grugnì prendendo la direttrice per un braccio e allontanandosi dall’altezzoso orecchio teso di Tebaldo.
“Che diavolo fai, Amaltea?”
“Che diavolo fai tu, ragazzina” chiocciò spiccia il donnino “Quel tizio è un figo da paura! Adesso capisco la necessità della messa in scena.”
“Che… che messa in scena?”
“Dai dai, ragazzina, ti sembro nata ieri? D’altronde condivido perfettamente, io stessa mi farei bruciare i palmi dei piedi su una bistecchiera pur di vederlo giocare a tennis, tutto sudato… brrr! E poi ti guarda con due occhi. Dai retta a me, se riesci chiudilo negli spogliatoi del circolo di tennis o nelle scuderie o nel primo cantone che trovi e approfitta di lui. Hai la mia benedizione.”
“Amaltea!”
Serena non sapeva se scoppiare a ridere o pensare a uno scherzo grottesco, ma la faccia di Amaltea sembrava terribilmente seria.
“Fidati ti dico, oggi hai diciotto anni e le tette sode come due manghi maturi, ma domani sarai in menopausa, i tuoi manghi sembreranno sacche ripiene di gelatina e uno figo così al massimo ti passerà vicino sull’autobus, peraltro senza degnarti di uno sguardo. Se riesci, saltagli addosso. Adesso. Subito!”
“Tu sei tutta sciroccata!”
“E tu dovresti smetterla di arrossire tutte le volte che ti guarda, lo smonterai di sicuro se continui così. Comunque, non è più affar mio: posso lasciarti qui tranquillamente, ci sono più domestici e telecamere che nel telefilm Dallas. E quel tizio sarà pure uno stronzo snob, ma è un galantuomo, non farà niente di socialmente deprecabile. Quindi, io vado. E tu la prossima volta trova una scusa migliore della salute del povero Sancho per poter vedere il suo fighissimo padrone.” 
“Questa conversazione assurda non è mai esistita” borbottò Serena sconfitta, più che altro per far smettere Amaltea di dire tante cose imbarazzanti “Non c’è stata nessuna messa in scena e ti ho già spiegato il perché di questo controllo! Quel borioso aristostronzo ha fatto anche a te il lavaggio del cervello? Se è così, quindi è inutile discutere. Visto che non mi dai alternative, aspetterò.”
Tornarono verso Tebaldo che sorrideva sornione come se avesse ascoltato tutto. Serena gli lanciò un lungo sguardo di sfida: poteva aver vinto una battaglia, ma non avrebbe vinto di sicuro la guerra! Come leggendole nel pensiero, il sorriso di lui si allargò affascinante, finché Serena non sentì caldo sul collo e il cuore in dolorosa accelerazione.
“Vedremo.” le dissero quelle iridi verdognole e la sicurezza di Serena vacillò pericolosamente.   
*          *          *
Ore 14:55, davanti a casa Bianchi. La Mercedes con autista parcheggiò silenziosamente mentre al suo interno Veronica Scarlini della Torre constatava irritata e sbigottita di stare sudando copiosamente, nonostante l’aria condizionata avesse reso l’abitacolo degno di una baita svizzera.
“Rilassati” le sussurrò Gladi nella testa (era dal giorno prima che quell’irritante presenza faceva capolino nei suoi pensieri quando meno se lo aspettava); comunque era un buon consiglio e Veronica lo seguì. Si era vestita sobriamente almeno secondo i suoi standard, unica concessione al lusso i sandali e la Martha Bag di Jimmy Choo. Si toccò i capelli rigorosamente non impalcati, prese i libri in mano e si decise a uscire dalla macchina.
“Torna tra un’ora.” ordinò all’autista e prima che le venisse a meno il coraggio salì i gradini e si appostò davanti al portone. Ma dov’era il campanello? Ce n’erano un centinaio, con variopinti cognomi appiccicati il più delle volte con lo scotch. Carletti, D’Ambrosio, Rossi, Zanella… Dunque, i Bianchi abitavano in un condominio? Dall’ampiezza della famiglia si sarebbe detto che quel palazzone scrostato fosse tutto per loro. Comunque Veronica non fece nemmeno in tempo a trovare il cognome nell’elenco che il portone si aprì, preceduto da un tragico ronzio.
“Permesso?” azzardò Veronica dopo aver atteso invano per due minuti che un portiere le spalancasse la porta.
“Scarlini?” tuonò una voce su per la tromba infinita delle scale.
“Bianchi?” rispose Veronica cercando di non far somigliare troppo la sua voce incerta a quella di Gladi.
“Su per le scale, terzo piano!”
Veronica obbedì, cercando però di evitare il corrimano così lercio e antico da contenere sicuramente sedimenti preistorici. Finse di ignorare le varie porte che si socchiudevano al suo passaggio, facendo intravedere curiose iridi che la radiografavano come se il reperto fosse lei: in effetti, nonostante la presunta sobrietà, il suo abbigliamento era ancora nettamente da copertina di Vogue. Arrivata al terzo piano, cominciò persino a sentire bisbigli sospetti.
“E’ qui, Paolo, è qui!”
“Stai calma, Lauretta, ti farai venire una sincope.”
“Ma è qui!!”
“Ragazze, spostatevi… Nemmeno stesse arrivando la sultana del Brunei… Dante, metti via quella palla! Nonna, dov’è Biagio?”
“Sul divano.”
“Tiralo via di lì! Silvi, hai buttato fuori Zigote?”
“Sì, ma quel bastardo è rientrato dalla finestra del bagno e adesso è infilato sotto qualche letto. Però ho tolto tutti i peli dalle poltrone, quindi direi che…”
“Paaaallaaaa!”
Tom!
“Dante, ti ho detto di mettere via quella palla o te la faccio mangiare!”
“Io faccio le frittelle.”
“Nonna, non ti ci mettere anche tu, vai in camera tua e inizia a farmi un paio di calzini a maglia, dai. Biagio, giù di lì ho detto! Merda, sta sbavando sul copridivano pulito!”
“Paaaallaaaa!”
Tom! Una palla rossa schizzò fuori dalla porta e Veronica la placcò di riflesso stringendola al petto. La palla fu seguita sul pianerottolo da Paolo Bianchi, decisamente affannato e con gli occhiali storti, da un ragazzone goffo e robusto con gli occhiali ancora più storti e da due ragazze che sembravano due cloni tanto erano identiche; mentre tutti si cristallizzavano sul posto uscì anche una vecchia signora, gobba e gracile come un uccellino.
Veronica sbatté appena le ciglia sentendo il cuore che le atterrava sotto i piedi (reazione più che normale visto che Paolo la stava guardando).
“Io faccio le frittelle.” sentenziò la vecchia cocciuta che era evidentemente cieca come una talpa visto che si rivolse allo stipite della porta invece che al nipote, ignorando l’illustre nuova ospite.
Mentre sui visi identici delle due sorelle si dipingeva la stessa espressione di estasi mistica, Paolo prese saldamente in mano la situazione con insolita presenza di spirito.
“Dentro tutti. Cia… cioè, buongiorno Scarlini?”
Però con lei parlava interrogativo, quindi era agitato. Poverino, che caro, pensò Veronica cercando di rimanere impassibile.
“Ciao Bianchi.”
“Entra pure?”
Il gruppetto sciamò all’interno dell’appartamento e Veronica si chiese con angoscia come avrebbero fatto a starci dentro insieme e se ci sarebbe stata abbastanza aria per tutti. Fiduciosa seguì i Bianchi in quello che doveva essere un salotto e che sembrava un magazzino in cui avessero appena tirato una bomba a mano; c’era un muro pieno di mensole a loro volta piene di libri, c’era un divano di uno sconcertante giallo pus su cui troneggiava uno sbavazzante quadrupede, c’era un tavolo con un centrino all’uncinetto sotto a una biscottiera di finto cristallo con dentro una pianta di ciclamini agonizzanti, c’era un quadro tridimensionale di Padre Pio appeso a una parete, di fianco al calendario di Frate Indovino… c’era insomma talmente tanto di quel ciarpame dozzinale da riempire pagine e pagine di inventari. Veronica li fissava affascinata, osservata a sua volta con estremo interesse da tutta la famiglia Bianchi (compresa la nonna guercia che probabilmente intuiva solo una nebulosa colorata).
“Ehm, bene…?” balbettò Paolo quando si accorse che il silenzio si stava protraendo troppo “Io comincerei anche subito la lezione ma le mie sorelle volevano prima conoscerti…”
“Laura!”
“Silvia!”
Cinguettarono in coro le due ragazze zompandole praticamente addosso con le mani entusiasticamente tese. Veronica strinse prima una e poi l’altra con estremo garbo.
“Veronica.”
“Si, lo sappiamo!”
“Per noi sei favolosa!”
“Hai un look fighissimo!”
“I tuoi capelli sono fighissimi!”
“Tu sei fighissima!”
“Ehm… grazie.” rispose Veronica arretrando leggermente: non era abituata all’assalto delle fan e in quell’ambiente ristretto si sentiva quasi claustrofobica.
“Ragazze” le rimproverò Paolo, stranamente senza punti di domanda “Fatela respirare. Lui invece è mio fratello Dante.”
Stavolta, tra lo sconcerto di tutti, Veronica tese al giovane la palla che stringeva ancor al petto.
“Piacere, Veronica.”
“Ciao” rispose Dante prendendo la palla e aggiustandosi gli occhiali spessissimi per guardarla meglio “Tu sei tanto bellissima.”
Lo disse con una tale sincera naturalezza che Veronica non poté fare a meno di sorridere: nel vedere il sorriso Paolo la fissò come se le fosse spuntato un fungo velenoso sotto la narice.
“Grazie” rispose Veronica ignorando la reazione di Paolo “Sei molto gentile. Merito del trucco e dei vestiti, però.”
Dante annuì e si girò verso Paolo con evidente rimprovero.
“Tu avevi detto che era una strega” lo accusò imbronciato “Ma non ha il nasone.”
“Ehm, Dante…?” tentò Paolo arrossendo furiosamente e Veronica inarcò un sopracciglio nella sua direzione.
“E non puzza” continuò Dante deciso “Tu avevi detto che puzzava, e invece profuma.”
“Davvero?” domandò Veronica glaciale.
Silvia e Laura magicamente sparirono, evidentemente certe che la strega in questione stesse per trasformare tutti i presenti in rospi gracidanti.
“Io faccio le frittelle.” sentenziò la nonna approfittando del momento di distrazione del nipote per mettere in atto il suo piano culinario e ciabattò via curva e claudicante. Rimasero Paolo, che aveva assunto un delicato color ciliegia e sembrava voler sprofondare al centro della terra, Dante, Veronica e il cane Biagio che continuava a sbavare con costante regolarità senza degnare di attenzione gli umani presenti.
“Andiamo a studiare?” strillò Paolo marciando rapidissimo verso quella che doveva essere la sua stanza, tallonato da Dante e da Veronica.
“Pà… perché hai detto che la strega puzzava? E che era una… srob ergonista?”
“I-io non ho detto che puzzava?” tentò Paolo con affanno, completamente nel pallone.
“Forse ti avrà detto che ho la puzza sotto il naso.” suggerì Veronica incrociando le braccia sul petto.
“Sì, ha detto così! Ma però non è vero che puzzi. E’ lui che puzza.”
Indicò Paolo.
“Sante parole, Dante.” approvò Veronica gravemente.
“Io, scu… ehm, mi disp… ehm, è meglio se cominciamo a studiare?”
“Sei un brutto bugiardo, Pà” continuò imperterrito Dante imbronciato “Dillo che sei un bugiardo!”
“Sono un bugiardo. Ora però…”
“E che la strega non puzza ma è tanto bellissima.”
Le guance di Paolo raggiunsero la temperatura della superficie solare: Veronica ne sarebbe stata incantata se non fosse stata sul punto di scoppiare a ridere. O a piangere, chissà.
“V-Veronica…è… tanto bellissima…”
“E non puzza.”
“E non puzza. O-ora io e V-Veronica dobbiamo studiare, ricordi? Mi hai promesso che ci lasci la camera per il tempo necessario…”
“… e dopo mi compri il gelato!” ricordò Dante illuminandosi.
Soddisfatto trottò via a giocare con la palla e Paolo si chiuse la porta alle spalle lentamente, praticamente svuotato e con lo sguardo fisso a terra. Nonostante tutto, Veronica ebbe quasi pietà di lui.
“Così puzzo, eh?” buttò lì con un incredibile batticuore che fortunatamente non trapelò dalla voce.
Paolo, coraggiosamente, le si mise di fronte a testa bassa.
“Mi dispiace. Sono davvero costernato.”
“Però non smentisci.”
Lui azzardò un rapido sguardo per vedere se il miracolo era reale e in effetti sì, Veronica non sembrava per niente offesa.
“Tu… non sei arrabbiata?”
“Ma no. In fondo hai solo detto che sono una strega snob egoista con la puzza sotto il naso, cosa peraltro quasi vera. Se avessi detto che ero malvestita, allora…”
Ammiccò, incerta sulla sua prima battuta di spirito all’eterna vittima della sua spocchia. Ma Paolo era ancora troppo sotto shock per sorridere.
“I-io… mi dispiace davvero, però.”
“Bugiardo. Sarà un secolo che mi dai della strega alle spalle. Ma va bene così, io non ti do del mollusco, sgorbio e scherzo della natura?”
Paolo, sorpreso, sembrò pensarci su.
“Effettivamente…”
“Quindi siamo pari. Ok?”
“Ok. Ma ti prometto che cercherò di contenere le uscite a pera di mio fratello; non è professionale e tu stai pagando per avere lezioni di matematica e fisica, non per farti insultare.”
In effetti, Veronica stava pagando fior di quattrini, per essere lì in quel buco claustrofobico zeppo di chincaglieria dozzinale in compagnia di soggetti sconcertanti, umani e animali. Con Paolo Bianchi, finalmente. Soli. Praticamente impalati al centro della stanza, lei aggrappata alla sua Martha Bag, lui con le mani in tasca e la rigidità di un blocco di travertino. Si guardarono con sospetto.
Lui era il solito Paolo Bianchi di sempre, maglione di cotone slabbrato dal colore indefinibile e jeans dozzinali, capelli arruffati, occhiali sbilenchi… scarpa destra slacciata, anche quello un classico irrinunciabile.
E lei era la solita Grimilde, pensò Paolo fuggevolmente: quasi.
Quasi perché i capelli sembravano normali e non una parrucca congelata; quasi perché, borsa miliardaria a parte, era vestita da essere umano e non da manichino haute couture; quasi perché il suo viso… il suo viso… il suo viso per la prima volta da quando la conosceva sembrava espressivo. E vicino. Molto bellissimo, avrebbe detto Dante azzeccandoci in pieno.
“Allora, cominciamo?” domandò bruscamente distogliendo lo sguardo e Veronica sobbalzò.
“Va bene, cominciamo.”
*          *          *
Tempo dieci secondi e la Giovinazzi era sparita quasi rotolando giù dall’elegante scalone d’ingresso di villa Santandrea: Serena rimase radicata sulla soglia, e anche se indossava i jeans e una dignitosa camicia, si sentiva come se avesse avuto addosso il grembiulone “Salsicce & Co.” e gli stivaloni di gomma. Per niente preoccupato, Tebaldo se ne stava appoggiato allo stipite facendo dondolare con indolenza la racchetta e studiandola con i verdognoli occhi socchiusi.
“Beh?” disse alla fine Serena, incapace di sostenere oltre il suo sguardo “Cominci o no quella partita? Devo davvero andare a studiare, io.”
“Non so perché, ma scommetterei la mia racchetta che questa faccenda dei controlli ai cani adottati non è poi così frequente come avete voluto farmi credere.”
“E invece lo è” rispose Serena con ammirevole muso duro “Allora, ti decidi a muoverti? Ti aspetterò qui.”
Tebaldo, per tutta risposta, le prese il gomito con gentile delicatezza: Serena si sentì letteralmente trascinata dentro suo malgrado.
“Credo che alla fine non la farò quella partita” annunciò lui candidamente con la sicurezza di chi sta sempre dalla parte della ragione “Oggi il tempo è troppo incerto per il tennis.”
“E l’hai deciso adesso?” borbottò Serena palesemente innervosita.
“Certo. Ti dà fastidio?”
“Si.” rispose Serena in un insolito attacco si sincerità.
“Me ne dispiaccio enormemente” sorrise Tebaldo palesemente soddisfatto “Avrei dovuto mandarti il mio programma settimanale dettagliato, ma davvero non ne ho avuto il tempo. Vuoi qualcosa da bere?”
Si avviò verso il salotto tranquillo come una pasqua e Serena non poté far altro che seguirlo.
“No, io… voglio andare da Sancho e chiudere qui la faccenda.”
Tebaldo si versò un bicchiere di spremuta che troneggiava fresca e cristallina su un prezioso tavolo settecentesco.
“Sembri arrabbiata” commentò con gli occhi scintillanti di scherno “Ce l’hai con me per qualche motivo?”
“No, io… beh, un po’ si, ce l’ho con te.”
Al diavolo, pensò Serena in un moto di ribellione: perché doveva fingersi educata con quell’enorme pallone aerostatico di puro ego allo stato gassoso?
“Davvero” sospirò Tebaldo ammiccando “E che cosa ho fatto per perdere la tua simpatia?”
Le allungò il bicchiere di spremuta e Serena lo prese di riflesso, maledicendosi subito dopo.
“Io, ecco… grazie. Per la spremuta, eh.”
“Certo. Non mi permetterei mai di confondere il motivo del ringraziamento con qualsiasi altro. Allora, come mai non ti piaccio più?”
Serena arrossì così velocemente che il suo viso sembrò aver preso fuoco.
“Com… ehm, cosa? Io non ho detto che… cioè, non è che tu mi piacessi anche prima… cioè…”
“Un altro dei discorsi sconclusionati a cui sei avvezza? Hai però dimenticato gli svariati merda e cazzo con cui hai farcito il discorso l’ultima volta, ma forse quello era dovuto all’effetto serra della Furia Miasmatica.”
Serena posò con forza il bicchiere sul tavolino, e strinse i pugni fino a farsi male.
“Non volevo essere scortese, ma in fondo non vedo perché mi devo sforzare così tanto, visto che tu non lo fai. Non mi piacevi prima e ancora meno mi piaci adesso che so che maltratti gli animali.”
“Io maltratto cosa?” si stupì Tebaldo con una tale convincente faccia di bronzo che Serena si fece venire mille dubbi e arrossì ancora di più.
“Tu… gli animali.. quando ti annoi butti via tutto… insomma, dov’è Sancho?”
Tebaldo sembrò riflettere molto e lo fece piazzandole addosso il suo sguardo destabilizzante finché non fu piena di brividi e sudori freddi.
“Farei prima a dirtelo, ma non mi crederesti” rispose infine con lenta arroganza “Quindi adesso ti porto da lui e capirai perché ho dovuto rinunciare alla sua meravigliosa e mefitica presenza.”
Si incamminò e Serena lo seguì di nuovo riottosa: stava per valutare se lasciare sassolini bianchi per ritrovare la via del ritorno o vedere se magari c’erano dei cartelli quando davanti a lei, tranquillo come un bradipo, Tebaldo si sfilò la maglietta Lacoste, scoprendo una schiena abbronzata dagli snelli muscoli delineati.
“Che cazzo fai?!” strillò Serena inchiodando sul posto.
Tebaldo si girò a guardarla pieno di altera impazienza.
“Mi sto cambiando” rispose con la lentezza di chi spiega qualcosa di poco ovvio a un bambino “Vedi, sono davanti alla mia camera da letto, e qui di fianco c’è il mio guardaroba. Voleva cambiare la tenuta da tennis e mettermi abiti quotidiani, ma se la cosa ti disturba tanto desisterò sicuramente dal mio intento.”
Serena era rimasta senza fiato e non sapeva dove guardare.
“Caz… ehm, insomma, perché mi hai fatto venire fin qui se dovevi svestirti?”
“Io mica ti ho detto niente” rispose Tebaldo spalancando gli occhi innocentemente (e rimanendo a torso nudo, scandalosamente bello e impudico, con una tranquillità davvero snervante) “Sei tu che mi hai seguito. Non volevo essere scortese nel rimandarti indietro. E poi, francamente a me non dispiace essere guardato mentre mi cambio.”
“A me si. Dispiace, intendo dire. G-guardare, eh. A-anche essere guardata.”
“Capisco. Quindi sarebbe inutile chiederti di aiutarmi con i ganci del corsetto.”
Accennò all’interno della stanza: un locale ampio, luminoso, con un grande letto di foggia vagamente orientale, una chaise longue di preziosa pelle, un folto e invitante tappeto e fotografie in bianco e nero alle pareti. Un locale intimo e di lusso, chiaramente maschile; elegante, intrigante. “La stanza dove dorme Tebaldo” sussurrò una vocina dritta nell’orecchio di Serena “Dove lui gira mezzo nudo, magari appena uscito dalla doccia, coi capelli umidi e le goccioline d’acqua sulle spalle…”
“Ti aspetto di là!” strillò Serena scattando a correre lungo il corridoio veloce come una lepre. La seguì la risatina di scherno di Tebaldo, così umiliante che per poco non le si appannarono gli occhi. Dopo aver sbagliato un paio di corridoi, ritornò nella stanza della spremuta. Il suo bicchiere era ancora lì: Serena lo agguantò e lo bevve d’un fiato. Quando arrivò Tebaldo, in camicia bianca e pantaloni casual, aveva quasi recuperato la calma. Di sicuro avrebbe tenuto la guardia altissima: si ripeteva che non sarebbe mai e poi mai e poi mai più successo che Tebaldo la cogliesse in così flagrante imbarazzo. Ok, aveva vinto anche questa battaglia… due in un’ora , va bene... ma la guerra era ancora aperta!
“Andiamo?” le domandò Tebaldo con fredda cortesia.
Serena lo seguì: salirono in macchina in silenzio, Tebaldo mormorò qualcosa all’autista e benché Serena avesse una bellicosa e altissima guardia, non la degnò di uno sguardo durante tutto il tragitto. Arrivarono in un’altra villa, anche quella imponente ed elegante, anche quella con una domestica sudamericana rotondetta e con il grembiule bordato di pizzo. Vennero dirottati in giardino, un tripudio di verde e rose così belle da sembrare finte; distratta dalle rose, quasi sbatté contro Tebaldo che si era improvvisamente fermato davanti a una rete nuova di zecca che delimitava un ampio e riparato angolo di giardino.
“Eccoci qua” disse Tebaldo con voce soddisfatta: sentendo la sua voce, Byron e Sancho uscirono dal una principesca cuccia formato famiglia e vennero abbaiando e scodinzolando contro la rete.
“Due cani!” esclamò Serena chinandosi per infilare le dita dentro la rete, in modo che Byron e Sancho potessero allegramente annusarla “Sono due maschi. Ma vanno d’accordo?”
“D’accordissimo” approvò Tebaldo con un sorriso “Come Elton John e David Furnish. Stanno anche già pensando di adottare un piccolo cucciolo di Siberian Husky.”
“Come chi?” chiese Serena disorientata.
“Elton e David… vediamo, qualcosa più alla tua portata… Achille e Patroclo? Batman e Robin?”
Lo sguardo smarrito di Serena lo fece sospirare deluso.
 “Lasciamo perdere. Sono ottimi amici, così va bene? Ottimi e inseparabili amici, e benché mi sia stato difficilissimo separarmi dalla mia diletta Furia Miasmatica, ho preferito lasciare che vivesse qui, in questo giardino chilometrico, felice e vezzeggiato come mai in vita sua. Alla luce di questi fatti, pensi che la dolce Giovanezzi vorrà ancora la mia testa su un vassoio o potrò beneficiare dell’indulto?”
Serena, ancora accucciata, gli lanciò uno sguardo limpido, da sotto in su.
“Allora, non l’hai buttato via?” chiese quasi speranzosa.
“Chi avrebbe buttato via cosa?”
“Tu. Sancho.”
“E perché avrei dovuto farlo?”
“Perché tu butti via tutto quello che ti annoia.”
L’aveva ammesso con tanto candore che a Tebaldo sfuggì un sorriso.
“Chissà perché, questa mi sembra farina del sacco di Grimilde.”
Serena non smentì: rimase in silenzio con i grandi occhi castani sollevati su di lui come in una muta domanda, e Tebaldo pensò di nuovo che erano quasi fastidiosi nella loro pulita intensità.
“Beh, se lo dice la mia cara cugina Grimilde allora sarà vero” buttò lì bruscamente “In fondo è universalmente risaputo che sono uno stronzo egoista e insensibile.”
Serena si alzò in piedi lentamente, regalandosi un’innocua vicinanza con la sua figura alta e patrizia.
“Lo sei?”
“Certo che lo sono: mi chiamo Tebaldo Santandrea della Torre. Per me conta solo quello che non conta niente. Tutto lo sanno, dovresti saperlo anche tu.”
Aveva di nuovo gli occhi verdi e rabbiosi, molto poco aristocratici: lei rimase in silenzio a guardarlo incantata con tutta l’anima negli occhi. Tebaldo allora fece un passo verso di lei e il suo odore costoso e arrogante la avvolse: l’innocua vicinanza divenne pericolosa, densa e rovente come lava.
“Dovresti smetterla di guardarmi così” mormorò Tebaldo a fior di labbra, con quella dannata voce bassa e irresistibile “Quegli occhioni a calamita non ti porteranno niente di buono. Sei tutta esposta lì, quello che senti e quello che non vorresti sentire… Si legge chiaro come il sole cos’è che vuoi. Ma sarò buono e ti darò un consiglio, il primo e l’ultimo della serie quindi fanne tesoro: stammi lontano. Me li mangio a colazione gli agnellini come te.”
Il cuore di Serena era così alto e ben incastrato in gola che non poté nemmeno respirare.
“Io non sono un agnellino.” belò smentendosi clamorosamente.
“Sì, certo. E io mi vesto da H&M.”
Tebaldo fece un passo indietro con un’espressione palesemente scettica sul viso prima di tornare freddo e ironicamente sprezzante come suo solito.
“Allora, soddisfatta della sistemazione del povero e sfortunato Sancho? Lo trovi sufficientemente in buona salute?”
“Si” mormorò Serena abbassando di colpo gli occhi, come liberatasi improvvisamente da una stratta catena “Lui… io… riferirò. Grazie di tutto. Scusa il disturbo.”
Si girò e incespicò via, senza nemmeno salutare Sancho che le abbaiò dietro tutto il suo uoffesco rimpianto.
 

  
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