Caro Andrè,
oramai vivo di ricordi, isolata da tutto e da tutti.
Ripenso spesso al tempo passato trascorso con te, quando la sera, stanchi, ci sedevamo uno di fronte all’altra, osservando le tenebre calare pian piano sul tramonto, quando la luna diventava padrona del celo. I suoi raggi attraversavano le grandi vetrate del salone, illuminando i tuoi verdi occhi.
Rimanevo lì, a guardare di nascosto quegli occhi stanchi nella penombra che si perdevano nel nulla, e tentavo di immaginare a cosa stessi pensando.
Avrei voluto chiederti cosa ti rendeva tanto malinconico e silenzioso, ma avvertivo una strana paura al solo pensiero che avresti voltato quegli occhi nei miei.
Avevo paura di quanta tenerezza avrei potuto scoprire in quello sguardo.
Ricordi? Tutto intorno a noi era silenzio, quasi a rafforzare quell’intesa.
Quando ecco che ti volgevi verso di me. Quegli occhi mi parlavano, ma non riuscivo a capirti.
Che strana lotta da ingaggiare con se stessi: l’istinto mi obbligava a sfuggire quello sguardo, ma il desiderio di comprenderti era molto più forte.
Sapevo cosa avrebbero provocato in me quegli occhi, eppure quasi lo desideravo.
Ad un tratto la tua calda e bassa voce si diffondeva nella stanza, rompendo quel silenzio di cui entrambi eravamo partecipi.
Ti alzavi ed io ti seguivo.
Aprivi la porta della stanza e ti voltavi verso di me, che ti ero dietro.
Ponevi la tua mano sulla mia spalla e mi sussurravi sottovoce: “Buonanotte, Oscar”, regalandomi uno dei tuoi dolci sorrisi.
In quell’istante non sapevo neppure io quanto avrei dato pur di sentire ancora quella mano sulla mia spalla. Mi trasmettevi tanto di quel calore che la stanza sembrava ad un tratto fredda.
Ora finalmente leggevo in quegli occhi il desiderio di stringermi tra le tue braccia.
Aspettavo in silenzio, ma la tua mano, sfiorando la mia, si allontanava.
Te ne andavi.
Mi accorgevo di amarti.