Si era resa conto di aver un pezzo di carta igenica appiccicata schifosamente sotto le sue scarpe basse, solo quando un tizio che le veniva incontro, aveva inchiodato con gli occhi, impastati di sonno, il suo piede destro e aveva fatto fatica a trattenere una risata di scherno.
E allora lei lo aveva fulminato con lo sguardo e aveva abbassato la testa, alla ricerca di una delle tante dannatissime cose imperfette nella sua vita. cazzo.
Il tizio - pelato - la superò con un ghigno soddisfatto. O appagato. Era appagato di non dover essere lui al suo posto, a fare quella immane figura di merda. stronzo.
Estrasse quel pezzo lurido di carta, con due dita disgustate, e lo gettò nel primo posto le ricordasse vagamente un cestino. Chissenefrega.
Strofinandosi le dita sui jeans, si rese conto che la città ancora dormiva. Diede un'occhiata all'orologio: 7.45.
Non sarà presto, pensò appoggiando lo zaino ai suoi piedi mentre si sedeva su una panchina ad aspettare. Vide passare un tram in lontananza e l'ultimo lampione spegnersi. Non aveva per niente sonno e la cosa non la incuriosì poi così tanto. Stava aspettando Lila. Nella piazza semivuota davanti a lei, il blu si diradava lasciando il posto al bianco appena accennato, sulle cose. Guardò di nuovo l'ora: 7.50.
Dovevano prendere il treno delle otto e mezza. Partire, andare a Milano. C'era un concerto che le aspettava. Fatica, sudore, stordimento, urla le attendevano per le ore successive. Lei era seduta, aveva corti capelli castani e un corpo snello. Il vento fresco del mattino le arruffò quel ciuffo che tanto le piaceva. Si rimise apposto i capelli lisci. Alle orecchie risuonava a pieni polmoni la sua canzone preferita. Quanto l'adorava: poche ore e l'avrebbe sentita dal vivo. Dopo mesi ad aspettare quel momento, stavano saltando la scuola per il secondo giorno consecutivo. Si mise a canticchiare. Alzò gli occhi e Lila le veniva incontro: era assonnata e si vedeva; era stravolta.
"Non ci posso più venire." aveva abbassato gli occhi, avvicinandosi "Non sei poi quella persona che credevo, amica mia."
La guardava con uno sguardo pieno di accusa: ne era disgustata, la doveva pagare. Giulia si era alzata "Lila... ma che...?" tentava di stringerle le braccia, di prenderla per mano: nei suoi occhi non vedeva altro che odio. "Non mi toccare. Mi fai schifo, Giulia." E Giulia non capiva. Più cercava di avvicinarsi a lei, più lei si allontanava. Più non capiva. Cosa diavolo...? Allungò ancora il braccio destro, nel disperato tentativo di raggiungerla. Le cuffie le erano cadute dalle orecchie, ormai quasi le schiacciava sotto i piedi. "Lila, aspetta!"
Era a poca distanza da lei ma aveva urlato: la frustrazione e il senso di impotenza ti fanno urlare. Lei indietreggiava, sconvolta. La guardava negli occhi, incredula, e indietreggiava. Indietreggiava. Stava piangendo. Fu una cosa infinitesimale. Lila inciampò sui suoi stessi piedi, cadde all'indietro. Sbattè violentemente la testa, sulle scale che portavano alla piazza. Erano solo due gradini. "LILA!" Giulia rimase immobile, prigioniera del terrore. Quando le andò vicino, vide che non si muoveva. Aveva gli occhi aperti: c'era del sangue sotto la sua testa.
Tanto sangue constatò mentre allungava una mano terrorizzata, a toccare quel sanguinare continuo. Lento e continuo. "No..."
Non capiva, era disperata: piangeva, ormai. "...Lila..."
"Signorina.." ; "...Lila, no..."; "Signorina, cosa sta facendo?". Non voleva muoversi da lì, non voleva sentire. Perché non la lasciavano in pace? Avrebbe corso dei guai incredibili. Lila sanguinava, priva di vita. Il mondo sembrava allontanarsi dai suoi occhi.
Qualcuno le stava dando delle gomitate precise alle costole. Whooom, fecero i suoi occhi aprendosi. "Signorina, non glielo ripeto più. Senta, le sto facendo una nota! Si svegli, non siamo in camera sua!"
Che voce stridula. "Cogliona, ma ti vuoi svegliare? La stai facendo incazzare di brutto e già le giravano, stamattina." Questo era un sussurro, incavolato.
"Che è?" Chiese la bocca spaesata di Giulia, mentre metteva a fuoco la situazione. No: era in classe, nell'ora di latino.
"E' che non mi voglio prendere un altro due perché te lo prendi te. Siamo a metà Maggio e questa dorme." Lila la guardava, un po' scocciata, un po' divertita.
Aveva baciato il suo ragazzo, Giulia. Una sera che le aveva dato un passaggio e lei non c'era. Aveva bevuto. E si erano baciati. E... qualcosa di più. Aveva quell'incubo da una settimana, ormai. Non lo avrebbe scoperto mai, Lila. Erano ubriachi quando è successo: andava avanti così. Questo la giustificava, fintanto che non sarebbe impazzita.
Glielo confidò: "Ti ho sognata morta, vedi di arrivare sana e salva a casa." Lila la guardava perplessa. "Quante te ne sei fumate, stamattina?"
Il senso di colpa ti lacererà, un giorno di questi, Giulia. Le rivolse il sorriso di una che la sa lunga e si voltò di nuovo a non fare niente, mentre guardava fuori dalla finestra dove il blu ridipingeva le cose. Si ricordò di una frase che aveva letto da qualche parte, una volta, parlava dei sensi di colpa: spesso sono le vittime a farsene carico, solo perché occorre che qualcuno se ne faccia carico. Quindi Lila in questo caso.
Con gli occhi chiusi lei, Giulia, decise che non gliene importava nulla.
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