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Autore: 365feelings    08/06/2011    1 recensioni
È iniziato per caso.
Lei era lì e io, io pure.
Sono state le circostanze. Non l’amore, non l’affetto, non la compassione.
Solo le circostanze.
[Quarta classificata al Contest Enjoy the pein, pureblood indetto da mafra e somuchu]
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Narcissa Malfoy, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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-Nick: KumaCla
-Titolo: La verità uccide
-Personaggi principali: Regulus Black, Narcissa Black
-Pacchetto: La verità uccide

-Elementi scelti: Proibito, Abbandono
-Genere: Malinconico, Romantico
-Personaggi secondari: Sirius Black
-Rating: Verde
-Avvertimenti: OneShot, What If?

-NdA: Non lo dico esplicitamente, ma in questa storia Narcissa è di qualche anno più grande: cambiamento voluto dalla trama, per far coincidere la sua permanenza a Hogwarts a quella di Regulus. Temo di aver reso il cugino terribilmente OOC, ma io ho questa immagine di Regulus: sempre sullo sfondo, copia sbiadita di Sirius, mai in primo piano a prendere decisioni. Per questo credo sia stato un personaggio silenzioso, riflessivo, che - in un certo senso - seguiva la corrente. Nella parte finali le ripetizioni sono volute: Regulus sta morendo e suoi ragionamenti sono sconclusionati, sono più che altro deliri e rimpianti.

 

È iniziato per caso.
Lei era lì e io, io pure.
Sono state le circostanze. Non l’amore, non l’affetto, non la compassione.
Solo le circostanze.

 

La verità uccide

 

 

Ci conoscevamo da sempre; eravamo cugini, io e lei.
Quando per la prima volta ci avevano presentati Narcissa era ancora troppo piccola per rendersene conto, a casa avevo le foto. Mia madre ci teneva ad averci tutti sulla credenza in salotto.
Il primo incontro di cui anche lei ha memoria era avvenuto quando avevo sette anni.
« Ti ricordi di loro Regulus? Sono le tue cugine. Bellatrix, Andromeda e Narcissa.»
Non potevano essere una più diversa dall’altra, non solo per aspetto fisico ma anche per carattere. Pure un bambino se ne rendeva conto.
L’ambiziosa, il pesce fuor d’acqua e la vanitosa.

 
Avevo bisogno della Stanza delle Necessità per riflettere; non era la prima volta che capitava. Mi serviva un posto tranquillo, non importava come fosse arredato, doveva solo essere tranquillo e appartato.
Di certo quel giorno non mi aspettavo di trovarvi dentro una persona, mia cugina per giunta.
Se ne stava rannicchiata su se stessa in un angolo della stanza: era seduta sulla pietra marrone del pavimento, leggermente ingobbita, con i libri di scuola sparsi accanto a lei.
E singhiozzava.
Non era un pianto vero e proprio, come quello dei bambini, come quello che aiuta a sfogarsi. Erano dei singhiozzi che le spezzavano il respiro e la facevano tremare.
La morbida onda bionda dei capelli sulla schiena parlava per lei, così come il cravattino verde argento abbandonato sui tomi.
« Narcissa?»
Come se fosse stata colta in flagrante sussultò e si voltò rapida frustando l’aria con la folta chioma.
Non l’avevo mai vista in quello stato: gli occhi arrossati, le labbra tremolanti, l’espressione sconvolta, qualche ciocca fuori posto.
Lo sguardo si era soffermato su di me a lungo, iroso, ponderando la situazione, mentre io me ne restavo in silenzio.
Non c’era bisogno di chiedere, sapevo, perché avevo visto.
Neanche un quarto d’ora prima non dico tutta Hogwarts, ma i Serpeverde e i Grifondoro del nostro anno e un sostanzioso e promiscuo gruppo di curiosi Tassorosso e perfino qualche timido Corvonero avevano assistito allo scontro di due note figure.
Certo, non era come quando a fronteggiarsi erano Bellatrix e Sirius - smaniosi di ricorrere alle bacchette -, ma si trattava comunque di Sirius e di un’altra persona della sua famiglia - Narcissa in questo caso - e la sostanza era dunque la stessa, la suspense e l’adrenalina non mancavano perché comunque i protagonisti eravamo in ogni caso noi: Black vs Black.
Mi stava ancora guardando, indecisa. Si leggeva chiaramente sul suo volto - di solito impassibile - che in lei la paura e la rabbia per essere stata scoperta in quello stato, il desiderio di scagliarmi contro una Maledizione Senza Perdono, il sollievo per il fatto che ero solo io e una più totale confusione le impedivano di formulare un discorso.
« Regulus.»
Alla fine aveva parlato, optando per una semplice parola, il mio nome, che poteva essere allo stesso tempo un saluto, un rimprovero e un avvertimento. Forse tutto
insieme.

« Ti ha mandato tuo fratello?»
Suonava quasi un’accusa.
« Io e Sirius non ci parliamo ormai da anni. Dovresti saperlo.»
A quel punto si erano susseguiti uno sguardo sospettoso, un sospiro e un altro singhiozzo.
Il corpo aveva ripreso a tremare lievemente, forse per l’umiliazione subita in pubblica piazza per mezzo delle mordaci parole di Sirius o per la rabbia causata dall’esser stata sopraffatta per la prima volta. Molto probabilmente per entrambe le cose.
« Narcissa, strilla pure quanto vuoi, parla al vento. Tanto non ho orecchie per persone del tuo livello. Non sono come te e non lo sarò mai. E detto tra noi non vorrei mai essere l’inutile pedina che sei tu. Perché lo sai vero che sei solo un bel pedone sacrificabile? Bello, ma sacrificabile. Quando la tua bellezza sfiorirà, e non ci vorrà
molto, non avrai più motivo di esistere.»

Sirius non aveva impiegato molto tempo per metterla tacere, usando contro di lei quel terrore che, lo sapeva, tormentava nostra cugina.
« La verità uccide, vero Narcissa?»
Aveva poi aggiunto ghignando strafottente, come chi si sta gustando la propria vittoria.
« Regulus, la pensi anche tu come lui?»
Un domanda semplice e apparentemente innocua, dalla cui risposta, però, dipendeva tutto.
A guardare quell’esile e diafana figura mi pareva quasi di non riconoscere mia cugina, l’algida e perfetta Narcissa, maestra nel contenere il controllo in qualsiasi situazione, la vanitosa e viziata Black. Dov’era finito il suo sguardo di ghiaccio che riservava a tutti, senza distinzione?
Davanti a me stava una fragile e delicata fanciulla, insicura e spaventata, la cui figura illuminata dalla fioca luce della stanza sembrava tremolare, sempre sul punto di dissolversi tra i pulviscoli evanescenti presenti nell’aria.
Era una nuova Narcissa, la faccia nascosta della regina dal cuore di ghiaccio.
« No.»
Ed era la verità, perché in quel momento, per la prima volta, mi ero ritrovato a pensare che mia cugina fosse davvero bella.
In quella stanza tutto era diverso; il tempo e lo spazio non esistevano come concetti tra quelle mura edificate dal nulla.
Chi si era avvicinato per primo? Io o lei?
Entrambi.
Ci guardavamo più da vicino ora, con pochi passi di distanza a dividerci, intenti a scoprire due mondi l’uno negli occhi dell’altro.
Nel silenzio, irreale in qualsiasi posto che non fosse quello, c’eravamo solo noi e i nostri cuori che battevano lenti, insieme.
Uno, due, tre passi; poi il profumo di viole del suo respiro arrivava a solleticarmi le labbra.
In quel momento, per un istante, mi era sembrato di leggere nel suo sguardo quella stessa consapevolezza che mi stava passando per la testa: la nostra vita era stato un insieme di passi che ci avevano portati a quel giorno.
Poi lei aveva chiuso gli occhi, mentre le nostre labbra si sfioravano e quel pensiero era svanito nel nulla, evaporato come acqua al sole.
Erano state le circostanze.
Loro ci avevano spinto l’uno nelle braccia dell’altra, loro ci avevano fatto unire i respiri, loro ci avevano portati a quel punto di non ritorno.
I vestiti erano scivolati a terra, lentamente perché lì dentro non c’era fretta.
I nostri corpi nudi si erano uniti perfettamente, incastrandosi come due frammenti di un puzzle.
Quello che stavamo facendo era proibito, ma nella Stanza delle Necessità il confine tra sogno e realtà, tra proibito e lecito è sottile, praticamente inesistente.

« Circostanze.» , aveva detto con voce severa e impassibile una volta soli, « Ciò che è successo nella Stanza delle Necessità è stato dettato dalle circostanze.»
Io avevo annuito; non serviva dire altro, aveva già fatto tutto lei. Non ero né ferito né deluso: non l’amavo. Non avevo neanche mai pensato a lei in tutti quegli anni in cui ero in vita.
Un secondo dopo, però, ci stavamo nuovamente baciando e lì non eravamo nella Stanza delle Necessità.

Osservavo la crocchia del tutto particolare con cui era solita raccogliersi i capelli durante le ore di Pozione, come in quel momento. Le lasciava scoperto il collo da cigno e la linea flessuosa della schiena.
Con un po’ di disappunto, il mio sguardo non riusciva a trovare quei segni che a volte le lasciavo.
Capitava ogni tanto che la stringessi o la prendessi con eccessiva forza, addirittura la mordessi: ma non c’erano lividi il giorno successivo, nemmeno accenni a lievi rossori.
Non c’era niente.
Il disappunto si trasformava in pungente fastidio e in fine scemava nella rassegnazione.
Erano segni da innamorati quelli e noi non lo eravamo, non lo saremmo mai stati.
Perché eravamo cugini.
Perché era proibito ciò che facevamo lontano dagli altri.
Perché le circostanze non lo permettevano.

Gli incontri erano diventati più frequenti di quanto potessimo immaginare.
Capitava che nel cuore della notte trovassi Narcissa in camicia da notte in camera mia; non c’erano problemi, perché tanto il ragazzo con cui dividevo la stanza ogni
sera prendeva degli strani tranquillanti, che lo facevano addormentare di colpo alle nove e mezza di sera e svegliare alle sei e mezza. Peggio di un orologio svizzero.


A volte ero io a cercarla.
Senza un apparente motivo comparivo al suo fianco o a pochi passi di distanza da lei e la guardavo. Narcissa capiva. Capiva e annuiva.
Mai una domanda, mai una parola.
Il silenzio era l’ambiente in cui ci muovevamo.

In pubblico noi eravamo due figure distinte, due cugini, due Serpeverde, due Black. Eravamo distanti da tutto e da tutti, anche tra di noi.
Nessuno poteva immaginare che quegli sguardi fugaci, quel casuale sfiorarsi, quelle poche e accorate parole erano dei segnali.
“Stasera!”, urlavano i nostri occhi.
“Ti voglio.”, gridavano le nostre mani che incontravano per sbaglio.
“Ho bisogno di te.”, echeggiavano i nostri saluti.
Ma tutto questo non era amore.

« Lucius e io ci siamo fidanzati.» , mi aveva detto con molta tranquillità mentre si sistemava la gonna.
Io avevo annuito; cosa me ne importava? Nulla.
Poteva fidanzarsi con chiunque, lo sapeva benissimo. In sei anni di scuola aveva avuto numerosi ragazzi. Tutti Serpeverde che, per l’intera durata delle loro relazioni, avevano ignorato l’esistenza degli incontri tra me e Narcissa.
Questa volta però era diverso.
« Lo hanno deciso le nostre famiglie.»
Sì, decisamente, questa volta era diverso.
Ma io annuii una seconda volta. Le circostanze ci avrebbero fatto incontrare ancora.

« Lucius e io ci sposiamo.»
Cosa voleva che le rispondessi? “Non farlo, resta con me, fuggiamo?”
No, non lo avrebbe voluto nemmeno lei.
Avevo annuito passivamente anche questa volta, ostentando il mio disinteresse per l’intera questione.
Il matrimonio tra i due avrebbe sbarrato la strada alle circostanze, me ne rendevo perfettamente conto. Non ci sarebbe più stata alcuna Narcissa da baciare, da sfiorare, da assaporare. Non avrei più visto quell’esile e perfetto corpo nudo sotto di me, quei fluenti capelli biondi sparsi sul mio cuscino, quegli occhi di ghiaccio sciogliersi al mio tocco. Non ci sarebbe più stato niente.
Quella notte la presi con più violenza del solito, ma a lei non parve dispiacere e anzi, mi graffiò la schiena e mi morse il collo mentre insieme raggiungevamo l’apice di quel piacere proibito.
Quando al mattino era scivolò dalle lenzuola osservai la linea flessuosa della sua schiena candida e il profilo del suo volto da fata.
Era bella Narcissa.
Mentre finiva di sistemarsi mi guardò.
« Addio Regulus.»
Le parole, come l’ultimo respiro di un condannato a morte, erano scivolate fuori dalle sue labbra rosse e tuttavia fredde.
Dopo tutto questo tempo passato ad osservare, esplorare e conoscere il suo corpo, riuscivo a comprendere il significato nascosto di ogni suo movimento. E per quanto ostentasse sicurezza mentre faceva scivolare le calze sulle cosce candide e si sistemava la gonna, notavo perfettamente la rigidità delle sue membra. E nonostante questo, la sua voce non perdeva la seta della sua consistenza.
Avrei voluto che ripetesse ancora una volta il nome. E poi una volta ancora. E un’altra. Volevo sentirmi chiamare da lei all’infinito.
Ma non glielo dissi, come non le dissi mai che la trovavo bella.
Così l’avevo guardata uscire da quella porta, la stessa da cui la sera prima era entrata, consapevole che non l’avrei mai più vista varcare la soglia.
 
L’invito delle nozze era arrivato una mattina, una di quelle uguali a tante altre: il cielo plumbeo di Londra rendeva ogni giorno simile a quello precedente.
La carta era bianca e dalla filigrana pregiata, sicuramente costosa, tanto costosa; le parole erano state vergate con una calligrafia artificiosa, piena di fronzoli, che l’inchiostro nero e lucido faceva risaltare.
Quella mattina, passando una mano sul volto per scacciare il sonno di una notte passata in piedi a lavorare, continuai a fissare l’invito.
I pensieri nella mia mente erano nebulosi, difficili da interpretare.
Mentre mi preparavo un caffè, in quel vecchio appartamento affittato in centro per svolgere una missione affidatami dall’Oscuro Signore, mi sentii improvvisamente stanco e seppi per certo che il sonno perso non c’entrava.
Ancora non capivo, però, che cosa riguardasse quella stanchezza che mi portavo dentro, che mi rendeva pesanti le membra e che mi rendeva un’ancora più sfocata e pallida imitazione di mio fratello.
 
La chiesa era grande e imponente: una vera cattedrale gotica, con maestosi pilastri che sostenevano il peso di quell’imponente costruzione e meravigliose vetrate chesi innalzavano, sfidando la gravità, verso l’alto.
Mazzi di narcisi adornavano le panche e l’altare, risaltando sulla scura pietra.
Presi posto accanto la mia famiglia, vicino a mia madre.
Alla mia destra la panca avrebbe potuto ospitare un’altra persona: sapevo bene che Sirius non era stato invitato, ma sapevo anche che, se anche avesse ricevuto la richiesta di partecipazione, non sarebbe venuto lo stesso. Consapevole di ciò, mi accomodai occupando più spazio del dovuto: per lui ormai non c’era più posto.
Lucius era già all’altare, perfetto e impettito nel suo completo nero, con i biondi capelli pettinati all’indietro. Era algido, il giovane Malfoy, e sicuro di sé, vagamente sprezzante.
La marcia nuziale iniziò a risuonare nell’aria nel momento stesso in cui Narcissa mise piede nella chiesa.
Come tutti mi voltai a guardarla.
Era la bella Narcissa, nel suo abito bianco.
Era bella e lontana. Anche nel momento in cui mi passò accanto.
Il suo sguardo di freddo cristallo incontrò il mio in un unico e fugace istante.
Aveva per caso paura che tradissi il nostro silenzio e che interrompessi le sue nozze? Era timore quello che avevo scorto?
Perché la verità uccide, non è vero Narcissa?
« Lo sposo può baciare la sposa.»
Ora la donna, che le circostanze avevano spinto tra le mie braccia, era irrimediabilmente irraggiungibile. Proibita come mai lo era stata.
Con calma mi alzai, trascinando con composta eleganza le mie membra stanche verso l’uscita e confondendomi con la gente.
Sentii il suo sguardo sulla mia schiena, ma non mi voltai. L’orgoglio me lo impediva. Orgoglio di cosa, non lo sapevo. Restava il fatto che ero un Black e questo giustificava sempre tutto.
Quindi uscii, consapevole come non mai che Narcissa era fuori dalla mia portata. Intoccabile.
« Addio.»

 
Mentre bevo quell’acqua maledetta e inizio a delirare, l’ultimo briciolo di razionalità che mi rimane mi avverte che morirò sicuramente.
Avviso superfluo.
Sono venuto qui con la consapevolezza che non ci sarà domani per me, nessun ritorno trionfale.
Brucio, vado a fuoco, la magia distrugge lentamente il mio corpo dall’interno.
Le urla strazianti che sfiorano la scura superficie dell’acqua e risuonano nell’aria della caverna sono le mie, ma non le sento davvero, sono troppo lontano, la mente vaga nel caos dei ricordi.
C’è felicità, al sapore di risate infantili; ma è solo un’immagine sfocata, troppo lontana per essere raggiunta. È una felicità troppo breve, che si conclude con una schiena ammantata di nero che si allontana per sempre. Quella schiena, di chi è? La mia o quella di Sirius?
Chi ha abbandonato chi? Chi se n’è andato per primo, chi? Io o te, Sirius?
E Narcissa?
Sono stato io a lasciarla? O è stata lei?
Chi? Chi? Chi? Perché?
Ci sono troppi interrogativi nella mia mente, troppe risposte non date, domande non fatte e parole non dette.
Bastava poco.
Resta, non mi lasciare, ti voglio bene, ti amo.
Bastava davvero poco, ma non ho fatto nulla, ho lasciato che la vita mi passasse davanti, mi sfuggisse veloce. Non ho lottato per quello che volevo, ho solo ucciso per conto di altri, in nome di ideali che solo ora realizzo quanto siano folli.
Ma adesso? Adesso che succede? Il fuoco continua a divorarmi le viscere, uccidendomi, e il mio corpo si accascia a terra, in un ultimo sussulto.
Adesso io, Regulus Black, abbandono la vita, in punta di piedi.

« Kreacher, non dire niente. A nessuno.»

   
 
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