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Autore: yuki013    18/06/2011    7 recensioni
Il seguito di "Incantevoli spine, e resti di noi".
Tre anni sono trascorsi, ma non sembrano sufficienti per dimenticare il passato, specie quando questo torna a farsi vivo.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Crona, Death the Kid
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Unsymmetrical Perfection'
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Ma buon pomeriggio di metà giugno!! Ecco, sì lo so che mi sono persa un pò per strada con i capitoli ma...ci sto provando ç___ç oh sì, pensavo...ma vi andrebbe qualche extra?
Nel senso... leggete qui, ci sono le mie idee per dei piccoli extra che vorrei mettere una volta finita la storia. Posso aggiungerli sia a Incantevoli spine che a Fragili Rose, a seconda di dove dovrebbero stare meglio. E se avete delle idee, suggeritele pure ^^ non mi dispiacerebbe fare degli spezzoni a richiesta.
Anyway!! Continuo a non dormire, la mia sanità mentale è ai minimi storici eppure sono ancora qua, EEEEEH GIà.
E vi faccio pure una sorpresa qui. Vi prego, vi scongiuro: AMATE Shin, che sarà un mio personaggio anche dopo la fine di questa crociata LOL
Ohibò, scappo >< Smacchete
-Yuki


Capitolo 6 – Explanations, now

 

Krona

Aspettai fin quando Maka, Soul e Shin si allontanarono. Kid era ancora a terra, fermo come un sasso. Non aveva detto mezza parola.
Solo averlo così vicino, percepire l’angoscia nella sua anima, mi faceva venire voglia di scappare via. Invece rimasi lì, perche dovevo assolutamente chiarire. Mi tornò in mente una delle mie prime missioni con Maka dopo la sua scomparsa.

Tutto taceva, anche troppo. Misi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ripetendomi il solito mantra. Da un bel pezzo ormai mi imponevo di non pensarci, mai. Era una sofferenza, una costrizione necessaria affinché andassi avanti con la mia vita, se ancora tale potesse essere definita. Guardavo il candido cielo dell’Islanda e mi domandavo quanti altri secondi restassero prima che il mio corpo si decidesse a cedere.
Era troppo tardi per sperare, troppo presto per dimenticare. Avevo chiuso qualunque porta per non perdere quel barlume di coscienza che mi era rimasto, sopraffatta dal senso di impotenza mentre guardavo quelle cose che avevo ritenuto essenziali scivolarmi tra le dita.
«Non è detto che sia finita». Maka forse ci credeva ancora. Io avevo smesso.
«La verità è che non è mai iniziata».
E poi avevo ucciso la mia prima strega.
Alla fine me ne ero convinta sul serio, che quella storia fosse solo una mia invenzione. Ovviamente il ragazzo più bello e sensibile e audace e giusto mai esistito non poteva stare con me. Mettiamoci in mezzo il dettaglio abbastanza rilevante di essere uno Shinigami, e la cosa diventa piuttosto palese.
Pensai a mille modi per dirgli che lo odiavo, e lo amavo, e volevo che tornasse a Death City ma allo stesso tempo che non ci mettesse più piede. Mi sentivo di nuovo una pazza.
Sopra di tutto però avevo una gran voglia di picchiarlo. E lo feci, con un colpo di borsa dritto in testa.
«Ahiahiahi! Potevi anche avvisarmi, no?», urlò tenendosi la testa sanguinante. «Ma si può sapere che c’è in quella borsa?!».
«Mattoni, per tirarteli addosso!». Ci vedevamo per le prima volta dopo tre anni e iniziavamo a litigare. Bel modo di ritrovarsi, non c’è che dire Krona.
«Mi odi?». Evitai di colpirlo una seconda volta, sedendomi di fronte a lui.
«Voglio sapere perché».
«Perché cosa?».
«Perché mi hai fatto innamorare di te e poi te ne sei andato senza una parola. Insomma, se non mi amavi più avrei preferito sentirmelo dire in faccia».
«Tu sul serio hai creduto a ciò che ho scritto in quella lettera?». Alzai lo sguardo, incrociando il suo del colore dell’ambra. «Ho dovuto. C’era di mezzo la sicurezza di tutti i Meister e le Weapon della Shibusen, te compresa. Se ci fosse stato un modo per farti sapere dov’ero senza metterti in pericolo, l’avrei fatto molto tempo fa».
«Ciò non toglie il fatto che siano passati tre anni».
«Quindi non c’è più niente che possa fare?». La sua voce, i suoi occhi, i suoi movimenti: tutto in lui emanava una tale tristezza mista a rimorso che avrei voluto sporgermi verso di lui e finalmente, di nuovo, baciarlo. Imposi al mio corpo di no. 
«Non lo so. Per adesso voglio soltanto sapere la verità sulla tua partenza».
«Lo trovo giusto. Beh, suppongo che questo non piacerà affatto a quelli della Charon. Domani mattina partiamo per l’Ungheria, c’è una cosa che devi vedere».
«Sarebbe?».
«L’Accademia Internazionale degli Shinigami».

 

 

Ristorante Lockside Lounge, 75 Camden Lock Place
7 Ottobre – 01:12 PM

Maka

«Soul ci raggiungerà a breve. Si è fermato un attimo da HMV».
Mi trovavo in uno splendido locale sul Tamigi, tra i vicoli di Camden Town, il quartiere patria di tutto ciò che è alternativo a Londra, a intrattenere un’imbarazzante conversazione con il fratello del mio ragazzo. Mio cognato, praticamente.
«Vi siete divertiti stamattina?». Ero rimasta in albergo, non mi sentivo troppo bene, però avevo insistito perché Soul andasse a fare un giro con suo fratello. Erano stati fuori per un paio d’ore, poi lui aveva chiamato dicendo di farmi trovare all’una alla stazione di Camden. Peccato ci fosse solo Wes.
«Sì, abbastanza. Maka, non è che stiamo aggirando l’argomento?». Rabbrividii.
«Hai ragione».
«Quindi… sai già da quanto tempo? Puoi parlarne con me, ricorda che sono anche laureato in medicina». Ma quante cose sapeva fare quel Wes?!
«Ehm, a dire il vero credo sia un mesetto ormai».
«Non usate contraccettivi?». In un certo senso il suo tono distaccato ma complice al tempo stesso mi metteva a mio agio. Sarà una caratteristica degli Evans.
«Sempre, tranne qualche volta. E la più recente risale ad un mese fa».
«Pillola del giorno dopo?».
«L’ho presa. Per questo mi sembra impossibile».
Si mise più comodo sulla sedia. «Non sempre funziona. C’è una percentuale di rischio del 5%, ».
«Ah». Non sapevo che fare. Non riuscivo nemmeno a reagire.
Per carità, nel momento stesso in cui mi ero sfiorata il basso ventre, nel letto accanto a Soul, e avevo realizzato che là dentro c’era un essere vivo, nostro, mi ero sentita più felice e orgogliosa di quanto lo sia mai stata. Non ho nemmeno pensato a darlo via, figuriamoci ad abortire. Sarebbe un assassinio.
Ma non si può essere Meister di una Death Scythe e madre contemporaneamente. Avrei dovuto lasciare il lavoro, rallentando così anche i progressi di Soul, per diventare tutta pannolini e pappine e ninne nanne. Mi piaceva, anche troppo.
Ma Soul?
«Wes, come glielo dico?».
«Maka, ti stai facendo mille paranoie per nulla. Sai che farà? Continuerà a ingozzarsi, poi si girerà sconvolto soffocandosi e ti punterà un dito contro dicendo una cosa del tipo: “Che sei tu?! Rincitrullita?”». Iniziai a ridere, di cuore.
«Sì ma il fatto è che siamo partner. Prendendomi un periodo di riposo, penalizzerò anche lui. E poi, non sono neanche sicura che lui lo voglia o meno».
«Oggi Soul mi ha detto una cosa». Alzai gli occhi per incontrare i suoi, blu come l’anello d’agata di mia madre che portavo al dito. «Sono tornato in aeroporto perché ho perso uno dei miei archetti. Comunque, siamo passati nella zona di Brentford, che è piena di piccole villette con giardini, e Soul le ha indicate dicendomi che a te piacciono molto». Annuii lievemente.
«Le sue parole sono state più o meno queste: “La nostra missione non finirà mai: ucciso il Kishin, ci saranno ancora Noah e compagnia, streghe e chissà che altro, per non parlare della follia. Però, sai… non mi dispiacerebbe stare in un posto simile di tanto in tanto. Io, Maka, te e i tuoi nipoti. Che ne pensi?”». Impietrii alle parole di Wes. Possibile che Soul davvero volesse una famiglia? Con me, poi?
«Maka, conoscerai la leggenda giapponese del filo rosso. Il vostro è stato intrecciato nel momento stesso in cui ha suonato per te». Non ebbi il tempo di rispondergli perché arrivò un trafelatissimo Soul con una busta bianca e beige sotto il braccio. Diede una pacca al fratello e un bacio a me, porgendomi la confezione.
«Wes, grazie a te ci ho messo mezz’ora a trovare quello stupido negozio!».
«Bernard J Shapero è il meglio del meglio per quanto riguarda le rarità. Non è certo colpa mia se il tuo senso dell’orientamento è pari a zero».
«Ehm, Soul… che sarebbe?». Si voltò rivolgendomi uno di quei suoi sorrisi sghembi mirati a farmi venire la tachicardia.
«Regalo. Apri». Rimasi un po’ a guardare il pacchetto, poi tirai i due lembi facendo saltare le puntine e infilai la mano all’interno, tirandone fuori un oggetto rettangolare. Osservai sconvolta una copertina ingiallita, che profumava di vecchio e inchiostro, di vissuto. Di cose lette e impresse a fuoco nella memoria.
«Una volta mi hai detto di leggere, quando eravamo a Death City. Sono entrato nella tua stanza e ho preso un libro a caso, e mi stava anche piacendo – c’era pure un tizio con il mio stesso cognome. Però poi ci ho rovesciato sopra il caffè, quindi… scusa». Contemplai la vecchia edizione de La signora Dalloway di Virginia Woolf con occhi sognanti. Avrà avuto più di cinquant’anni, quel libro.
«Soul…». Lo vidi coprirsi la testa.
«Però anche io, per una volta sei disarmata e ti regalo proprio un libro?! Questo non è per niente, per niente cool!».
Mollai il tomo sul tavolo e lo abbracciai facendogli perdere l’equilibrio. Il mio ragazzo tonto, l’inconsapevole padre di nostro figlio, il mio partner, il mio migliore amico si era spinto fin dentro i meandri di una libreria per farmi un regalo. Mi veniva da piangere. «Tranquillo, Soul. Non sono arrabbiata. Grazie, sono davvero felice».
«Maka, stai bene?». Lo lasciai dandogli un bacio sulla guancia.
«Mai stata meglio». In quel momento un ragazzo venne a prendere le nostre ordinazioni, e occupammo le due ore successive a raccontare a Wes degli anni a Death City, mentre lui ci fece ridere con gli aneddoti presi dai suoi viaggi di lavoro.
«Davvero, gli hai messo un calzino nella campana del trombone?».
«Sicuro! Avresti dovuto vederlo: ad un certo punto abbiamo ripreso a suonare e quello ha soffiato così forte che l’ha tirato dritto in testa al maestro».
«Wes, sono le tre passate».
«Ah, già. Grazie Maka. Mi scoccia davvero andare a questa conferenza stampa, ma proprio non posso saltarla». Pagammo il conto e facemmo un pezzo di strada fino alla fermata della metro, dove ci saremmo separati.
«Bene, pargoli. Io sono arrivato», disse indicando una vettura nera con i vetri oscurati. 
«Che hai detto?», domandai chiedendomi se potessi tirargli un Maka-chop.
«Hahahahahah. Mi ha fatto piacere conoscerti, Maka Albarn». Mi abbracciò come se fossi sua sorella, e ricambiai con lo stesso affetto. Strinse forte Soul, raccomandandogli di stare attento sul lavoro e “prendersi le sue responsabilità”. Restammo a guardarlo fin quando l’automobile non fu più alla nostra portata.
«Ho parlato con Krona. Si trova in una città dell’Ungheria», dissi a Soul mentre andavamo verso la stazione della metro.
«Capisco. Beh, mi sembra giusto che almeno lei venga a sapere la verità».
«Né Soul, che ne dici se comprassimo una casa qui? Insomma… per dopo». Mi cinse le spalle con un braccio.
«Mi piacerebbe. Londra sembra una bella città».
«E pensare che solo ieri la odiavi», dissi canzonandolo.
«Come hai detto tu, è questione di ambientamento. Che ne dici di tornare in hotel e andare a ballare stasera? Domani è il nostro ultimo giorno libero».
«Soul, in realtà non è che io mi senta così bene».
«Ancora intossicazione? Se vuoi…».
«No, non c’entra. È qualcos’altro». Alzò un sopracciglio inebetito.
Mi alzai sulle punte dei piedi aggrappandomi alla sua schiena, e gli sussurrai due parole. Esattamente lì, sotto il passaggio di Camden Lock.
Sbiancò, poi divenne viola. Smise anche di respirare.
«Tu sei…».
«Incinta. Gravida, portatrice di bebè. Hai presente, i bambini? Quelli». Per parecchi minuti lo fissai, incapace di giudicare la sua espressione da vegetale.
«Nostro?», chiese voltandosi.
«E di chi secondo te, superdeficiente?! Tuo e mio, mi pare ovvio». Poi non so dire bene cosa avvenne: so solo che mi ritrovai a terra con lui addosso – o meglio, con il suo orecchio sulla pancia. Sbuffai per l’assurdità della situazione.
«Ma sì, ti risponderà di sicuro». L’assenza della tipica risposta tagliente mi indusse a sollevare lo sguardo. Era fermo, con gli occhi sbarrati per l’emozione, la mano premuta accanto al viso. I suoi occhi cremisi incontrarono i miei prima che mi prendesse fra le sue braccia, come per cullarmi.
«Maka. Maka, Maka, Maka. Maka, sei felice?».
«Lo sono. E tu?».
«Non sono felice. Sono perfetto. Resta solo un piccolo problema, la nostra missione più rischiosa».
«So di cosa parli. Potremmo davvero morire stavolta».
«Correremo il rischio. Su, andiamo a cercare uno specchio e facciamo ‘sta telefonata a nonno Albarn».

   
 
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