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Autore: AliceInHeartland    18/06/2011    3 recensioni
Dopo la vita, vi sono i ricordi.
E grazie ai ricordi, si può tornare a vivere.
Posso tornare con la mente a quando eri con me...
Lo ricordo ancora benissimo, quel giorno, la mia promessa che tu, forse per tenermi contenta, o forse anche per gioco, accettasti.
...
"Ah, Hikaru, sei stata bravissima. Hai raccolto tutti questi fiori" . La mamma mi sorrise,sedendosi elegantemente vicino il tavolino della stanza in cui ricevevamo gli ospiti.
"Che ne dici se li mettiamo nel portafiori?"
"No!" . La mia risposta fu decisa. E con eguale determinazione, mi voltai verso di te, porgendoti il mazzetto profumato di margherite e lavande.
"Voglio darli a Sou-nii! Perchè... Perchè io diventerò la tua sposa!"
Genere: Azione, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Ciao a tutte ragazze! ^-^
Ed eccomi di nuovo con un altro capitolo! Scritto in una sola notte e completato in 5 minuti XD Stavolta le pagine sono di meno (4 pagine in meno degli altri 2 capitoli). Non chiedetemi perchè non riesco a scrivere come una persona normale, un massimo di 10 pagine, perchè non saprei rispondervi >.<
Passando al capitolo in questione: finalmente la nostra eroina re-incontra il suo adorato Sou-nii, che, a quanto pare, le riserva un trattamento non proprio ideale per una "sposa" XD
Tuttavia, prima di lui fa la conoscenza di una certa persona che credo tutte capirete appena la incontrerete durante la lettura XD
E' ancora un capitolo d'introduzione alla storia vera e propria, ma con questo si apre il vero e proprio sipario!
Che si dia inizio alle danze >.< Yuppiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii! XD
                                                                ****


Nonostante avessi sempre avuto un cattivo rapporto con mio padre… O, meglio dire, non avessi alcun rapporto con mio padre, avevo fiducia almeno in lei. In mia madre.
Avevo sempre saputo che lo amava. E, nonostante non riuscissi a comprendere in alcun modo i suoi sentimenti, me ne ero fatta anche una ragione.
Ma constatare che, pur di difendere lui, era pronta a mettersi contro il mondo intero, inclusa me, mi spezzò letteralmente il cuore.
Quella notte ero totalmente accecata dall’odio e dal dolore. E, con molta probabilità, se le tenebre in quel momento mi avessero inghiottita, non me ne sarei resa conto.
No… Forse non me ne sarebbe neanche importato.

Autunno. Notte tra 19 e 20 Ottobre, 1866. Kyoto.

Il freddo del vento d’autunno era pungente. Non perché fosse realmente insopportabile, ma perché portava con sé l’avviso che presto ne sarebbe arrivato uno ancora peggiore.
E’ come quando qualcuno ti avverte che sta per arrivare una ineluttabile catastrofe: non fai che logorarti dentro, sperando che non giunga mai, ma vanamente, perché in realtà già sai cosa t’attende. E, in segreto, non fai altro che aspettare la catastrofe incombente, in silenzio.
Camminavo come uno di quei fantasmi di cui si racconta ai bambini, leggendo loro alcune storie legate a leggende del passato.
Camminavo se così si può dire… In realtà non facevo altro che vagare senza una precisa meta.
Iniziò a piovigginare. Le gocce d’acqua erano sottili e quasi impercettibili. Solo poco dopo iniziò la pioggia vera e propria.
Tutte le persone che incrociavo per la strada incominciarono a correre per ripararsi dall’acqua che cadeva imperterrita.
Solo io rimanevo calma, continuando il mio percorso senza meta col capo chino e scalza, dato che, per la fretta di andarmene da quella casa, non mi ero neanche preoccupata di infilarmi gli zoccoli.
A pensarci ora, dovevo sembrare alquanto inquietante… Una bambola che camminava. O, molto più semplicemente, una povera disperata.
Wow… Certo che Kyoto è davvero grande…
Pensai, priva di ogni entusiasmo. Di solito, un’affermazione di quel tipo, fatta da me, sarebbe stata piena di esaltazione ed eccitazione, ma non ero proprio del morale per guardare con occhi diversi quella città.
In quel momento… No… Più precisamente da quando ero entrata nella residenza Fujiwara mi ero completamente dimenticata di te.
E dire che quando mia madre mi aveva riferito che saremmo andati a Kyoto, il mio primo pensiero è stato quello di poterti rincontrare… Ma, durante quella notte, non una sola volta la voglia di rivederti riaffiorò.
Riuscivo soltanto a pensare a cose negative e a quelle persone che mi avevano ferita. Speravo inutilmente che la pioggia mi aiutasse a dimenticare, o a stare meglio. Solo per un attimo, pregai il cielo che quella tempesta divenisse così forte da trascinarmi via… lontano.
Sì, perché anche i tuoni erano apparsi nel cielo buio. Erano pochi, certo, ma comunque c’erano.
Da quanto stavo camminando? Da minuti? Forse da ore? Non lo sapevo, ma non aveva importanza. Avrei camminato quanto bastava per andarmene da lì.
Purtroppo, però, i miei piedi non erano dello stesso avviso.
Anche se io non tenevo conto del tempo che era passato, ormai ad ogni passo che facevo, oltre che le impronte sul terreno fangoso, lasciavo anche il mio sangue. Questo perché, sicuramente, camminare senza scarpe su una terra ruvida qual’era quella, non avrebbe di certo giovato alla salute dei miei piedi che, senza che me ne accorgessi, si erano riempiti di ferite e lividi.
Ma non sentii dolore. O almeno non fin quando, dopo l’ennesimo passo, fatto di sforzo, non caddi in ginocchio e gli occhi si posarono sui miei arti inferiori.
“Oh… Mi sono fatta male ai piedi…” mi dissi, con tono atono. Quasi come se non facesse alcuna differenza. Perché non faceva alcuna differenza.
“Eh eh… Fa… Fa un po’ male…” constatai con un sorriso forzato sul volto.
“Ora… Ora sì che sono in un bel guaio…” . La mia voce era tremante, ciò nonostante continuavo a sorridere, mentre parlavo.
Non c’era nessuno in giro. Ero sola. Quindi nessuno poteva sentirmi.
Beh, suppongo che il resto dei cittadini, una volta iniziato a piovere, ragionevolmente, si fosse ritirato nelle proprie dimore.
Eravamo solo io, la pioggia e il suono che essa emetteva mentre cadeva vertiginosa.
“Fo… Forse sarà meglio ripararsi un po’ dalla pioggia…” mi decisi, mentre cercavo di rimettermi in piedi. “O… mi prenderò un malanno…” .
Appoggiai il piede desto per terra, cercando di fare forza su quello per rialzarmi. Finalmente vi riuscii dopo non pochi sforzi.
Ma quando pensai di poter finalmente tornare a camminare, dopo il primo passo, fatto di scatto, caddi nuovamente e, questa volta, interamente a terra.
La faccia era a contatto col fango e vi rimase per un po’, finché, raccolte le poche forze che avevo nelle braccia, mi rimisi seduta.
Ero sporca sul viso e sui capelli, ma non solo.
Il mio sguardo cadde sul kimono che indossavo. Era bellissimo: rosso con tante fantasie floreali e con delle farfalle di un brillante color dorato.  L’obi, poi, era di un porpora acceso, che ricordava tanto le foglie autunnali cadenti dai rami degli alberi ormai quasi del tutto spogli.
Ma… anche se bellissimo, quei fiori e quelle farfalle dorate erano ormai indistinguibili. Macchiati. Sporchi. Rotti.
Il bellissimo kimono regalatomi da mia madre quella stessa mattina, in occasione della nostra visita a Kyoto, era rovinato. La pioggia lo aveva inumidito troppo e, non appena  caduta, proprio a causa della sua persa consistenza si era subito strappato e macchiato.
Lo guardai inerme, con aria mista tra lo stupore e la tristezza.
Una tristezza mascherata sotto quel sorriso che ancora mi apprestavo a mostrare  a me stessa.
“Si è… rovinato…” sussurrai pian piano. “Si è… completamente… rovinato”.
Non resistetti più. Tremante e singhiozzante, incominciai a piangere, senza ritegno.
D’altronde ero sola. Non c’era nessuno da cui mi dovevo nascondere o di fronte al quale dovevo mantenermi composta ed educata.
Potevo dar finalmente sfogo alla mia tristezza e alla malinconia che mi attanagliavano in quel momento.
“Il… Il kimono che mi… mi ha regalato… l-la mamma…” farfugliai, ancora in preda ai pianti più sfrenati e ai singhiozzi che non mi permettevano di proseguire la frase in maniera lineare. “E’… E’… E’ completamente rovinato…”.
Apparentemente poteva sembrare che fosse quella la ragione per cui stavo così male ed ero arrivata a piangere in modo così infantile (per cui anche una bambina avrebbe potuto ridere di me), in realtà, però, non era per il kimono in sé e per sé, ma per ciò che esso simboleggiava.
Proprio quella stessa mattina, mentre percorrevamo la strada che ci avrebbe portato alla residenza Fujiwara, ero rimasta indietro come al solito e accortamene, dato che la gente era molta, iniziai ad andare alla ricerca di mia madre. Inizialmente non riuscii a trovarla, tanto che stavo quasi per andare in panico, ma subito dopo la intravidi ferma, vicino il ciglio della strada. Tuttavia lei non si era fermata per aspettare me, bensì perché era intenta a fissare la stoffa di un kimono che il proprietario del negozio le stava facendo esaminare.
Una volta che l’ebbi raggiunta, mia madre si era voltata verso di me e con aria esultante mi aveva domandato: “Ah, ecco dov’eri, Hikaru! Allora, che ne pensi? Ti piace questa stoffa?”.
“Oh…” . Dopo che gli ebbi dato una breve occhiata, che mi era bastata per capire quanto era bella e quanto dovesse essere costosa e pregiata, mi ero rivolta a lei: “Sì. E’ davvero bellissima”.
“Già! L’ho pensato anche io!” . Detto ciò, era tornata a prestare attenzione al commerciante. “Allora è deciso. La prendo. Potrebbe confezionarlo per me?”.
Cosa?
“Oh, non dovete preoccuparvi, mia signora. Un paio di giorni fa ho confezionato un kimono proprio utilizzando questa stoffa e dovrebbe essere circa della misura della ragazza”.
“Ma davvero? Che fortuna. Allora lo prenderò subito. Vi ringrazio molto”.
Come sarebbe a dire?
“Ehi, oka-san, aspetta un secondo! Lo stai comperando?”
“No, Hikaru. L’ho già comperato”.
“Ma… Hai idea di quanto costerà? Quello è un tessuto pregiatissimo! Basta anche soltanto guardarlo per capirlo!”
“Non ha importanza”
“Ma…”
“Hikaru, non preoccuparti” mi aveva interrotto, sorridendomi gioiosamente. “E’ un regalo che voglio farti con tutto il cuore, perché, non appena l’ho intravisto nel negozio, te l’ho subito immaginato addosso e… ho pensato a quanto saresti stata splendida. Quindi, per favore, accettalo, va bene?”.
Dopo aver sentito quelle parole, accompagnate dal suo sorriso smagliante, mi era venuta quasi voglia di piangere. Ero stata felicissima di ricevere quel regalo e soprattutto ero stata felice della gioia con cui me ne aveva fatto dono.
Per me aveva significato tantissimo. Era stata come una dichiarazione d’amore materno che sarebbe durata in eterno, qualunque cosa sarebbe successa.
Ed ora quel rapporto che quella mattina mi era sembrato tanto idilliaco, tanto impenetrabile, quel legame così indistruttibile era macchiato, logorato, proprio come quel kimono.
E ora che cosa farò?
Non potetti fare a meno di chiedermi.
Non posso tornare da lei… da loro… Non riuscirei neanche a guardarla in faccia. Ma dove posso andare?
Fino a quel momento l’idea di che cosa sarebbe successo, dopo quella scenata e dopo tutto il corso degli eventi, non mi aveva neanche lontanamente sfiorato il pensiero. Solo quando avevo iniziato a riacquistare quel minimo di lucidità mentale, mi accorsi del gran problema.
Anche se non voglio tornare in quella casa… Che cosa posso fare da sola?Sono fradicia e lurida… Non ho un posto dove andare, i piedi mi fanno male e… gli occhi mi bruciano…
Solo in quell’attimo mi resi conto che la situazione non era sostenibile.
Mi ero arrabbiata e avevo agito d’impulso, ma concretamente parlando per me era impossibile vivere come una vagabonda e allontanarmi dalla famiglia che mi aveva cresciuta in un bozzolo, legandomi indissolubilmente ad esso.
Io, una povera ragazza di famiglia, cresciuta ed educata comodamente in una casa, iniziare a vivere con le mie forze, dall’oggi al domani?
Come avrei potuto farlo? Anche se c’era tutta la volontà di questo mondo e quell’altro, era non solo irrealizzabile, ma anche impensabile.
Quindi mi tocca… tornare, alla fine? Dovrei tornare supplicante da loro, come un cane che abbaia, morde, ma alla fine rimane pur sempre un cane che segue il padrone?
Non ci sto… Non posso… Non voglio che pensino questo…
Pensai tra me e me, ancora con le lacrime agli occhi.
Voglio che capiscano come mi sono sentita… Voglio che comprendano il mio dolore…
Se tornassi da loro, sarebbe come ammettere che hanno ragione, come soggiogare gli ideali per cui mi sono tanto fatta valere in quella stanza.
Sarebbe come se, per finire, mi tradissi da sola.
E questo proprio non potrei sopportarlo…
Non… posso…
Ma il mio pensiero dovette interrompersi lì, perché, ad un tratto, sentii dei passi avvicinarsi accompagnati da delle voci altisonanti.
Inizialmente, un po’ perplessa, mi voltai alle mie spalle per capire di chi potesse trattarsi.
Forse erano contadini? Molto probabilmente erano ai campi e, avendo visto la pioggia, avevano deciso di ritirarsi? O forse erano dei viandanti? O, ancora, poteva trattarsi di alcuni commercianti stranieri, venuti qui per trovare alloggio in qualche locanda, in attesa del guadagno che li aspettava il giorno seguente?
Non ne avevo idea, ma speravo che quelle persone potessero essermi d’aiuto. Se non altro, per lo meno per aiutarmi a rialzarmi e darmi qualcosa per potermi fasciare i piedi, in modo da camminare quel che bastava per arrivare da qualcuno che potesse curarmi.
E, soprattutto, speravo che mi aiutassero gratuitamente, perché, no, non avevo neanche una moneta per poter ripagare la loro eventuale gentilezza.
Finalmente tornai a sorridere gioiosa, pensando che, per una volta, la fortuna stava iniziando a girare dalla mia parte. Ma mi illusi troppo presto.
Poco dopo, quando i passi si fecero più vicini e le grida più acute, non mi ci volle, fortunatamente, molto per capire di chi si trattasse e che intenzioni avevano: erano una decina di uomini al servizio della casata Fujiwara (lo capii dallo stemma che portavano sul petto, all’altezza del cuore, inciso sui loro kimono ), a capo di cui si era messo mio padre.
Terrorizzata all’idea di farmi trovare da lui ed essere, caso mai, riportata in quella casa, senza ragionarci su per troppo tempo, iniziai a gattonare goffamente verso un piccolo e buio vicolo cieco, confinante col retro di una casa, sperando che lì non mi trovassero.
Ero cosciente del fatto che camminando ci avrei impiegato sicuramente di meno, ma con i piedi che mi ritrovavo, sarei caduta immediatamente e, così, non solo avrei perso il triplo del tempo, ma avrei anche attirato la loro attenzione, facendomi scoprire in men che non si dica.
Dopo essermi accucciata silenziosamente dietro il muro del viottolo, mi assicurai di tapparmi la bocca con entrambe le mani, per evitare che un sussulto, o anche un sospiro fuori regola potesse contribuire al mio ritrovo.
“Okita-san, non ve ne sono tracce” sentii dire ad un uomo, rivolgendosi a mio padre. “Abbiamo chiesto anche a dei viandanti, ma nessuno sembra aver visto vostra figlia”.
“Non importa. Dobbiamo continuare a cercare” affermò mio padre, con tono rigido. “Non può essere andata lontano. E’ solo una ragazzina. Non v’è modo che possa essere uscita dalla città. Deve trovarsi necessariamente ancora a Kyoto”.
E così ne ebbi la conferma: stavano proprio cercando me.
Beh, non che non lo avessi pensato, ma… mio padre era pur sempre un comandante al servizio della famiglia Fujiwara. Poteva anche trattarsi di qualche missione da compiere. E poi non ero neanche sicura che a mio padre si curasse di me tanto da venirmi a cercare.
No… Non è perché ci tiene a me che è venuto a cercarmi…
E’ sicuramente perché lo vuole la mamma… Male come sta, quando si preoccupa troppo, ha sicuramente chiesto a lui di fare qualcosa… E forse ci si è messa anche la zia, ma… Sono sicura che, se fosse dipeso da lui, non si sarebbe neanche scomodato ad alzarsi in piedi.

“E se qualcuno l’avesse portata via con sé? E’ notte, d’altronde” intervenne un altro uomo. Vedere una ragazza in giro, di quell’età, senza nessuna scorta… Potrebbe essere stata scambiata per…”
“E di chi è la colpa?” lo interruppe la voce tuonante di mio padre. “Perché l’avete lasciata passare? Perché avete permesso ad una ragazzina di uscire fuori dall’abitazione, senza ricevere nessun ordine?!”
“Beh… Ecco…” cercò in qualche modo di riparare uno dei due probabili uomini che stavano a guardia del portone.
Un sospiro. “Beh, ora come ora non mi è di nessun tornaconto prendermela con voi. In questo momento l’importante è che la troviate. Avanti, muovetevi”.
“Sissignore!” risposero in coro, tutti quelli che lo seguivano.
“Dividetevi. Ogni singolo uomo deve perlustrare una zona diversa. In questo modo la scoverete prima. Non c’è necessità che siate in gruppo, o in coppia. In fondo non si tratta di combattere una battaglia, ma semplicemente di ritrovare una ragazza di poco più di tredici anni. ”.
“Abbiamo già perlustrato la zona sud-ovest, Okita-dono” lo informò un altro dei suoi uomini.
“Allora continuate da quella sud-est! Setacciate ogni angolo, vicolo o viale di questa città. Se sarà necessario, cercheremo anche nelle case. Okita Hikaru deve essere ritrovata. Ad ogni costo”.
“Sissignore” . Risposto ciò, sentii i passi dell’uomo allontanarsi.
Tuttavia non ero fuori pericolo, anzi… esattamente l’opposto.
Incominciai a sentire dei passi farsi vicini (non sapevo neanche se si trattava di quelli di mio padre, ma poco sarebbe cambiato se fossero stati semplicemente di qualcuno ai suoi ordini) e, da quanto ordinato, non c’era modo che non guardasse in quel vicolo dove si era nascosta lei.
I passi si fecero più vicini. Sentivo la presenza di qualcuno proprio dietro l’angolo.
Se non avessi fatto qualcosa, allora io…
“Ohiiii, Rikudo!” urla una voce proveniente da un punto più lontano. “Qui c’è un uomo che dice di aver visto da queste parti una ragazza scalza… Sei stato tu a farla passare dal portone, quindi sai di certo com’è fatta la figlia di Okita-dono, no? Vieni a vedere se la descrizione coincide”.
“Ah? Davvero? Sto arrivando…” rispose la voce dell’uomo che stava per scoprirmi.
Sospirai di sollievo, quasi in modo impercettibile, per non farmi sentire. In primo luogo, non mi aveva scoperta… Almeno per ora. E, in secondo luogo, non si trattava di mio padre. Il punto a mio sfavore, però, era che si trattava di colui che mi aveva vista scappare via, quindi mi avrebbe facilmente riconosciuta. O, per lo meno, più facilmente di qualche altro suo compagno.
Che cosa faccio, adesso?! Non potei fare a meno di chiedermi. Mi scoverà di sicuro! Se prima era intenzionato a venire da questa parte, sicuramente ci riproverà!
Ero nel panico. Non avevo la minima idea di come destreggiarmi in quella situazione.
Avevo anche pensato all’eventualità di muovermi e nascondermi da qualche altra parte, ma la cosa non era fattibile: primo, perché, date le condizioni in cui vigevano i miei piedi, avrei dovuto gattonare e ci avrei impiegato troppo tempo; secondo, perché, gattonando, avrei sicuramente fatto molto rumore e si sarebbero accorti di me prima ancora che potessi uscire dal vicolo dove mi ero appostata.
Mi sporsi un po’ per dare un’occhiata alla faccenda: qualche casa più in là (ma non poi tanto lontano da me), vi erano questi due uomini che prestavano servizio presso Fujiwara-san, intenti a discutere con un anziano signore, un contadino, mi sembrava.
Tuttavia l’”interrogatorio” non sarebbe durato poi così a lungo e presto sarebbe tornato a controllare… e allora sì che sarebbe stata la fine.
Se non faccio qualcosa… Se non faccio qualcosa, mi troveranno! Pensavo, mentre mi tenevo la testa tra le mani e singhiozzavo sommessamente. Mi troveranno e mi riporteranno in quel posto! Non voglio! Non voglio che succeda!

“La fortuna viene sempre a chi meno l’attende” . E’ un detto che si recita spesso ai bambini e quello che più facilmente s’impara. Nonostante l’assurdità di quel motto a cui io stessa non avevo mai creduto, dovetti ammettere che avevo torto. Davvero torto.

“Ehm… Ecco… Scusami, ma… Stai bene?” mi chiese, ad un tratto una voce flebile, davanti a me.
In un primo momento, dato lo stato di panico in cui mi trovavo, non riuscii a fare mente locale.  Il solo pensiero che mi passava per la testa era: “No… Mi hanno scoperta!”.
Fu così che alzai la testa di scatto sussultando rumorosamente, per guardare il mio persecutore.
O, per lo meno, quello che sarebbe dovuto esserlo…
Con mio grande stupore, però, mi accorsi che colui che avevo davanti non era uno degli uomini a seguito di mio padre, ma… un ragazzo. Un ragazzino, per l’esattezza.
Aveva un viso infantile, occhi grandi color nocciola, capelli castani raccolti in una piccola coda di cavallo e una corporatura così minuta da sembrare quasi una ragazza. Indossava un hakami di un candido color bianco, mentre la parte superiore del suo completo era di un rosa tendente al salmone. Portava al suo fianco una katana che, solo a giudicare dal fodero, doveva avere un gran valore e, di conseguenza, un gran costo.
Il ragazzo era inginocchiato di fronte a me e mi fissava con aria visibilmente preoccupata. “Cosa c’è che non va?” mi chiese nuovamente, scrutandomi dalla cima dei capelli fino ai piedi, ridotti in mal stato. Proprio concentrandosi su di questi, me li prese tra le mani, affermando: “Oh no! Ma sei ferita! Dobbiamo curarti subit…”
“No!” lo interruppi io, afferrandogli il braccio con violenza e stringendomi a lui.
Tuttavia la mia risposta fu parecchio altisonante, tanto che sentii chiaramente l’uomo di nome Rikudo affermare: “Ohi, io vado. Ho sentito qualcosa…”
Oh no, mi ha sentita! Devo fare qualcosa… Qualunque cosa!
Disperata, mi rivolsi al ragazzo che cercava disperatamente di capire cosa mi stesse succedendo: “Ti prego, devi aiutarmi!” sussurrai, piano, ma al tempo stesso supplicante. “Ti scongiuro… Nascondimi! Sta arrivando un uomo ora… Ti prego… Non lasciare che mi trovi!”.
“Cos…?” chiese il giovane, un po’ spaesato. “Ma… Io…”
“Ti supplico!” lo implorai singhiozzante, non sapendo a quale altra speranza aggrapparmi.
Evidentemente le mie preghiere furono convincenti, o lo fu il mio pianto, tanto che il ragazzo, con sguardo ormai privo di indecisione, annuì. “Stenditi per terra!”
“Come?”
“Fidati di me!”
Non obiettando più di tanto, feci come mi era stato detto e lui subito mi coprì con qualcosa che si stava portando dietro. Al contatto sembrava un tessuto abbastanza soffice e confortevole, ma non ebbi il tempo, né la testa per mettermi ad esaminarlo… L’importante era che riuscisse a non farmi trovare.
“Per favore, cerca di resistere un po’, va bene? Farò del mio meglio!” sentii dirmi da lui, prima di avvertire la voce di un altro uomo che affermava: “Chi va là? Esci fuori!”.
Eccolo! Era l’uomo di papà! E ora…?
Non potevo che aspettare e sperare che andasse tutto per il meglio…
“Vogliate scusarmi, signore, per averla spaventata, ma non credo di aver fatto nulla di male per meritarmi la vostra minaccia” cercò di riparare il mio giovane salvatore.
“Chi siete? E che cosa state facendo qui?”
“Io? Non sono che il giovane figlio di un povero commerciante di stoffe per kimono. Mio padre mi ha ordinato di andare a ritirare dei tessuti e, una volta fatto, mi sono appostato qui per esaminarli. Non vorrei di certo che fossero usurati”.
Silenzio. Poi un sospiro. “Senti, ragazzino, hai per caso visto una ragazza di circa la tua età? Forse è anche più piccola di te… Ha i capelli lunghi, di un castano scuro e gli occhi tendenti all’azzurro. Cammina scalza e ha un kimono rosso con ornamenti color d’oro”.
“Hm! Sì, l’ho vista” rispose con aria sicura, lui.
Fu allora che i battiti del mio cuore si fecero sempre più celeri. Spalancai gli occhi, incredula.
Voleva tradirmi? Voleva dirgli che ero lì? Ma… perché?
“E’ andata da quella parte”
“Da quella parte? Ma… è da dove provengo io!”
“Veramente, ora che me lo fate notare… vi è proprio passata accanto mentre parlavate con due uomini, un po’ più in là”.
Ma… Allora… Non mi ha tradita!
“Cosa? Ma… com’è possibile?! Non me ne sono neanche accorto!”
“Sembrava avere un’aria un po’ furtiva… Andava di fretta. Sembrava essere molto attenta a non farsi vedere. Camminava rasente agli angoli delle abitazioni”.
“Q… Quella mocciosa! Me l’ha fatta sotto il naso senza che me ne accorgessi! Oh, ma la prenderò! Anche a costo di cercarla tutta la notte!”. Detto ciò, sentii l’uomo fare una pausa, per poi rivolgersi nuovamente al ragazzo: “Grazie della collaborazione, ragazzino. Vedi di tornare subito a casa. Stanotte c’è troppa confusione, potresti restarne coinvolto”.
“Vi ringrazio molto del consiglio. Farò come avete detto”.
Silenzio.
Sentivo solo i passi dell’uomo che si allontanava correndo e dopo che furono passati anche quelli, nuovamente il silenzio.
“Via libera” mi avvisò la voce gentile del ragazzo che dopo essersi assicurato che di quel Rikudo non vi fosse più traccia, aveva sollevato la stoffa del tessuto che mi aveva avvolta sino ad allora. “Se n’è andato”. Il suo tono era dolce. Stava certamente cercando di rassicurarmi, con quel sorriso sulle labbra.
Io lo guardai in silenzio, per un attimo. Poi, neanche io sapendo perché, incominciai nuovamente a singhiozzare e caddi in un sonoro pianto.
“C-Che ti succede…?” mi domandò il giovane, un po’ spaventato e ancora preoccupato. “Se n’è andato adesso… Non c’è più pericolo. O ti fa male da qualche parte? Ah, giusto! I piedi…”
“Gr…az…ie!” risposi, tra le pause da un singhiozzo all’altro. “Grazie… Grazie davvero!”.
Tutta la paura, tutto il timore e le sensazioni negative che avevo dovuto trattenere sino ad allora, vennero a galla e si manifestarono in quella maniera tanto infantile che io volevo sempre nascondere, ma che in realtà svelavano ciò che ero realmente: poco più che una bambina.
Sentii la mano calda del ragazzo accarezzarmi il capo con dolcezza, cerando di consolarmi. “Hai avuto paura, non è vero? Ma non devi preoccuparti, adesso è passato tutto…”.
Rassicurata da quel tocco gentile, mi immersi tra le sue minute braccia, scordandomi per un attimo che fosse un maschio. Quasi come se fosse un fratello maggiore, o addirittura una sorella. Mi trasmetteva uno strano senso di sicurezza che solo una donna sarebbe stata in grado di offrirmi, ma… non mi feci problemi più di tanto.
Continuai a piangere a sfogare il mio dolore tra le braccia del mio salvatore.

Eravamo rimasti un bel po’ in quella posizione, prima che riuscissi a calmarmi e a farmi mente locale. Il giovane che mi aveva aiutata non mi aveva chiesto informazioni, o almeno, non fino a quel momento… Si era solo preoccupato di capire la situazione in cui mi trovavo.
Non fui molto specifica, mi limitai a rivelare quanto bastava per far fronte ai miei problemi: ero sola, non aveva un posto in cui andare ed ero ferita. Punto.
Lui, però, nonostante fossi rimasta sul vago, con un cordiale sorriso sulle labbra mi disse: “Non preoccuparti, ti aiuterò io. Ora come ora, però, non saprei proprio come fare. Beh, adesso pensiamo a come guarirti. In queste condizioni, non sei neanche in grado di camminare”.
Detto ciò, si tolse gli zoccoli che portava e me li porse.
“No… Non potrei mai usare i tuoi!” rifiutai. Non potevo accettare anche questo! Avrebbe significato approfittarsene, altrimenti.
“Avanti, indossali. Io sto bene. Non mi rovinerò i piedi per qualche metro. Se tu cammini senza, ancora una volta, invece, rischi di perderli seriamente”. Mi sorrise ancora una volta e mi incitò ad indossarli. “Avanti”.
Non volendo fare più storie, feci come mi aveva detto e mi rimisi in piedi con il suo aiuto.
“Voglio aiutarti, ma non so proprio come fare. Anche se ho una minima idea… Per ora, però, la cosa importante è medicare le tue ferite”.
Io annuii, mentre lo vidi assumere un’espressione un po’ preoccupata.
 “Sperando che gli altri lo accettino e non si arrabbino…”.
“Come…?” chiesi, un po’ spaesata.
“Eh? Ah, niente, niente. Non importa. Su, andiamo!” . Detto ciò, mi aggrappai con le mani al suo braccio, per riuscire a mantenermi in piedi, mentre camminavo.
Restammo in silenzio per circa dieci minuti, quando finalmente ebbi il coraggio di esordire: “Mi spiace… Scusami”
“Hm? Per cosa ti stai scusando?” mi chiese lui, perplesso.
“Ti stai prendendo tutto questo fastidio per me… Ti ho causato un sacco di problemi. Mi spiace… Mi spiace davvero”.
“Ah, ma non importa. Avevo notato che ti trovavi in difficoltà. In realtà non pensavo si trattasse di qualcuno che ti stava inseguendo. Più che altro, quando ti ho vista singhiozzante, rannicchiata in un vicolo, con la testa tra le mani, ho pensato che stessi male”.
“E sei stato tanto gentile da aiutarmi… Non saprò mai come ringraziarti abbastanza per questo…”.
“Ah, non preoccuparti” mi sorrise radiosamente. “Fortunatamente mi sono ritrovata quella stoffa per kimono regalatami da Osen-chan. Se non fosse stato per quella, non avrei saputo come aiutarti”.
Ricambiai il suo sorriso, altrettanto gioiosamente. “Allora ringrazia anche questa ragazza da parte mia. Oh, è vero…” . Feci mente locale. “Mi hai aiutata così tanto e non so neanche il tuo nome! Io sono Hikaru. Okita Hikaru”.
“Okita…?” sibilò lui, guardandomi con aria un po’ sorpresa.
“Hm?” . Gli rivolsi un’aria perplessa, inclinando leggermente il capo. “Si, perché? C’è qualcosa che non va?”
“No è che… qui a Kyoto c’è un famoso Okita…”
Oh… sì… Mio padre…
Quindi lo conosce… Beh, suppongo che, data la carica importante che ricopre, sia del tutto impossibile non riconoscerlo.
Nonostante questo, però, non volevo dirle che ero sua figlia. Mi avrebbe portato, in primo luogo, problemi. E poi… io non mi sentivo affatto sua figlia.
“Oh, davvero?” finsi di non sapere. “Beh, stai tranquillo. Non abbiamo nessun legame di parentela. Io non sono di qui”.
“Oh, vieni da fuori, allora?”
“Hm!” annuii con vigore. “Precisamente da Edo”. Poi feci per pensarci su: “Ah, comunque… Il tuo nome…”
“Ah… Giusto! Scusami! Io mi chiamo Ch…”
“Chizuru-chan” sentii ad un tratto provenire da lontano. Una voce… una voce familiare.
Il ragazzo si voltò alle sue spalle, quindi ne dedussi che quello doveva essere il suo nome.
Chizuru? Che strano nome per un ragazzo… Pensai spontaneamente, ma successivamente mi apprestai a notare da chi provenisse quella voce.
Era la figura di un uomo. Ma era in lontananza e col buio non riuscivo bene a distinguerla.
Istintivamente indietreggiai, ma Chizuru mi si rivolse con aria gentile e pacata. “Non preoccuparti. Non è qualcuno che vuole farti del male. E’un mio compagno”.
“Un tuo… compagno…?” chiesi, tentennante.
Lui annuì. “Fidati di me, d’accordo?”.
“Chizuru-chan, si può sapere che stai facendo?” continuò la voce dell’uomo che si stava avvicinando. Il suo timbro vocale però non era marcato. Sembrava più la voce di un ragazzo abbastanza grande che non di un adulto vero e proprio. E quel maledettissimo senso di familiarità non mi abbandonava, mentre la sua figura si avvicinava sempre più a noi. “ Hijikata-san si sta logorando il fegato per la preoccupazione, dato che per prendere un kimono da Osen-chan ci stavi mettendo così tanto… E quindi mi ha mandato a prenderti da brava balia”.
 “Oh, mi dispiace!” si scusò con aria mortificata lui. “E’ che ho avuto un contrattempo. Vedi… questa ragazza si trovava in difficoltà, e allora…”.
“Sempre ad intrometterti negli affari degli altri, vero? Non riesci proprio a continuare per la tua strada senza preoccuparti della gente che ti circonda”
“Però…”
“Scommetto che degli uomini la stavano importunando. Sai… è del tutto normale se una ragazzina come quella se ne va girando la notte tutta da sola e così mal conciata. Non ci vuole molto perché si pensi male di lei”.
La voce si avvicinò, così come colui a cui essa apparteneva. In poco tempo ci fu di fronte e la luce della luna me lo rivelò agli occhi.

Forse non fui mai tanto sorpresa come in quel momento. Ero sicura che se mi fossi specchiata, avrei visto un’espressione a dir poco incredula e spaesata, come se Kami-sama mi fosse apparso proprio davanti agli occhi, come in un sogno.
I capelli castani leggermente tendenti al rosso, legati in una delle tipiche acconciature dei militari giapponesi, gli occhi verde foglia, profondi e penetranti, capaci di scrutarti sin dentro l’anima, i lineamenti gentili del volto, un corpo che non riconoscevo più… ormai sviluppato e ben allenato. E, infine, quella tipica aria divertita e pacata che ti aveva caratterizzato da sempre.
Non importava quanto la situazione fosse tranquilla, o, viceversa, disperata, quel sorriso e quello sguardo impertinente e tipico di chi riesce sempre a restare sulle sue, qualunque cosa succeda, rimanevano sempre sul tuo volto.
No… Non è possibile… Non è possibile che sia lui…
“Hai preso proprio una brutta abitudine, sai, Chizuru-chan? Prima con Kaoru, poi con Osen-san… E ora con questa ragazzina. Ti diverti a fare il giustiziere mascherato?” le domandò, non trattenendo una serena e sonora risatina.
Persino il modo in cui ride mi ricorda lui…
Ma… come può essere…? Non è che mi sto facendo solo illusioni…?

“Oh, non è giusto! Non prendermi in giro così!” si ribellò il mio salvatore, con aria visibilmente offesa verso quel ragazzo. “Lo sai che non lo faccio di certo per divertirmi, Okita-san!”.
Spalanco gli occhi e la bocca rimane leggermente semi-aperta.
“Okita-san”…? Ha detto proprio “Okita-san”…? Ma… allora questo vuol dire…
Solo in quel momento mi ricordai tutto: era vero. Anche tu eri a Kyoto. E, anzi, eri il motivo fondamentale per cui avevo acconsentito al viaggio fino a questa città.
Quindi… questo stava a significare che… l’Okita famoso a cui si riferiva Chizuru non era mio padre, ma…
“Sou…ji?” sillabai, quasi senza voce per la sorpresa e l’emozione.
Ora, mentre Chizuru si voltò verso di me un po’ perplesso e meravigliato, sul tuo volto comparve segno di stupore, innanzitutto, che poi si tramutò in un’espressione di diffidenza e di sospetto.
“Cosa?” esordì, incredulo, Chizuru, che fece per avvicinarsi nuovamente a me. “Ma allora lo conosc…”
“Non ti muovere, Chizuru-chan” lo fermasti tu, per poi raggiungerlo e posizionarti davanti a lui, quasi come se volessi proteggerlo. La tua aria circospetta non lasciò mai il tuo volto, ma il tuo sguardo e il tuo sorriso sprezzante del pericolo non ti lasciarono neanche in quel momento.
“Okita…san?” . Il giovane ragazzo aveva uno sguardo perplesso e non riusciva a capire il perché della sua azione. E, a dire il vero, neanche io.
“Non ti avvicinare come se niente fosse a questa ragazza. Potrebbe essere pericoloso”.
Cosa?!
“Ma che stai dicendo, Okita-san? Perché dovrebbe essere pericoloso? Questa ragazza… Ah! Ma… ha pronunciato il tuo nome… La conosci?”
“Mai vista in vita mia” affermò, estraendo la katana dal fodero molto lentamente, per poi puntarmela contro.
Non voleva farmi del male (all’apparenza non sembrava), ma l’aria che lo avvolgeva era minacciosa e diffidente.
Rimasi ferita da quel gesto: come poteva, dopo tanto tempo che non ci vedevamo, puntarmi la katana contro? E perché sarei dovuta essere ritenuta pericolosa? Che cosa avevo fatto di male?
Ma… ha detto che non mi ha mai vista in vita sua, quindi… sono due le possibilità: o non mi aveva riconosciuta, oppure stava facendo finta di niente, Dio solo sa per quale motivo.
Speravo davvero si trattasse della prima opzione. E, comunque, nonostante stessi cercando di giustificarlo con quell’ipotesi, la sua azione nei miei confronti mi lasciò un amaro in bocca che non sarei riuscita a sputare così in fretta.
“Ma il fatto stesso che sappia il mio nome ed io non il suo, mi lascia alquanto pensare…”.
“Non vorrai mica dire che…?” cercò di leggere tra le righe Chizuru. “Possibile che sia…?”
“Non so se sei un oni, o una loro spia umana, ma… sappi che in entrambi i casi non sei ben accetta qui” dicesti, rivolgendoti a me, con quel sorriso sulle labbra tipico di chi stava lanciando una sfida.
Oni…? Ma… di che cosa sta parlando?
“Sono io…” esordii, cercando di avvicinarmi pian piano a lui. Avevo un tono di voce basso, ma non sapevo perché. Non riuscivo semplicemente ad alzare la voce più di così. “Davvero non mi riconosci?”
“Spiacente, ma non credo di aver mai bevuto in tua compagnia. Ragion per cui… No, credo davvero che tu abbia sbagliato persona”.
“Possibile che non sai chi sono?” ribatto, alquanto anche offesa da questo suo atteggiamento. “E’… E’ vero che sono passati tanti anni e che forse sarò cambiata un po’, ma… Sono io. Proprio io!”.
“Neh, neh, ojou-san… è vero che non avrò più l’età di una volta, ma non sono neanche così decrepito da scordarmi persino chi conosco, sai?” .
“Okita-san, però… Sembra davvero che lei ti conosca…”
“Sai, Chizuru-chan, se c’è una cosa che adoro di te è la tua ingenuità e la tua semplicità” affermasti, sorridendole spontaneamente. “Però, sai, se continui così, non ci vorrà molto prima che ti conducano alla morte” constatasti, prima di scrollare le spalle e tornare a rivolgermi tutta la tua attenzione. “Mi spiace, ma credo ti sia andata male. Non sono il tipo che se ne fa molti di problemi, anche se devo fronteggiare una donna”.
“Ma di che stai parlando? Io non riesco proprio a capire perché ti stai comportando in questa maniera!” esclamo, cercando di farmi ragione. “Io… Io voglio soltanto che…” . Ma non faccio in tempo ad avvicinarmi ancora, che, poggiando in modo errato il piede, cado per terra, sulle ginocchia proprio davanti ai tuoi occhi e quelli di Chizuru.
“Oh no!”. Proprio quest’ultimo, vedendomi in difficoltà, fece per superarti e venirmi in soccorso, ma tu non glielo consentisti: la afferrasti per il polso, trattenendolo.
“Certo che la testa ce l’hai di coccio, eh? Ti ho detto di non avvicinarti a lei, o sbaglio?”.
“Ma… Ma… guardala! E’ caduta! Ha delle ferite ai piedi e non può neanche camminare” cercò di ribattere lui. “Ha bisogno d’aiuto”.
“Certo che tu e il buonsenso non andate molto d’accordo” gli facesti notare. “Non hai alcuna garanzia che non si tratti di un oni o di chi ne fa le veci”.
“Ma quali garanzie abbiamo che, invece, se ne tratti?” cercò di ribattere lui.
Perché…? Perché non mi ascolta?
Nel frattempo, non ascoltavo più i vostri discorsi. Non li seguii più.
Semplicemente non riuscivo a fare a meno di pensare che non mi riconoscevi, che mi stavi puntando la katana contro e che mi stavi minacciando, per chissà quale oscuro motivo.
Anche lui non mi riconosce…
“Questa… è la seconda volta…” esordii io, col capo chino e con appena un filo di voce. Tuttavia, nonostante avessi appena sussurrato quelle parole, sia tu che Chizuru mi sentiste.
“Questa è… la seconda volta che non mi riconosci…”.
Avevo lo sguardo rivolto in basso, per tentare di calmarmi e di non far uscire quella parte infantile che ancora una volta stava cercando di prendere il sopravvento su di me, quindi non sapevo quale espressione aveste sul volto, però... Io proseguii lo stesso, mentre iniziarono a tremarmi sia la voce, che le spalle: “Prima mio padre… e ora tu… E’ tanto difficile ricordarsi di me? Conto davvero così poco, da dimenticarmi tanto facilmente? Evidentemente non valgo poi così tanto…” . I singhiozzi divennero più frequenti ed anche se cercavo di limitarmi, le mie parole proseguirono in modo sempre meno lineare e scorrevole: “Eppure, nonostante lo sapessi… Non pensavo che potesse ricordarselo mio padre… Non mi aspettavo niente da lui, ma… Almeno da te. E dire che volevi anche sposarmi” . Alzai lentamente il volto nella tua direzione, ormai con le lacrime agli occhi che incominciarono a rigarmi le guance infreddolite e tremolanti. “Davvero non mi riconosci… Sou-nii…?”.
Quasi come se ti avessi lanciato un incantesimo, il tuo volto, prima soltanto manifestante sospetto e discrezione, fu invaso dallo stupore più vago. Gli occhi leggermente sgranati e le labbra dischiuse, in segno di meraviglia, mi diedero l’ulteriore prova della tua confusione.
“Sp... Spos…?!?” . Chizuru si voltò sorpreso (ed era dire poco) verso di te, per poi continuare, ancora più curioso e spaesato: “Sou…nii…?”.
“Quel… soprannome…” sibilasti, con sguardo ancora più incredulo, mentre la tua presa sulla katana si allentava molto lentamente. “Non… Non è possibile…” . Dopo aver riposto immediatamente la lama nel fodero, ti avvicinasti a me, che ancora singhiozzavo. Una volta che mi fosti di fronte, ti piegasti su un ginocchio, avvicinando il tuo volto al mio per guardarmi meglio.
Passato qualche secondo a scrutarmi ed esaminarmi, ti allontanasti di poco, prima di esordire: “Hikaru… chan?”.
Sorrisi, in lacrime, stavolta per la gioia. Annuii leggermente col capo. “Finalmente… Ce ne hai messo di tempo, eh?”.
“Allora era vero che vi conoscevate!” affermò il suo compagno, raggiungendolo.
“Sì, è vero, ma…”
“Sono così felice” sussurrai, interrompendo la tua risposta pronta. “Sono così felice… che tu mi abbia… riconosciu…” . Ma non terminai la frase.
Persi i sensi, cadendo presumibilmente tra le tue braccia. Svenni per la paura che avevo provato sino ad allora, per il dolore e per l’agitazione. Ma, quasi sicuramente, ciò che mi diede il colpo di grazia fu la felicità e l’emozione che riprovai nel vederti di nuovo dopo tanto e tanto tempo.

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Innanzitutto vorrei ringraziare tutti coloro che seguono questa ff! Coloro che la recensiscono e che mi danno man forte! 
Ringrazio coloro che l'hanno inserita tra le loro preferite, le seguite e anche le ricordate. E un ultimo ringraziamento a coloro che la seguono ma non recensiscono. In fondo in fondo mi piacete anche voi! ^-^ XD
Vi voglio un sacco di bene! Alla prossima!!!
  
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