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Autore: 365feelings    16/06/2011    0 recensioni
La voce era uscita squillante, viva, sfuggendo da quelle labbra arricciate in un irriverente sorriso, così luminoso, così bello. Aveva solo undici anni, ma già appariva affascinante. Poteva scompigliare quanto voleva i capelli - una zazzera corvina senza un taglio preciso -, poteva indossare tutti gli abiti più smessi che trovava in circolazione, poteva ghignare malandrino e fare lo sbruffone, ma era inutile: quell’innata eleganza, che lo accompagnava in ogni movimento, lo distingueva da tutti quei ragazzi, che come lui provavano a ribellarsi alla famiglia, facendolo risplendere come una stella nera, dal fascino oscuro e decadente.
E ora Sirius Black aveva bisogno di coetanei, di compagni, ora che stava finalmente evadendo dal carcere della sua casa, aveva bisogno di amici.
Perché la felicità è reale solo quando condivisa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: I Malandrini, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Nick name: KumaCla (Amaranth93)
Titolo: Di improvvisa felicità, conquistata libertà e nuovi amici
Prompt: Felicità
Genere: Generale, Slice of life, Introspettivo
Avvertimenti: MissingMoment, OneShot
N/A: Sto cercando la vita che potrei non trovare mai.”, frase tratta da Memories of a Blck Star, una mia raccolta di drabble; la storia è la continuazione, se così posso chiamarla, della prima drabble (“Evadere”). Per comprendere la seguente fic non è indispensabile aver letto la raccolta, è solo a titolo informativo, se vi andasse di passare, però, ne sarei davvero felice. Perché la felicità è reale solo quando condivisa.”, citazione del film Into the Wild.
Questa storia partecipa al
>Contest A Lover Without a Home di ClaireTheSnitch ed è in attesa del risultato.

 

Di improvvisa felicità, conquistata libertà e nuovi amici




Non c’era sua madre a salutarlo.
E per quanto potesse essere triste la cosa, ne era felice.
Voleva dimenticare la sua famiglia, la sua casa e tutto ciò che aveva a che fare con i maghi Purosangue.
«Sto cercando la vita che potrei non trovare mai.», aveva detto ad Andromeda, con un tono di voce serio e uno sguardo malinconico che proprio non gli si addicevano, prima di andarsene. Ma come aveva varcato la soglia di Grimmauld Place gli si era stampato sul volto quell’insolente ghigno che i suoi genitori non sopportavano, respirando a pieni polmoni l‘aria umida di Londra come se fosse la prima volta.
Tra la confusione generale che tanto caratterizzava il Binario Nove e Tre Quarti, guardò spazientito il suo elfo domestico caricare il baule e poi salì sul treno, con la fretta mal celata nei movimenti.

Prese posto in uno scompartimento vuoto e vi si sistemò, appoggiando gli anfibi infangati sul sedile davanti a lui e scivolando con la schiena lungo lo schienale. Una scintilla di felicità per quella inusuale libertà di movimento gli illuminò gli occhi.
Era troppo presto per dire che i lineamenti severi di sua madre stessero già svanendo dalla sua memoria, però, stando seduto lì - su quel sedile, su quel treno, diretto a quel castello - gli sembrava che l’ombra scura della sua famiglia si fosse affievolita, destinata a scomparire.
Perché lo sguardo di Walburga non avrebbe potuto raggiungerlo, là dove stava andando. Quello sguardo, duro e freddo, sempre accusatorio e sprezzante, tagliente come una lama, capace di farlo sentire fuori luogo e sbagliato in ogni momento - quando di sbagliato c’erano solo lei, la sua famiglia e il loro modo di pensare - sarebbe diventato solo un brutto ricordo.
Sentì il treno sbuffare e l’adrenalina corse rapida lungo tutto il suo corpo: se ne stava andando, non riusciva a crederci.
Schiacciò il volto sul finestrino, stampando sul vetro appannato la sagoma della sua faccia, e guardò con crescente euforia la banchina allontanarsi.
Poco contava che stesse andando a scuola: si ripromise che da quel momento in poi avrebbe fatto tutto ciò che prima gli era vietato, anche le cose più futili, come ad esempio appoggiare i piedi sui sedili.
Un rumore lo distolse dai suoi pensieri, catturando la sua attenzione: c’erano tre ragazzi in piedi, vicino alla porta dello scompartimento.
«È libero?», chiese un ragazzino dalla scompigliata zazzera corvina e occhiali dalla montatura rotonda. A dispetto dall’apparenza - occhiali dalla montatura rotonda! -, capì subito che si trattava di un tipo in gamba, che sapeva il fatto suo, con abbastanza carisma da riuscire a rubargli l’attenzione. Forse era il portamento deciso e un po’ scanzonato o forse la luce che brillava negli occhi.
L’altro suo coetaneo era alto e magro, tanto che era lecito chiedersi se mangiasse abbastanza; in realtà erano i vestiti, di qualche taglia più grande, smessi e rattoppati qua e là, a renderlo più magro di quanto non fosse. Sembrava il tipico secchione dalle umili origini, che gli insegnanti fanno passare per genio. Tuttavia, osservandolo meglio, ci si rendeva conto che quell’apparenza nascondeva davvero un buon cervello, lo si capiva dagli occhi, dalla loro scintilla vitale.
Infine c’era il terzo ragazzo, un concentrato di ansia e febbrile preoccupazione in poco più di un metro e cinquanta. Era paffuto e aveva due rubiconde gote che facevano presagire a una corporatura robusta. Nonostante l’apparenza, guardando a fondo, in quegli occhietti acquosi e sfuggenti, c’era un animo buono e tranquillo.
Timoroso, certo, ma buono.

Erano tre ragazzi - quattro contando anche se stesso - totalmente diversi gli uni dagli altri. Probabilmente, neanche a farlo apposta, qualcuno sarebbe riuscito a riunire elementi così dissimili.
Quindi cosa fare, che dire? Sì, no, fare finta di non aver sentito. Quale delle tre?
Allora non lo sapeva - non poteva saperlo -, ma quella risposta avrebbe segnato non solo la sua vita, ma anche la loro e certamente - più o meno direttamente - quella di tutti gli altri ragazzi sul treno.
«Sì.»
La voce era uscita squillante, viva, sfuggendo da quelle labbra arricciate in un irriverente sorriso, così luminoso, così bello. Aveva solo undici anni, ma già appariva affascinante. Poteva scompigliare quanto voleva i capelli - una zazzera corvina senza un taglio preciso -, poteva indossare tutti gli abiti più smessi che trovava in circolazione, poteva ghignare malandrino e fare lo sbruffone, ma era inutile: quell’innata eleganza, che lo accompagnava in ogni movimento, lo distingueva da tutti quei ragazzi, che come lui provavano a ribellarsi alla famiglia, facendolo risplendere come una stella nera, dal fascino oscuro e decadente.
E ora Sirius Black aveva bisogno di coetanei, di compagni, ora che stava finalmente evadendo dal carcere della sua casa, aveva bisogno di amici.
Perché la felicità è reale solo quando condivisa.
I tre presero posto nello scompartimento portando una fresca ventata di allegria, mentre la stazione diventava solo un puntino scuro in lontananza e poi neanche più quello, inghiottito dal verde della brughiera inglese.
«Io entrerò a Grifondoro.», ruppe improvvisamente il silenzio il ragazzo con gli occhiali, dopo essersi seduto davanti a lui, e dando via a una spensierata chiacchierata che non si sarebbe interrotta neanche una volta giunti a Hogwarts.

 
   
 
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