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Autore: Carlos Olivera    12/06/2011    1 recensioni
Giappone. XVI Secolo.
La guerra civile consuma e distrugge tutto ciò che incontra. I signori della guerra si combattono l'un l'altro per il potere assoluto, i contadini soffrono e muoiono nelle campagne, i mercanti si arricchiscono, e le città bruciano.
Oda Nobunaga, presentatosi come il salvatore del Paese, si appresta a riunificare l'intero Giappone sotto il suo comando, e ben presto anche gli ultimi che ancora lo contrastano cadranno come fiori appassiti.
Ma qualcosa, qualcosa di terribile, cova al di sotto del caos che ovunque regna sovrano. Dall'occidente sono arrivate nuove armi, nuove conoscenze e una nuova fede, ma anche un'antica e sanguinosa battaglia segreta che dura da centinaia di anni, e che avrà in questo Paese uno dei suo maggiori teatri di scontro.
Dovere. Onore. Vendetta. Giustizia. Questo è ciò che mi guida, che mi spinge e proseguire lungo la strada che ho scelto, verso quel destino a cui non posso sottrarmi.
E' la mia maledizione.
Io sono Iguro Takemura.
Io sono... un Assassino.
Genere: Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Provincia di Omi

Agosto 1568

 

Fin dai tempi più antichi, nessun generale o signore della guerra si era mai azzardato ad entrare in armi nella Capitale dell’impero.

         Marciare alla testa del proprio esercito nel luogo più sacro del Paese era un’eresia, un affronto che non poteva essere tollerato.

         Ma Oda Nobunaga, signore di Owari, amavano dire i suoi generali, non temeva né gli uomini né gli dèi, e l’unico giudizio che gli interessava era quello che i posteri avrebbero riservato alle sue imprese.

         Per lui, che ormai si apprestava ad unire sotto la sua bandiera l’intero Paese, avere alle proprie spalle uno shogun accondiscendente e, soprattutto, con un grande debito nei suoi confronti, sarebbe stato un incredibile vantaggio, poiché avrebbe legittimato da lì in poi tutte le sue future conquiste.

         Yoshiaki Ashikaga era un uomo senza onore, un malato di mente con manie di grandezza e poco cervello, ma proprio per questo era il candidato perfetto per rivestire il ruolo di governatore fantoccio, da rigirare e manovrare a proprio piacimento.

         Quando si era presentato alla fortezza di Owari implorando Nobunaga di aiutarlo a togliere il potere al cugino Yoshikage, Nobunaga aveva immediatamente accettato, e aveva inviato nella capitale due distinti gruppi d’armata destinati a sbaragliare le residue forze del clan Miyoshi che controllava e manovrava l’attuale shogun; ultimamente i Miyoshi non se la passavano troppo bene, da quando il loro ultimo signore era morto lasciando tre fratelli incapaci ed ambiziosi a contendersi il comando, ma con la minaccia di perdere la propria influenza nella capitale a pesare sulle loro teste poteva capitare che mettessero da parte le loro rivalità per fare causa comune contro il nemico e riprendere a farsi la guerra in un secondo momento.

         La prima armata era guidata da Azai Nagamasa e Tokugawa Ieyasu, e sarebbe arrivata a Kyoto da oriente. Ieyasu, nonostante la giovane età, era un generale esperto, e aveva già dato prova di possedere un acuto spirito strategico; quanto a Nagamasa, era legato a doppio filo a Nobunaga, avendone sposato alcuni anni prima la sorella Oichi.

         La scelta di destituire uno shogun, per quanto fantoccio, non era passata inosservata, e aveva suscitato un mare di risentimento tra i signori della guerra ancora indipendenti e che si opponevano alla campagna di conquista di Nobunaga.

         E infatti, come Ieyasu aveva previsto, il clan Rokkaku, storico alleato dei Miyoshi che comandavano Kyoto, era pronto ad intervenire per impedire il colpo di stato, e secondo gli esploratori inviati a raccogliere informazioni aveva in programma di muovere guerra a Nobunaga nel momento in cui fosse iniziato l’assedio alla capitale, così da intrappolare gli assedianti in una morsa a tenaglia attaccandoli contemporaneamente da davanti e da dietro.

         Proprio ad impedire che tutto ciò potesse accadere era destinata la prima armata, il cui compito era quello di stringere d’assedio i castelli dei Rokkaku situati lungo la strada per la capitale onde impedire loro, oltre che di minacciare la campagna, anche di avvertire gli alleati di quanto stava accadendo. Nel frattempo la seconda armata, guidata da Nobunaga in persona, e con al seguito il futuro shogun, avrebbe raggiunto la capitale arrivando da sud lungo percorsi alternativi e poco battuti, piombando sul nemico senza preavviso e sbaragliandolo prima che questi avesse anche solo il tempo di organizzarsi.

         L’assedio ai tre castelli dei Rokkaku non si sarebbe rivelata un’impresa troppo impegnativa; erano strutture vecchie e poco fortificate, oltre che pesantemente danneggiate da conflitti precedenti, e la loro conquista non avrebbe richiesto che poche settimane. Ognuno dei due generali comandava l’assedio ad una delle due fortezze principali, mentre l’assedio al terzo castello era stato affidato a Tadakatsu Heihachiro Honda, il più fedele e brillante dei generali di Ieyasu.

          A differenza della maggior parte degli altri signori della guerra, Nagamasa e Ieyasu sembravano attribuire una certa importanza alla vita dei propri soldati, ma se nel caso del primo questo si traduceva in una certa indecisione e difficoltà nell’ordinare attacchi ad altro rischio, nel caso del secondo invece tale condotta non pregiudicava minimamente la sua capacità di riportare grandi vittorie.

         Ieyasu era infatti uno stratega eccezionale, capace di trarre vantaggio da qualsiasi cosa, anche la più improbabile.

         In quel caso particolare, il suo alleato principale era il sole.

         Combattere sotto l’opprimente calura di agosto poteva essere un vero problema, soprattutto per degli assediati acqua razionata, e costretti a guardare da lontano gli assalitori che si rifornivano senza sosta dal vicino torrente, per non parlare di quelle tremende armature nelle quali ci si squagliava letteralmente dentro.

         Dopo soli cinque giorni dall’inizio dell’assedio, con gli assediati cotti a puntino, Ieyasu aveva quindi ordinato un attacco totale al cancello secondario nell’ora più calda, poco dopo mezzodì, impegnando buona parte delle sue truppe, e mentre i Rokkaku si affannavano a respingere quell’assalto un manipolo di shinobi guidati da Hattori Hanzo, detto anche Hanzo il Demonio, si infiltrarono nella fortezza e uccisero le poche guardie a presidio del portone principale, lasciato pericolosamente sguarnito, che poco dopo si spalancò.

         I Tokugawa a quel punto dilagarono nel castello, travolgendo i Rokkaku, che colti di sorpresa opposero una resistenza quasi nulla. Lo stesso Ieyasu prese parte alla battaglia, ma quando lui e i suoi uomini raggiunsero la stanza in cima al castello il generale nemico, un ragazzetto poco più che ventenne, aveva già compiuto seppuku.

         I suoi occhi erano ancora spalancati, la sua espressione innaturale, piegata in un ghigno di dolore. Non tutti riuscivano a restare impassibili mentre si sventravano con un pugnale; persino i samurai più anziani e temprati dalle battaglie talvolta, nell’atto di darsi la morte, tradivano la paura o il dolore.

         Ieyasu si tolse l’elmetto, rivelando il volto di un uomo dalle fattezze leggermente paffute, con un accenno di barba a contornargli la bocca e guance un po’ grassocce, ma con uno sguardo profondo e penetrante ed un’espressione che trasmetteva un senso di fierezza e risolutezza.

         Inginocchiatosi, con un cenno della mano chiuse gli occhi al giovane avversario, e quando uno dei suoi uomini tentò di decapitarlo perché la sua testa potesse essere presentata a Nobunaga quale segno di vittoria Ieyasu lo fermò.

         «La testa di un ragazzo non ha alcun valore.» disse secco «Tanto vale lasciargliela sul collo».

         In quella un samurai arrivò nella stanza, inginocchiandosi immediatamente.

         «Il nobile Tadakatsu ha preso il terzo castello, mio signore!»

         «Capisco.» rispose lui senza voltarsi «E Nagamasa, invece?»

         «L’assedio è ancora in corso, mio signore.»

         «Quel ragazzino. Avrà anche un buon cuore, e un animo generoso, ma se continuerà a permettere alle sue emozioni di decidere per lui un giorno o l’altro finirà per pentirsene».

         Tornato sui suoi passi, Ieyasu fece ritorno al suo accampamento all’esterno del castello, e qui trovò ad attenderlo un messaggero degli Oda.

         «Un messaggio dal mio signore.» disse quello inginocchiandosi a sua volta e piegando la testa «Il nobile Nubunaga sta attraversando con le sue truppe la provincia di Tamba. Nessuno si è accorto fino ad ora del suo arrivo.»

         «Vorrei vedere. Con quello che abbiamo fatto per attirare l’attenzione di tutti altrove.

         Dove si trovano in questo momento?»

         «Entro domani attraverseranno la valle di Ookami, e in cinque giorni al massimo raggiungeranno la capitale.»

         «La valle di Ookami.» disse Ieyasu come pensieroso «Che peccato. A quanto pare, anche quell’ultimo eremo di tranquillità sarà infine travolto da questa maledetta guerra».

 

La mietitura era ormai vicina, e il raccolto andava così bene che per un giorno, eccezionalmente, tenendo conto anche del caldo, gli abitanti del villaggio avevano deciso di concedersi un giorno di riposo e di non lavorare.

         Alcuni di loro, approfittando di quell’insperato momento di pausa, avevano deciso di riprendere in mano i lavori di ricostruzione della torre campanaria al centro del villaggio, distrutta alcuni mesi prima durante una violenta tempesta e mai rimessa a posto.

         Mentre gli uomini lavoravano, le donne facevano avanti e indietro con le otri piene per portare loro un po’ di acqua fresca con cui combattere l’impietoso martellare del sole.

         Anche Iguro dava il suo contributo, e come in ogni altra cosa alla quale si dedicava era infaticabile.

         Sua madre venne a porgergli l’otre, e lui, che si era fatto prendere a tal punto dal lavoro, accortosi di quanto stanco e sudato fosse accettò di buon grado.

         «C’è qualcosa che non va?» domandò Suzue «Mi sembri strano.»

         «Niente di serio, madre. È qualche notte che dormo male.»

         «Sempre quei sogni?».

         Il ragazzo chinò il capo e fece cenno di sì.

         «Ancora non capisco che cosa vogliano dire. Tutti quei luoghi sconosciuti, quelle genti così strane. Sono sicuro di non aver mai visto niente del genere. Ma se è così, perché tutto ciò fa parte dei miei sogni?»

         «Si dice che i sogni siano il punto di collegamento tra noi e i nostri antenati. Forse è il loro modo di comunicare con te.»

         «Ma se è così, cosa vorranno dirmi? Io non capisco.»

         «Abbi pazienza, figliolo. Con il tempo, sono sicura che tutto ti apparirà chiaro».

         Prima di mezzodì la torre era ormai finita, quindi fu il momento di issare nuovamente in cima la pesante campana di ferro; fu necessaria la forza di dieci uomini per trasportarla alla base della struttura, e altri cinque ne servirono al momento di issarla con la carrucola e agganciarla al suo alloggiamento.

         Quindi, alla presenza di tutto il villaggio, venne battuto il primo colpo, salutato dagli abitanti con un grido di festa, che subito dopo demolirono ancor più festanti la torre piccola e di fortuna che avevano eretto in sostituzione dell’originale.

         «Finalmente, potremo tornare dai campi al suono della nostra cara, vecchia campana.» disse Takemura osservandola soddisfatto.

         Venne quindi allestito in tutta fretta un festino nella piazzetta a cui presero parte tutti i contadini; di solito quel tipo di celebrazioni si facevano solo al termine della mietitura, ma vista l’eccezionalità dell’evento e l’abbondanza del raccolto che stava per venire, per una volta era lecito ed ammesso festeggiare due volte.

         Mentre tutti festeggiavano, alcuni bambini, dribblando l’attenzione degli adulti, salirono sulla torre per godersi il panorama.

         D’un tratto, la loro attenzione fu attirata da una strana nuvola di polvere che si sollevava sul sentiero diretto a sud e che sembrava avvicinarsi con grande velocità al villaggio.

         «Ehi voi, che fate lassù?» domandò Iguro, accortosi di loro «Scendete subito, è pericoloso.»

         «Abbiamo visto qualcosa.» disse una bambina.

         Dapprincipio il ragazzo pensò che stessero solo fingendo, giusto per avere la scusa per restare un altro po’, ma poi, data la loro insistenza, salì a sua volta per controllare se stessero dicendo la verità.

         «Avete ragione.» disse quando ebbe notato a sua volta la nuvola di polvere «C’è qualcosa laggiù.»

         «Che cosa pensi che sia?» domandò il figlio del capo villaggio

         «Non lo so».

         Poi, però, qualcosa cominciò ad intravvedersi, e l’espressione di Iguro, da preoccupata, si fece terrorizzata.

         «Mio Dio.» mugugnò, quindi si sporse dal parapetto «Samurai! Arrivano dal sentiero a sud! Vengono verso di noi!».

         Gli uomini che Iguro aveva visto arrivare era la seconda ondata dell’esercito di Nobunaga, quella destinata a raggiungere Kyoto per cogliere di sorpresa i Miyoshi e spodestare lo shogun.

         Purtroppo, non era affatto raro che un’armata di samurai sottopagati e malnutriti decidesse di racimolare del bottino extra razziando ogni villaggio che aveva la sfortuna di trovarsi lungo il loro cammino, ed era esattamente questo che gli uomini di Nobunaga si stavano preparando a fare, con grande divertimento e soddisfazione da parte di Ashikaga, che dall’alto del suo cavallo in cima ad un piccolo crinale osservava ridacchiando i soldati lanciarsi contro lo sfortunato villaggio urlando e sfoderando le armi.

         Bassetto e minuto, aveva un aspetto orribile, un volto aguzzo e sgraziato contornato da due piccoli occhi neri e che ben si portava ad ospitare su di sé un’espressione sadica e malevola.

         «Bruciate tutto! Distruggete tutto! Vi autorizzo io! Radete al suolo! Bruciate! Non deve restare niente!».

         Poco dopo lo raggiunse Nobunaga, il signore di Owari, il più potente daimyo del Paese.

         Contrariamente a lui, era un uomo di bellissimo aspetto, alto e slanciato, con lungi capelli neri raccolti alla maniera dei nobili d’alto rango, un accenno di barba tutto intorno alla bocca e occhi scuri pieni di carisma.

         Indossava un’armatura strana, dalla foggia sia orientale che occidentale, completamente nera, e sia il cavallo che montava sia la spada che aveva alla cintura, una lama dritta e a doppio filo, erano un dono fattogli da alcuni missionari occidentali per la generosità e la magnanimità dimostrate nei loro confronti; alla cintura aveva anche una pistola, un bello schioppo portoghese di legno e ottone con il cane alzato e pronto al fuoco.

         «Non abbiamo tempo per saccheggi e razzie, amico mio.» disse calmo

         «Questo villaggio è da sempre una tana infetta di serpi Miyoshi. Era da tempo che desideravo estirparlo, ma non riuscivo mai a trovare l’entrata di questa maledetta valle.

         Ma ora, grazie a te e ai tuoi esploratori, finalmente ci sono riuscito, e ora mi godrò appieno la sua distruzione».

         La campana, che avrebbe dovuto scandire da lì in avanti momenti festosi, venne invece suonata per informare tutti dell’arrivo dell’attaccato.

         Purtroppo, si rivelò un gesto inutile; prima ancora che gli abitanti potessero anche solo rendersi conto di quello che stava per succedere, i soldati si abbatterono sul villaggio come un’onda gigantesca su di un porticciolo.

         I più piccoli, soprattutto bambini, vennero travolti dalla carica, e molti di quelli che scappavano si trasformarono in bersagli mobili per gli arcieri a cavallo. Tutto ciò che si muoveva veniva attaccato, e a nulla valsero i tentativi di alcuni di opporre resistenza armati di forconi e altri attrezzi contadini.

         Quando arrivò l’ondata Iguro non era ancora sceso dalla torre, che privata di tre dei suoi quattro cavi di sostegno presto crollò, vanificando il lavoro di un’intera mattinata. Il ragazzo riuscì a saltare giù all’ultimo momento, cadendo sul tetto di una casa vicina e sfondandolo, ma finendo in questo modo a tu per tu con un soldato che stava saccheggiando la casa. Questi tentò di infilzarlo mentre era ancora a terra, ma fulmineo Iguro si alzò e con un calcio allontanò il samurai, rubandogli la naginata rimasta conficcata nel tatami, quindi quello sguainò la spada.

         Iguro come soldato aveva pochissima esperienza, e praticamente nessuna nell’arte della naginata, o comunque della lancia.

         Eppure, ciò nonostante, come prese in mano l’arma il ragazzo si sentì pervaso da una strana euforia, e il tempo per un istante sembrò quasi fermarsi, per poi ricominciare a scorrere come al rallentatore.

         Il samurai avanzò, urlando e brandendo la spada, ma senza difficoltà Iguro lo evitò, girò su sé stesso e con un fendente preciso al millimetro gli squarciò in un sol colpo armatura e torace, lasciandolo senza vita e in un lago di sangue.

         Per un attimo il ragazzo non riuscì a rendersi conto di quello che aveva appena fatto, ma poi quella foga nuovamente lo pervase, e uscito all’esterno ricominciò a combattere usando la spada sottratta al nemico appena ucciso.

         Nel mentre Takemura, rientrato in casa, scardinata una trave del pavimento aveva rivelato un vano segreto contenente la sua katana, tutto ciò che gli restava della sua vita passatala, e sguainatala si era lanciato in quella che sapeva sarebbe stata la sua ultima battaglia.

         Seppur vecchio e zoppicante, la sua abilità era ancora quella di un guerriero nel fiore degli anni, e quando cominciò a mozzare braccia e a tagliare gole la sua bravura si rivelò tale che presto gli Oda si rivelarono timorosi di affrontarlo.

         Poco distante, Iguro, ancora pervaso da quella foga indescrivibile, continuava a combatte come un leone; i suoi movimenti erano fluidi, armoniosi, impossibili da attribuire ad un principiante o ad un contadino.

         Tre samurai gli si fecero incontro tutti insieme, armati rispettivamente di una naginata, una katana e una lancia. Iguro uccise quello con la naginata con un preciso fendente alla gola, schivò quello con la lancia atterrandolo con un calcio, scambiò un paio di colpi con lo spadaccino quindi, schivato un secondo colpo di lancia, affettata l’arma la ruppe in due con un solo colpo, decapitò di netto il lanciere quindi, disarmato con la spada lo spadaccino, lo trafisse in pieno petto con la punta di lancia.

         Alzato lo sguardo, vide, dall’altra parte dello spiazzo, suo padre, ancora intento a battersi contro una marea di nemici.

         Purtroppo, a vederlo era stato anche Ashikaga, che riconosciuto in lui il fedelissimo dei Rokkaku che tante volte gli avevano messo i bastoni tra le ruote, strappato l’arco ad un soldato, e ancora in sella al suo cavallo, aspettò che gli desse la schiena per poi colpirlo da lontano con una scoccata precisa che lo trafisse alla spalla sinistra.

         Atterrito, Iguro lo vide tendersi allo spasimo, con lo occhi spalancati e la schiena piegata spaventosamente all’indietro, per poi sputare un rivolo di sangue ed accasciarsi infine a terra apparentemente morto.

         «Padre!» gridò correndo verso di lui.

         Forse fu colpa della rabbia, forse della disperazione, fatto sta che quella lucida ed incomprensibile efficienza che lo aveva guidato fino a quel momento, come era comparsa, sembrò scomparire, facendolo tornare il ragazzino inesperto e impreparato di sempre.

         Un gruppetto di nemici gli sbarrarono la strada, ma lui, incapace di opporsi a loro con la stessa, infallibile precisione di poco prima si ritrovò a mulinare la spada come un viaggiatore farebbe con il suo bastone per respingere un branco di lupi.

         I soldati tennero per un momento le distanze, poi uno di loro si fece avanti ferì il ragazzo di striscio ad un fianco.

         La rabbia si rivelò più forte del dolore, ma a quella ferita se ne aggiunse presto un’altra, e un’altra, e un’altra ancora; tutte superficiali, ma non per questo poco dolorose.

         Quando Nobunaga arrivò in mezzo a quanto restava del villaggio, ormai quasi completamente dato alle fiamme, Iguro era ancora lì, solo contro il mondo, incurante del sangue e della fatica a gridare e ad agitare la spada, mentre i samurai tutto intorno a lui sembravano ridersela divertiti, aspettando solo l’occasione migliore per mettere fine ai giochi.

         A prima vista poteva sembrare uno come tanti altri, uno di quei contadini disperati come ne aveva visti tanti, aggrappati alla vita con le unghie e con i denti sorretti soltanto dalla disperazione.

         Eppure, qualcosa di lui lo colpì.

         C’era qualche cosa di strano nei suoi occhi; la sua non sembrava disperazione. E poi quei lineamenti, così occidentali. Per lui i barbari d’oltreoceano erano tutti uguali, ma quello aveva qualcosa di famigliare.

         Ciò nonostante, sfoderata la pistola, gliela puntò contro e, come lo vide guardare verso di lui, gli sparò.

         Iguro udì un dolore fortissimo al fianco destro, come se mille spade insieme lo avessero trafitto nello stesso punto, mentre l’odore acre della polvere da sparo si diffondeva tutto intorno assieme al fumo prodotto dallo scoppio.

         Il ragazzo, attonito, cadde dapprima in ginocchio; tentò di respirare, ma il respiro gli rimaneva strozzato in gola. Quindi, dopo aver tentato un’ultima, disperata resistenza, si accasciò nel fango e nel sangue.

         Uno dei samurai si avvicinò per finirlo.

         «Lasciatelo lì!» comandò Nobunaga riponendo la pistola «Ormai è già morto».

         Ashikaga si avvicinò invece a Takemura, ancora vivo ma agonizzante, riverso sul petto ai piedi del muretto di una casa. Con un calcio lo girò, e come Takemura lo guardò negli occhi con quello sguardo sofferente ma fiero, Ashikaga rise.

         «È davvero un piacere vederti così, amico mio.»

         «Cane schifoso. Non hai un briciolo di onore.»

         «E tu allora? A fare il contadino?»

         «Quanto hai valutato… la tua dignità… quando l’hai venduta agli Oda?».

         Yoshiaki gli mollò un nuovo calcio, stavolta al mento, quindi sguainò la spada.

         «Porta i miei saluti al tuo signore.» disse prima di infilzarlo.

         In un estremo atto di sadismo, non colpì un punto vitale; voleva godersi la morte di uno dei suoi più agguerriti nemici un po’ per volta. Tuttavia, per quanto rigirasse e muovesse la lama, le urla di Takemura erano molto più contenute di quelle che avrebbe voluto, e alla fine, spazientito, gli inflisse il colpo di grazia trapassandogli il cuore.

         Iguro, che era ancora cosciente, assistette impotente all’intera scena, mugugnando di lasciare in pace suo padre mentre le lacrime gli rigavano il volto, poi una stanchezza senza fine lo pervase, e tutto divenne nero.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Vi ricordate di me?

Ma soprattutto, vi ricordate di questa fanfic? Era da un sacco di tempo che non l’aggiornavo, questo nonostante continuassi a promettere a cartaccia bianca e a me stesso di farlo.

Ma ora è successo un fatto importante.

Mi sono laureato! E con la fine dell’università, sono tornato padrone del mio tempo, e la prima cosa che ho voluto fare è stato riprendere in mano questa fan fiction, che all’epoca aveva, ed ha ancora oggi, una grande importanza per me.

Un altro motivo per il quale ho voluto riprenderla in mano è lo scarso interesse (per non dire nullo) riservato all’altra fanfic che avevo da poco iniziato su AC, quindi ho deciso di riprendere questa per vedere se avrà maggior fortuna.

Questo capitolo è breve, molto più breve dei miei standard abituali, ma perora non riesco a scrivere di più. Sono troppo stanco.

Ringrazio Cartacciabianca, Miss Revenge, Renault e Kimi per le loro recensioni

Grazie di tutto!^_^

Infine, una notizia.

Questa fan fiction, approssimativamente di una ventina di capitoli, avrà un seguito, Assassin’s Creed 2.5 – Parte Seconda – Le Memorie di Sekigahara, che invece dovrebbe aggirarsi sui dodici capitoli.

A presto!^_^

Carlos Olivera

  
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