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Provincia
di Omi
Agosto
1568
Fin dai tempi più antichi, nessun generale
o signore della guerra si era mai azzardato ad entrare in armi nella Capitale
dell’impero.
Marciare
alla testa del proprio esercito nel luogo più sacro del Paese era un’eresia, un
affronto che non poteva essere tollerato.
Ma
Oda Nobunaga, signore di Owari,
amavano dire i suoi generali, non temeva né gli uomini né gli dèi, e l’unico
giudizio che gli interessava era quello che i posteri avrebbero riservato alle
sue imprese.
Per
lui, che ormai si apprestava ad unire sotto la sua bandiera l’intero Paese,
avere alle proprie spalle uno shogun accondiscendente e, soprattutto, con un
grande debito nei suoi confronti, sarebbe stato un incredibile vantaggio, poiché
avrebbe legittimato da lì in poi tutte le sue future conquiste.
Yoshiaki Ashikaga era un uomo
senza onore, un malato di mente con manie di grandezza e poco cervello, ma
proprio per questo era il candidato perfetto per rivestire il ruolo di
governatore fantoccio, da rigirare e manovrare a proprio piacimento.
Quando
si era presentato alla fortezza di Owari implorando Nobunaga di aiutarlo a togliere il potere al cugino Yoshikage, Nobunaga aveva
immediatamente accettato, e aveva inviato nella capitale due distinti gruppi d’armata
destinati a sbaragliare le residue forze del clan Miyoshi
che controllava e manovrava l’attuale shogun; ultimamente i Miyoshi
non se la passavano troppo bene, da quando il loro ultimo signore era morto
lasciando tre fratelli incapaci ed ambiziosi a contendersi il comando, ma con
la minaccia di perdere la propria influenza nella capitale a pesare sulle loro
teste poteva capitare che mettessero da parte le loro rivalità per fare causa
comune contro il nemico e riprendere a farsi la guerra in un secondo momento.
La
prima armata era guidata da Azai Nagamasa
e Tokugawa Ieyasu, e
sarebbe arrivata a Kyoto da oriente. Ieyasu,
nonostante la giovane età, era un generale esperto, e aveva già dato prova di
possedere un acuto spirito strategico; quanto a Nagamasa,
era legato a doppio filo a Nobunaga, avendone sposato
alcuni anni prima la sorella Oichi.
La
scelta di destituire uno shogun, per quanto fantoccio, non era passata
inosservata, e aveva suscitato un mare di risentimento tra i signori della
guerra ancora indipendenti e che si opponevano alla campagna di conquista di Nobunaga.
E
infatti, come Ieyasu aveva previsto, il clan Rokkaku, storico alleato dei Miyoshi
che comandavano Kyoto, era pronto ad intervenire per impedire il colpo di stato,
e secondo gli esploratori inviati a raccogliere informazioni aveva in programma
di muovere guerra a Nobunaga nel momento in cui fosse
iniziato l’assedio alla capitale, così da intrappolare gli assedianti in una
morsa a tenaglia attaccandoli contemporaneamente da davanti e da dietro.
Proprio
ad impedire che tutto ciò potesse accadere era destinata la prima armata, il
cui compito era quello di stringere d’assedio i castelli dei Rokkaku situati lungo la strada per la capitale onde
impedire loro, oltre che di minacciare la campagna, anche di avvertire gli
alleati di quanto stava accadendo. Nel frattempo la seconda armata, guidata da Nobunaga in persona, e con al seguito il futuro shogun,
avrebbe raggiunto la capitale arrivando da sud lungo percorsi alternativi e
poco battuti, piombando sul nemico senza preavviso e sbaragliandolo prima che
questi avesse anche solo il tempo di organizzarsi.
L’assedio
ai tre castelli dei Rokkaku non si sarebbe rivelata
un’impresa troppo impegnativa; erano strutture vecchie e poco fortificate,
oltre che pesantemente danneggiate da conflitti precedenti, e la loro conquista
non avrebbe richiesto che poche settimane. Ognuno dei due generali comandava l’assedio
ad una delle due fortezze principali, mentre l’assedio al terzo castello era
stato affidato a Tadakatsu Heihachiro
Honda, il più fedele e brillante dei generali di Ieyasu.
A differenza della maggior parte degli altri
signori della guerra, Nagamasa e Ieyasu
sembravano attribuire una certa importanza alla vita dei propri soldati, ma se
nel caso del primo questo si traduceva in una certa indecisione e difficoltà
nell’ordinare attacchi ad altro rischio, nel caso del secondo invece tale
condotta non pregiudicava minimamente la sua capacità di riportare grandi
vittorie.
Ieyasu era infatti uno stratega eccezionale, capace di trarre
vantaggio da qualsiasi cosa, anche la più improbabile.
In
quel caso particolare, il suo alleato principale era il sole.
Combattere
sotto l’opprimente calura di agosto poteva essere un vero problema, soprattutto
per degli assediati acqua razionata, e costretti a guardare da lontano gli
assalitori che si rifornivano senza sosta dal vicino torrente, per non parlare
di quelle tremende armature nelle quali ci si squagliava letteralmente dentro.
Dopo
soli cinque giorni dall’inizio dell’assedio, con gli assediati cotti a puntino,
Ieyasu aveva quindi ordinato un attacco totale al
cancello secondario nell’ora più calda, poco dopo mezzodì, impegnando buona
parte delle sue truppe, e mentre i Rokkaku si
affannavano a respingere quell’assalto un manipolo di shinobi
guidati da Hattori Hanzo,
detto anche Hanzo il Demonio, si infiltrarono nella
fortezza e uccisero le poche guardie a presidio del portone principale, lasciato
pericolosamente sguarnito, che poco dopo si spalancò.
I
Tokugawa a quel punto dilagarono nel castello,
travolgendo i Rokkaku, che colti di sorpresa opposero
una resistenza quasi nulla. Lo stesso Ieyasu prese
parte alla battaglia, ma quando lui e i suoi uomini raggiunsero la stanza in
cima al castello il generale nemico, un ragazzetto poco più che ventenne, aveva
già compiuto seppuku.
I
suoi occhi erano ancora spalancati, la sua espressione innaturale, piegata in
un ghigno di dolore. Non tutti riuscivano a restare impassibili mentre si sventravano
con un pugnale; persino i samurai più anziani e temprati dalle battaglie
talvolta, nell’atto di darsi la morte, tradivano la paura o il dolore.
Ieyasu si tolse l’elmetto, rivelando il volto di un uomo
dalle fattezze leggermente paffute, con un accenno di barba a contornargli la
bocca e guance un po’ grassocce, ma con uno sguardo profondo e penetrante ed un’espressione
che trasmetteva un senso di fierezza e risolutezza.
Inginocchiatosi,
con un cenno della mano chiuse gli occhi al giovane avversario, e quando uno
dei suoi uomini tentò di decapitarlo perché la sua testa potesse essere
presentata a Nobunaga quale segno di vittoria Ieyasu lo fermò.
«La
testa di un ragazzo non ha alcun valore.» disse secco «Tanto vale lasciargliela
sul collo».
In
quella un samurai arrivò nella stanza, inginocchiandosi immediatamente.
«Il
nobile Tadakatsu ha preso il terzo castello, mio
signore!»
«Capisco.»
rispose lui senza voltarsi «E Nagamasa, invece?»
«L’assedio
è ancora in corso, mio signore.»
«Quel
ragazzino. Avrà anche un buon cuore, e un animo generoso, ma se continuerà a
permettere alle sue emozioni di decidere per lui un giorno o l’altro finirà per
pentirsene».
Tornato
sui suoi passi, Ieyasu fece ritorno al suo
accampamento all’esterno del castello, e qui trovò ad attenderlo un messaggero
degli Oda.
«Un
messaggio dal mio signore.» disse quello inginocchiandosi a sua volta e
piegando la testa «Il nobile Nubunaga sta
attraversando con le sue truppe la provincia di Tamba.
Nessuno si è accorto fino ad ora del suo arrivo.»
«Vorrei
vedere. Con quello che abbiamo fatto per attirare l’attenzione di tutti
altrove.
Dove
si trovano in questo momento?»
«Entro
domani attraverseranno la valle di Ookami, e in
cinque giorni al massimo raggiungeranno la capitale.»
«La
valle di Ookami.» disse Ieyasu
come pensieroso «Che peccato. A quanto pare, anche quell’ultimo eremo di
tranquillità sarà infine travolto da questa maledetta guerra».
La mietitura era ormai vicina, e il
raccolto andava così bene che per un giorno, eccezionalmente, tenendo conto
anche del caldo, gli abitanti del villaggio avevano deciso di concedersi un
giorno di riposo e di non lavorare.
Alcuni
di loro, approfittando di quell’insperato momento di pausa, avevano deciso di
riprendere in mano i lavori di ricostruzione della torre campanaria al centro
del villaggio, distrutta alcuni mesi prima durante una violenta tempesta e mai
rimessa a posto.
Mentre
gli uomini lavoravano, le donne facevano avanti e indietro con le otri piene
per portare loro un po’ di acqua fresca con cui combattere l’impietoso
martellare del sole.
Anche
Iguro dava il suo contributo, e come in ogni altra
cosa alla quale si dedicava era infaticabile.
Sua
madre venne a porgergli l’otre, e lui, che si era fatto prendere a tal punto
dal lavoro, accortosi di quanto stanco e sudato fosse accettò di buon grado.
«C’è
qualcosa che non va?» domandò Suzue «Mi sembri
strano.»
«Niente
di serio, madre. È qualche notte che dormo male.»
«Sempre
quei sogni?».
Il
ragazzo chinò il capo e fece cenno di sì.
«Ancora
non capisco che cosa vogliano dire. Tutti quei luoghi sconosciuti, quelle genti
così strane. Sono sicuro di non aver mai visto niente del genere. Ma se è così,
perché tutto ciò fa parte dei miei sogni?»
«Si
dice che i sogni siano il punto di collegamento tra noi e i nostri antenati. Forse
è il loro modo di comunicare con te.»
«Ma
se è così, cosa vorranno dirmi? Io non capisco.»
«Abbi
pazienza, figliolo. Con il tempo, sono sicura che tutto ti apparirà chiaro».
Prima
di mezzodì la torre era ormai finita, quindi fu il momento di issare nuovamente
in cima la pesante campana di ferro; fu necessaria la forza di dieci uomini per
trasportarla alla base della struttura, e altri cinque ne servirono al momento
di issarla con la carrucola e agganciarla al suo alloggiamento.
Quindi,
alla presenza di tutto il villaggio, venne battuto il primo colpo, salutato
dagli abitanti con un grido di festa, che subito dopo demolirono ancor più
festanti la torre piccola e di fortuna che avevano eretto in sostituzione dell’originale.
«Finalmente,
potremo tornare dai campi al suono della nostra cara, vecchia campana.» disse Takemura osservandola soddisfatto.
Venne
quindi allestito in tutta fretta un festino nella piazzetta a cui presero parte
tutti i contadini; di solito quel tipo di celebrazioni si facevano solo al
termine della mietitura, ma vista l’eccezionalità dell’evento e l’abbondanza
del raccolto che stava per venire, per una volta era lecito ed ammesso
festeggiare due volte.
Mentre
tutti festeggiavano, alcuni bambini, dribblando l’attenzione degli adulti,
salirono sulla torre per godersi il panorama.
D’un
tratto, la loro attenzione fu attirata da una strana nuvola di polvere che si
sollevava sul sentiero diretto a sud e che sembrava avvicinarsi con grande
velocità al villaggio.
«Ehi
voi, che fate lassù?» domandò Iguro, accortosi di
loro «Scendete subito, è pericoloso.»
«Abbiamo
visto qualcosa.» disse una bambina.
Dapprincipio
il ragazzo pensò che stessero solo fingendo, giusto per avere la scusa per
restare un altro po’, ma poi, data la loro insistenza, salì a sua volta per controllare
se stessero dicendo la verità.
«Avete
ragione.» disse quando ebbe notato a sua volta la nuvola di polvere «C’è
qualcosa laggiù.»
«Che
cosa pensi che sia?» domandò il figlio del capo villaggio
«Non
lo so».
Poi,
però, qualcosa cominciò ad intravvedersi, e l’espressione di Iguro, da preoccupata, si fece terrorizzata.
«Mio
Dio.» mugugnò, quindi si sporse dal parapetto «Samurai! Arrivano dal sentiero a
sud! Vengono verso di noi!».
Gli
uomini che Iguro aveva visto arrivare era la seconda
ondata dell’esercito di Nobunaga, quella destinata a
raggiungere Kyoto per cogliere di sorpresa i Miyoshi
e spodestare lo shogun.
Purtroppo,
non era affatto raro che un’armata di samurai sottopagati e malnutriti
decidesse di racimolare del bottino extra razziando ogni villaggio che aveva la
sfortuna di trovarsi lungo il loro cammino, ed era esattamente questo che gli
uomini di Nobunaga si stavano preparando a fare, con
grande divertimento e soddisfazione da parte di Ashikaga,
che dall’alto del suo cavallo in cima ad un piccolo crinale osservava ridacchiando
i soldati lanciarsi contro lo sfortunato villaggio urlando e sfoderando le
armi.
Bassetto
e minuto, aveva un aspetto orribile, un volto aguzzo e sgraziato contornato da
due piccoli occhi neri e che ben si portava ad ospitare su di sé un’espressione
sadica e malevola.
«Bruciate
tutto! Distruggete tutto! Vi autorizzo io! Radete al suolo! Bruciate! Non deve
restare niente!».
Poco
dopo lo raggiunse Nobunaga, il signore di Owari, il più potente daimyo del
Paese.
Contrariamente
a lui, era un uomo di bellissimo aspetto, alto e slanciato, con lungi capelli
neri raccolti alla maniera dei nobili d’alto rango, un accenno di barba tutto
intorno alla bocca e occhi scuri pieni di carisma.
Indossava
un’armatura strana, dalla foggia sia orientale che occidentale, completamente
nera, e sia il cavallo che montava sia la spada che aveva alla cintura, una
lama dritta e a doppio filo, erano un dono fattogli da alcuni missionari
occidentali per la generosità e la magnanimità dimostrate nei loro confronti;
alla cintura aveva anche una pistola, un bello schioppo portoghese di legno e
ottone con il cane alzato e pronto al fuoco.
«Non
abbiamo tempo per saccheggi e razzie, amico mio.» disse calmo
«Questo
villaggio è da sempre una tana infetta di serpi Miyoshi.
Era da tempo che desideravo estirparlo, ma non riuscivo mai a trovare l’entrata
di questa maledetta valle.
Ma
ora, grazie a te e ai tuoi esploratori, finalmente ci sono riuscito, e ora mi godrò
appieno la sua distruzione».
La
campana, che avrebbe dovuto scandire da lì in avanti momenti festosi, venne
invece suonata per informare tutti dell’arrivo dell’attaccato.
Purtroppo,
si rivelò un gesto inutile; prima ancora che gli abitanti potessero anche solo
rendersi conto di quello che stava per succedere, i soldati si abbatterono sul
villaggio come un’onda gigantesca su di un porticciolo.
I
più piccoli, soprattutto bambini, vennero travolti dalla carica, e molti di
quelli che scappavano si trasformarono in bersagli mobili per gli arcieri a
cavallo. Tutto ciò che si muoveva veniva attaccato, e a nulla valsero i
tentativi di alcuni di opporre resistenza armati di forconi e altri attrezzi
contadini.
Quando
arrivò l’ondata Iguro non era ancora sceso dalla
torre, che privata di tre dei suoi quattro cavi di sostegno presto crollò,
vanificando il lavoro di un’intera mattinata. Il ragazzo riuscì a saltare giù
all’ultimo momento, cadendo sul tetto di una casa vicina e sfondandolo, ma
finendo in questo modo a tu per tu con un soldato che stava saccheggiando la
casa. Questi tentò di infilzarlo mentre era ancora a terra, ma fulmineo Iguro si alzò e con un calcio allontanò il samurai,
rubandogli la naginata rimasta conficcata nel tatami,
quindi quello sguainò la spada.
Iguro come soldato aveva pochissima esperienza, e
praticamente nessuna nell’arte della naginata, o
comunque della lancia.
Eppure,
ciò nonostante, come prese in mano l’arma il ragazzo si sentì pervaso da una
strana euforia, e il tempo per un istante sembrò quasi fermarsi, per poi
ricominciare a scorrere come al rallentatore.
Il
samurai avanzò, urlando e brandendo la spada, ma senza difficoltà Iguro lo evitò, girò su sé stesso e con un fendente preciso
al millimetro gli squarciò in un sol colpo armatura e torace, lasciandolo senza
vita e in un lago di sangue.
Per
un attimo il ragazzo non riuscì a rendersi conto di quello che aveva appena
fatto, ma poi quella foga nuovamente lo pervase, e uscito all’esterno
ricominciò a combattere usando la spada sottratta al nemico appena ucciso.
Nel
mentre Takemura, rientrato in casa, scardinata una
trave del pavimento aveva rivelato un vano segreto contenente la sua katana,
tutto ciò che gli restava della sua vita passatala, e sguainatala si era
lanciato in quella che sapeva sarebbe stata la sua ultima battaglia.
Seppur
vecchio e zoppicante, la sua abilità era ancora quella di un guerriero nel
fiore degli anni, e quando cominciò a mozzare braccia e a tagliare gole la sua
bravura si rivelò tale che presto gli Oda si rivelarono timorosi di
affrontarlo.
Poco
distante, Iguro, ancora pervaso da quella foga
indescrivibile, continuava a combatte come un leone; i suoi movimenti erano
fluidi, armoniosi, impossibili da attribuire ad un principiante o ad un
contadino.
Tre
samurai gli si fecero incontro tutti insieme, armati rispettivamente di una naginata, una katana e una lancia. Iguro
uccise quello con la naginata con un preciso fendente
alla gola, schivò quello con la lancia atterrandolo con un calcio, scambiò un
paio di colpi con lo spadaccino quindi, schivato un secondo colpo di lancia,
affettata l’arma la ruppe in due con un solo colpo, decapitò di netto il
lanciere quindi, disarmato con la spada lo spadaccino, lo trafisse in pieno
petto con la punta di lancia.
Alzato
lo sguardo, vide, dall’altra parte dello spiazzo, suo padre, ancora intento a
battersi contro una marea di nemici.
Purtroppo,
a vederlo era stato anche Ashikaga, che riconosciuto
in lui il fedelissimo dei Rokkaku che tante volte gli
avevano messo i bastoni tra le ruote, strappato l’arco ad un soldato, e ancora
in sella al suo cavallo, aspettò che gli desse la schiena per poi colpirlo da
lontano con una scoccata precisa che lo trafisse alla spalla sinistra.
Atterrito,
Iguro lo vide tendersi allo spasimo, con lo occhi spalancati
e la schiena piegata spaventosamente all’indietro, per poi sputare un rivolo di
sangue ed accasciarsi infine a terra apparentemente morto.
«Padre!»
gridò correndo verso di lui.
Forse
fu colpa della rabbia, forse della disperazione, fatto sta che quella lucida ed
incomprensibile efficienza che lo aveva guidato fino a quel momento, come era
comparsa, sembrò scomparire, facendolo tornare il ragazzino inesperto e
impreparato di sempre.
Un
gruppetto di nemici gli sbarrarono la strada, ma lui, incapace di opporsi a
loro con la stessa, infallibile precisione di poco prima si ritrovò a mulinare
la spada come un viaggiatore farebbe con il suo bastone per respingere un
branco di lupi.
I
soldati tennero per un momento le distanze, poi uno di loro si fece avanti ferì
il ragazzo di striscio ad un fianco.
La
rabbia si rivelò più forte del dolore, ma a quella ferita se ne aggiunse presto
un’altra, e un’altra, e un’altra ancora; tutte superficiali, ma non per questo
poco dolorose.
Quando
Nobunaga arrivò in mezzo a quanto restava del
villaggio, ormai quasi completamente dato alle fiamme, Iguro
era ancora lì, solo contro il mondo, incurante del sangue e della fatica a
gridare e ad agitare la spada, mentre i samurai tutto intorno a lui sembravano
ridersela divertiti, aspettando solo l’occasione migliore per mettere fine ai
giochi.
A
prima vista poteva sembrare uno come tanti altri, uno di quei contadini
disperati come ne aveva visti tanti, aggrappati alla vita con le unghie e con i
denti sorretti soltanto dalla disperazione.
Eppure,
qualcosa di lui lo colpì.
C’era
qualche cosa di strano nei suoi occhi; la sua non sembrava disperazione. E poi
quei lineamenti, così occidentali. Per lui i barbari d’oltreoceano erano tutti
uguali, ma quello aveva qualcosa di famigliare.
Ciò
nonostante, sfoderata la pistola, gliela puntò contro e, come lo vide guardare
verso di lui, gli sparò.
Iguro udì un dolore fortissimo al fianco destro, come se
mille spade insieme lo avessero trafitto nello stesso punto, mentre l’odore
acre della polvere da sparo si diffondeva tutto intorno assieme al fumo
prodotto dallo scoppio.
Il
ragazzo, attonito, cadde dapprima in ginocchio; tentò di respirare, ma il
respiro gli rimaneva strozzato in gola. Quindi, dopo aver tentato un’ultima,
disperata resistenza, si accasciò nel fango e nel sangue.
Uno
dei samurai si avvicinò per finirlo.
«Lasciatelo
lì!» comandò Nobunaga riponendo la pistola «Ormai è
già morto».
Ashikaga si avvicinò invece a Takemura,
ancora vivo ma agonizzante, riverso sul petto ai piedi del muretto di una casa.
Con un calcio lo girò, e come Takemura lo guardò
negli occhi con quello sguardo sofferente ma fiero, Ashikaga
rise.
«È
davvero un piacere vederti così, amico mio.»
«Cane
schifoso. Non hai un briciolo di onore.»
«E
tu allora? A fare il contadino?»
«Quanto
hai valutato… la tua dignità…
quando l’hai venduta agli Oda?».
Yoshiaki gli mollò un nuovo calcio, stavolta al mento,
quindi sguainò la spada.
«Porta
i miei saluti al tuo signore.» disse prima di infilzarlo.
In
un estremo atto di sadismo, non colpì un punto vitale; voleva godersi la morte
di uno dei suoi più agguerriti nemici un po’ per volta. Tuttavia, per quanto
rigirasse e muovesse la lama, le urla di Takemura
erano molto più contenute di quelle che avrebbe voluto, e alla fine,
spazientito, gli inflisse il colpo di grazia trapassandogli il cuore.
Iguro, che era ancora cosciente, assistette impotente all’intera
scena, mugugnando di lasciare in pace suo padre mentre le lacrime gli rigavano
il volto, poi una stanchezza senza fine lo pervase, e tutto divenne nero.
Nota dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Vi
ricordate di me?
Ma
soprattutto, vi ricordate di questa fanfic? Era da un
sacco di tempo che non l’aggiornavo, questo nonostante continuassi a promettere
a cartaccia bianca e a me stesso di farlo.
Ma
ora è successo un fatto importante.
Mi
sono laureato! E con la fine dell’università, sono tornato padrone del mio
tempo, e la prima cosa che ho voluto fare è stato riprendere in mano questa fan
fiction, che all’epoca aveva, ed ha ancora oggi, una grande importanza per me.
Un
altro motivo per il quale ho voluto riprenderla in mano è lo scarso interesse
(per non dire nullo) riservato all’altra fanfic che
avevo da poco iniziato su AC, quindi ho deciso di riprendere questa per vedere
se avrà maggior fortuna.
Questo
capitolo è breve, molto più breve dei miei standard abituali, ma perora non
riesco a scrivere di più. Sono troppo stanco.
Ringrazio
Cartacciabianca, Miss Revenge,
Renault e Kimi per le loro
recensioni
Grazie
di tutto!^_^
Infine,
una notizia.
Questa
fan fiction, approssimativamente di una ventina di capitoli, avrà un seguito, Assassin’s Creed 2.5 –
Parte Seconda – Le Memorie di Sekigahara, che
invece dovrebbe aggirarsi sui dodici capitoli.
A
presto!^_^
Carlos
Olivera