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Autore: tersicore150187    08/06/2011    15 recensioni
In un ipotetico sequel della terza serie, è ambientata una storia di profondo amore e di scoperta sentimenti autentici. Per una volta non ci sono cadaveri a fare da sfondo, ma corpi vivi che sentono, tremano, amano.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cap 5. E io allora mi volsi a te, orgogliosa stella della sera.
 
La sera era scesa placida su New York, ornando di goccioline le superfici che fino a poche ore prima avevano goduto del sole di quella splendida giornata estiva. Come in tutte le fiabe che si rispettino, al canto degli uccellini del mattino si era avvicendato un cielo trapunto di stelle e tutto intorno l’aria era fresca e profumava di fiori. Il giardino della villa sembrava un paradiso illuminato da quelle lampade chiare e dalle candele. Castle si domandò perché mai i due amici avevano scelto la cerimonia di giorno. Lui amava la sera, la notte. Gli piaceva il modo in cui l’oscurità cullava le figure rendendole in parte misteriose, in parte vellutate sotto il tocco dei raggi di luna. Il fresco dell’aria contrastava con il calore e l’euforia che gli scorreva nelle vene per la festa, per il vino, per lei. Se ne stavano in silenzio all’ingresso, lui fermo al suo fianco non potendo fare a meno di fissarla, lei intenta a coprirsi le spalle con una stola e a sistemarsi i capelli che, durante la giornata avevano preso un po’ varie forme. Castle sentì la sua mano muoversi verso il viso di Kate e la sua bocca aprirsi e sperò per un istante che il suo corpo ribelle bloccasse quella rivoluzione che il suo cuore aveva messo in atto contro il cervello. Bloccò la mano non appena ci riuscì e in cambio ottenne uno sguardo di lei, profondo, come se i suoi occhi si fossero in un istante tramutati nelle ali di una farfalla, nei petali di una viola o nelle piume di un pavone. Lui voltò la testa e abbassò lo sguardo sempre più triste, sentendosi scoperto, assecondando quel brandy che gli si spandeva dentro e contando i minuti che lo separavano dall’arrivo a casa. Kate fu colpita da quel gesto e gli bloccò la mano con la sua. Esattamente come quella mattina all’ingresso della chiesa, i loro occhi parlarono da soli. “Posso?” le chiese lui con tutta la paura che aveva di sentirsi rispondere di no. Lei annuì leggermente abbassando la testa con un lieve imbarazzo, pur non avendo affatto idea di cosa lui volesse fare con quella mano così pericolosamente vicina. Castle sorrise debolmente, poi appoggiò la mano sulla sua nuca e risalì infilando le dita fra i capelli di Kate. Dovette trattenersi dallo stringere quei capelli nel suo pugno e spingere il suo viso contro di lei. Sentì nel suo cuore una infinita tenerezza per quel gesto e si lasciò guidare. Aiutandosi con l’altra mano trovò i piccoli agganci e li liberò piano, sfiorando con la punta delle dita la testa di lei, il bordo del suo orecchio, la rima della fronte, il collo. Con dei piccoli movimenti riuscì a liberare completamente la chioma che in quei mesi aveva continuato a crescere e, pensò lui, ora la rendeva così diversa dal giorno in cui si erano conosciuti. Le accompagnò i capelli lentamente sulla spalla, lasciando solo sul lato quel fiore che faceva il paio con quello al suo occhiello. Le mostrò la mano aperta con le forcine nel palmo. “È molto meglio così”. Le sue parole sembravano dissipare il buio delle paure di Kate, sembravano dirle che non aveva bisogno di attorcigliarsi i capelli per essere incantevole, per sentirsi adeguata.
Gli chiese “Come hai fatto?”. Lui capì che lei non si riferiva ai capelli. Si riferiva alla sua vita, a quanto era cambiata, sconvolta, diversa. Migliore. Decisamente. Perché entrambi sapevano che emozioni così pure non erano mai esistite nella vita di Kate Beckett prima del loro incontro, perché quel poco di puro che c’era in lei a 19 anni, la madre se lo era sepolto con sé nella tomba. Lo capì e avrebbe voluto semplicemente risponderle che non aveva fatto nulla. Che si era semplicemente ritrovato ad amarla giorno per giorno, così come, quando era nato, si era trovato a respirare l’aria e non più a ciucciare liquido amniotico nella pancia della mamma. Era accaduto naturalmente perché doveva accadere. Era giusto, era bello e, soprattutto, lui non poteva farne a meno.
Le sorrise e le disse semplicemente “Alexis. I suoi capelli sono passati nelle mie mani in ogni forma”. Un’altra cosa da scoprire di lui. Un altro dettaglio che le mancava di quel puzzle. Un’altra piccola sorpresa della vita.
 
Rick si voltò verso l’ingresso della villa. “Mi aspetti qui un attimo? Faccio chiamare un taxi”. “Castle ti..andrebbe di fare due passi?” gli rispose lei con un attimo di esitazione. “Certo”. Lui si sforzo di non farsi aspettative, di non nutrire le speranze che nel suo cuore stavano a bocca aperta disperandosi affamate come demoni. Si sforzò di credere che lei aveva solo voglia di camminare, di godersi quell’aria limpida e tersa e che forse, l’idea di stare seduta vicina a lui, in silenzio, sul sedile posteriore di un taxi non la allettava. Ogni tanto si sorprendeva a fare pensieri pessimistici. Si disse che era un buon modo per proteggersi, per non farsi ferire dai duri colpi che la detective era solita infliggerli nell’ultimo periodo.
“Sono stata molto male, sai”.
La sua voce era debole, incerta, vera. Lui si voltò a guardarla senza dire niente, mentre lei cercava nell’incedere cadenzato dei loro passi sui ciottoli del viale, un ritmo rassicurante che la aiutasse ad aprire il suo cuore.
“Dopo che te ne sei andato intendo”. Kate tentò di usare il tono più dolce che aveva. Se c’era qualcuno a cui addossare le colpe di aver mollato non era certamente lui, ma solo se stessa.
“Kate io non me ne sono andato di mia volontà”. La sua voce era un sussurro, ma era sicura. Lui non poteva non difendere lo strazio che era stato “doversi” allontanare da lei.
“Lo so”.
Lei riprese fiato e corrugò la fronte come se stesse cercando la concentrazione per trovare le parole da dire, mentre davanti a loro si apriva il lungo viale che portava fuori dalla villa.
Castle si portò una mano al collo e sentì qualcosa che gli serrava la gola, ma si sforzò di continuare ad ascoltarla. Quel momento era troppo importante. Era da troppo tempo che lui lo aspettava. Si appoggiò al parapetto col fianco, guardò un attimo la città che si stagliava in lontananza e poi tornò a rivolgersi a lei, in attesa.
“Ho solo cercato di fare la cosa più giusta. Per entrambi”.
Lui rise amaramente. Poi senza neanche guardarla negli occhi disse quello che non poteva più trattenere “Sono così arrabbiato con te Kate, così furioso…che tu faccia del male a me lo sopporto, l’ho fatto, lo farò ancora. Ma tu stai ferendo a morte una delle persone a cui tengo di più al mondo, te stessa. E questo io proprio non lo posso accettare”.
Kate sentì un forte dolore al centro dello stomaco e provò a far uscire dalla sua bocca parole che non nacquero mai. Avrebbe voluto piangere, urlare, lasciar andare tutta quella frustrazione che sentiva, invece era paralizzata e tutto quello che riusciva a provare era il forte dolore che dall’addome le si irradiava al petto, al collo e su verso la testa. Si appoggiò una mano alla fronte con un’espressione sofferente e si chiese il perché. Perché quella frase che lui le aveva detto le sembrava ora così sensata, perché improvvisamente, dopo mesi di lotte con se stessa per tenerlo lontano, ora stargli vicino le sembrava l’unica cosa possibile da fare, l’unica. Perché, se lo amava così disperatamente, di quell’amore che, certamente non poteva essere un’errore, si ostinava a ferirlo e a continuare a ferire anche se stessa. Improvvisamente sentì la mano di lui che le stringeva il polso. “Parlami Kate, aiutami a capire. Non posso fare tutto sempre io, io ti ho cercata per tutto questo tempo, io ti ho parlato oggi in chiesa, io sono corso da te mentre piangevi stamattina, io ti ho fatto ballare stretta al mio cuore. Ora basta. È un’agonia che è destinata a non finire mai con te. Io voglio solo che tu sia felice…ma per quanto mi sforzi di leggere il tuo pensiero e per quanto ci riesca benissimo, in realtà non voglio e non posso fare tutto da solo. Lo capisci questo?”.
“Io…” Kate annaspava cercando il coraggio, ma si sentiva in un vicolo cieco. La sua vicinanza la stordiva, le toglieva lucidità e ogni parola che le veniva in mente le sembrava senza senso.
Lui la guardò e lesse nei suoi occhi che non era pronta. Non voleva forzarla, in fondo, una parte di sé, sentiva di averla già persa per sempre. Non aveva ragione di tenerla ancora stretta per la sua piccola ala spezzata. Doveva lasciarla cadere da sola. Doveva lasciare che imparasse a rialzarsi. Da sola. La guardò e, cercando di spazzare via tutto il male che c’era stato e c’era ancora fra di loro, le disse “Vieni, andiamo a casa”. Camminarono in silenzio fino all’imbocco della strada dove si fermarono in attesa del primo taxi libero.
 
Castle diede l’indirizzo di casa della detective al tassista e si abbandonò sullo schienale del sedile ad occhi chiusi. Lei guardava fuori dal finestrino le luci della città scorrerle davanti agli occhi e ripensava ai momenti trascorsi insieme allo scrittore, dal giorno in cui si era andato a prelevarlo alla sua festa privata, a quel maledetto pomeriggio di pochi mesi prima. “Ecco cosa si prova quando si sta per morire allora”, pensò lei. In un certo senso una parte di lei stava davvero morendo, la parte che lui aveva fatto vivere. Chilometro dopo chilometro si fece strada in Kate l’idea che il cuore di quella parte di se stessa stava lentamente cessando di battere e lei, come il miglior medico del mondo, lottava contro il male per cercare di tenerla in vita. Si voltò e vide in lontananza il suo palazzo e capì che, entro pochi minuti defibbrillare non sarebbe più servito a niente. Il suo cervello ordinò a suo braccio di muoversi e la sua mano prese quella di Castle seduto accanto a lei e la strinse forte. Uno, due, tre. Libera.
 
Il volto di Castle era poco diverso da quello di un adolescente imbarazzato alle prime armi. Gli occhi sgranati, i capelli arruffati sulla fronte, il colletto della camicia sbottonato e la cravatta larga per dare aria alla sua gola che implorava respiro. Dopo che i suoi occhi riuscirono a staccarsi da quelli languidi e ornati di rimmel della detective, si puntarono sull’uomo seduto alla guida. “Scenda la prego.” “Cosa?” rispose il tale con un evidente accento straniero. “Non so se ne è a conoscenza ma in genere a fine corsa sono i clienti a scendere e non il tassista!”. Castle frugò nervosamente nelle tasche senza staccare la sua mano da quella della donna e ne tirò fuori una banconota. “Vada a prendersi un bel panino. Gliene darò il doppio quando torna, oltre a pagarle la corsa, si intende.” “Ma…” l’uomo guardava il passeggero stupito ma fu attirato da qualcosa che luccicava “Polizia di New York, vuole farmi la cortesia di scendere dal suo taxi, o preferisce che chiami una pattuglia di rinforzi? Devo perquisire l’interno del mezzo”. Castle più stupito che mai sussurrò guardando il distintivo “Beckett ma questo non è abuso di…” “Sh!” gli intimò lei interrompendolo, mentre l’uomo scendeva velocemente dal mezzo con la banconota in mano e si dirigeva verso un chiosco sul lato opposto della strada.
Castle tentennò un istante guardando la donna che aveva riposto il distintivo e ora teneva lo sguardo basso sulle mani. “Mi sembrava importante che fossimo soli…io…” le disse.
“Hai ragione Castle”, lo interruppe lei. “Hai ragione su tutto”. Alzò lo sguardo verso di lui. “Quando cinque mesi fa sei venuto nel mio appartamento ho capito subito che volevi starmi vicino. Ma ho capito anche subito che non sarebbe stato come mi aspettavo io, che non sarebbe rimasto tutto esattamente come era, non ci sarebbero stati più solo i caffè la mattina, le telefonate, le missioni sotto copertura e le nostre parole piene di significati mai detti. Ho capito che tu eri pronto per andare avanti, per prenderti cura di me sul serio, come non avevi mai fatto prima. E non c’erano più ostacoli. Non c’erano altre persone in mezzo, né omicidi irrisolti che pendevano sulle nostre teste, insomma…non avevo più nulla dietro cui nascondermi. E mi è bastato pochissimo per capirlo, il tuo sguardo, quei fiori, così diversi da quelli che altre volte mi avevi regalato, il modo in cui mi parlavi…io…” distolse lo sguardo, ancora vittima di quella paura che non aveva il coraggio di ammettere. Ma lui glielo impedì. Con un tocco della mano, leggerissimo, la invitò a continuare a guardarlo negli occhi, le fece capire che non aveva nulla di cui vergognarsi, niente da temere.
“Io ero terrorizzata. Avevo paura di non essere alla tua altezza, di non riuscire a starti vicino come tu volevi e permettere a te di entrare nel mio mondo come desideravi. E poi, avevo paura di perderti. Perché ho capito che non ti saresti tirato indietro, che mi avresti seguita in ogni mio passo, che avresti curato le mie ferite, come questa…” lei gli appoggiò il dito sulla sottilissima striatura bianca all’interno del suo polso “…e come questa” gli sollevò la mano e se la appoggiò sul cuore. La sua voce era flebile, ma sembrava trovare forza in ogni parola. Lui non disse niente. Sapeva che quello era un buon momento per ascoltarla in silenzio. “Così ho pensato di allontanarti, dicendomi che era la cosa più giusta per me e per te. Credevo che in poco tempo te ne saresti fatto una ragione…lo speravo almeno…per te, perché volevo sapere che eri di nuovo felice”. Quello era un buon momento per parlare “Kate io…”
“No aspetta…”
“No, ti prego è importante. Tu lo sai che io temo la tua paura, perché so che è l’arma più potente che tu puoi usare contro di me, anzi contro di noi, perché è l’unico sentimento che mi impedisce di starti vicino...che…paralizza anche me, perché mi fa temere di ferirti, di forzare il tuo cuore e…Dio solo sa se non è l’ultima cosa che voglio al mondo…ma, farmene una ragione? Dimenticarti?” le accarezzò una guancia e si avvicinò a lei “Kate, per me è diventato impossibile anche solo non pensarti…”. “Rick io…non posso prometterti nulla, sarebbe come scommettere di vincere la maratona stando su una sedia a rotelle. Io non ho niente. Non ho soldi, non ho una famiglia, non ho una bella vita, al momento non lavoro nemmeno…e quando lavoravo non avevo neanche la certezza di tornare a casa viva la sera. Non ho più un corpo. A volte mi stupisco di pensare a me stessa come ad un semplice involucro, un insieme di arti e organi sui quali non ho controllo. Non ho una mente. I miei pensieri negli ultimi periodi sono…sono un vero caos…non ho certezze, nessuna”. “Ma hai sempre il tuo cuore Kate. E quello è la tua forza”. Lei gli sorrise. “Oh sì Rick, quello c’è e credimi…non avrei mai immaginato che mi desse tanto da fare…”.
Lei gli poggiò un braccio sul petto e avvicinò la sua testa che fu accolta sul torace di Castle, tra le sue braccia. Poteva sentire il suo respiro calmo sui capelli, il suo profumo. Poteva sentire quanto era bello sprofondare in quell’abbraccio, quanto era facile. Il suo corpo, fino a pochi minuti fa un estraneo per lei, iniziò a risvegliarsi fra le sue mani che lo accarezzavano percorrendolo come il sentiero che porta alla felicità. “Proviamoci Kate. Ti chiedo solo questo. Senza fretta, senza più dolore, con tutte le nostre paure, i nostri sbagli, il nostro essere imperfetti”.
Lei lo guardò negli occhi, sollevandosi dalla sua stretta. Poi disse “Proviamoci”.
Scese dal taxi e fece il giro. Lui lasciò una banconota sul sedile e scese fermandosi sul marciapiede a fianco alla portiera ancora aperta, guardandola camminare verso il portone.
Mentre si voltava i suoi capelli brillarono nella luce della notte.
“Non vieni?”
Lui corse verso di lei come un ragazzino innamorato con il cuore nel petto che gli batteva forte, forte, forte.


Angolo dell'autrice:

Carissimi,
spero che questo capitolo vi restituisca un po' di speranza e di fiducia.

Il titolo è tratto dalla poesia "La stella della sera" di Edgar Allan Poe.
Un omaggio al nostro amato scrittore da strapazzo Richard Castle.

Vi abbraccio.

Tersicore150187

  
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