33
Il bisbiglio di un sorriso
Roxas accese la luce,
illuminando a giorno l’appartamento 2A. Gli fece uno stranissimo effetto
ritrovarsi di nuovo sulla soglia di quelle cinque stanze. L’ultima volta
che era stato lì risaliva esattamente a una settimana prima, alla
mattina in cui aveva capito di potersi alzare da solo dal suo letto, aveva
raggiunto Axel al 2B, era andato insieme a lui a
cercare gli Hawk Runners
e... e aveva trovato un pazzo assetato di vendetta.
Il vecchio capo di Axel.
Quel pensiero gli
provocò un brivido. Non ci aveva mai pensato prima; non in quei termini.
«Tutto
bene?»
La voce dell’amico
s’insinuò nel suo orecchio, per una volta priva di qualsiasi nota
ironica. Roxas si voltò e vide che lo stava guardando
attentamente. Sorrise.
«Certo. Fa
solo...»
«Un certo
effetto» completò per lui Axel, in tono
affermativo e non interrogativo.
Roxas annuì.
«Sì.»
Allontanò la sedia a rotelle dalla porta d’ingresso. «Beh,
non so tu, ma io sono stanco per davvero. E penso che una bella dormita farebbe
bene anche a te.»
Da qualche parte alle
sue spalle, Axel ripescò un tono leggero.
«Mah, potrei anche
decidere di andare a farmi un giro. Una bella scorrazzata sulla scala
antincendio sarebbe l’ideale. Sono secoli che non ci salgo, comincio a
sentire la sua mancanza» sghignazzò. «Oppure potrei andare a
cercare tuo fratello e dirgli che sei qui. Ti immagini se decidesse di andarti
a trovare in ospedale prima di tornare al condominio? Come minimo gli verrebbe
un colpo.»
Roxas si fermò al
centro del corridoio che conduceva alla camera da letto. Si voltò con il
busto e lo guardò, senza accuse.
«Non
c’è bisogno che tu faccia finta di niente. Me ne sono accorto, che
la polizia ci ha seguiti passo passo per tutta la
strada.»
Il sorriso scomparve
dalle labbra di Axel gradualmente, come sabbia smossa
da un’onda sul bagnasciuga.
«Non ti si
può nascondere niente, vero?» Si riassestò nervosamente la
borsa sulla spalla. «Beh, in fondo prima o poi avrei dovuto parlartene...
Mi tengono d’occhio perché da questa sera, ufficialmente, sono
agli arresti domiciliari.»
Roxas non disse nulla.
Arresti domiciliari.
Abbassò lo
sguardo.
«Ci ho pensato. Non possono farti nulla...»
Negli ultimi sette giorni,
in ospedale, non si era più soffermato su ciò cui Axel sarebbe dovuto presto andare incontro. Ripensarci
adesso, doveva ammetterlo, faceva un po’ male.
Arresti domiciliari.
Come sarebbe andata a
finire?
Loro due erano amici, no? Doveva proprio rischiare di
perdere anche questo?
Scosse la testa con
energia. No, sarebbe andato tutto bene. Questa volta sarebbe stato in grado di
affrontarlo. Era pronto, ormai.
Riprese a muovere la
sedia, fino a raggiungere la sua stanza. Sentì i passi di Axel che lo seguivano, insicuri, quasi meccanici.
Aperta la porta,
premette l’interruttore alla sua destra e la luce colpì anche
quelle quattro mura che racchiudevano due letti, qualche mobile e due anni di
vita rinchiusa in se stessa. Roxas lasciò
scorrere lo sguardo su quella scena tanto familiare: il caos sulla scrivania,
il letto di Sora sfatto come al solito, l’album sulla poltrona, il
disegno sul comodino – lo stesso disegno che quella lontana mattina aveva
lasciato a suo fratello.
Si mosse in quella
direzione, senza fretta. Allungò una mano e prese il foglio per
portarselo davanti agli occhi.
Era come lo ricordava.
Il parco, la pista per lo skate, la gente. Eppure mancava qualcosa.
Voltò ancora una
volta la sedia, raggiunse la scrivania e frugò nel disordine, in cerca di
una matita. Quando la trovò, sorrise e apportò senza esitazioni
la modifica che in altri tempi non si sarebbe mai sognato di fare.
Infine studiò di
nuovo il disegno.
Ce l’ho fatta, mamma. Ce l’ho fatta,
papà.
Grazie a un demone o a
un angelo custode.
«Non avevi detto
che eri stanco?»
Ancora una voce neutra,
né grave né divertita. Roxas
lasciò la matita e il disegno sulla scrivania e guardò di nuovo Axel, che aveva appena posato la borsa a terra.
«Infatti»
gli rispose.
Mentre si accostava con
la sedia al letto, ebbe l’impressione di vedere una muta domanda nascere
nei suoi occhi verdi. Gli offrì un sorriso come risposta, e si dispose a
fare ciò che aveva già fatto e che – forse – avrebbe
potuto fare di nuovo.
* * *
Quando vide Roxas
sollevarsi sui propri piedi, Axel si chiese se per
caso non stesse sognando. Solo lo sforzo nei suoi grandi occhi azzurri e nel
suo viso determinato lo convinse che stava succedendo davvero.
Il tentativo andò
a vuoto; Roxas ricadde a sedere, sfinito. Axel fece subito per avvicinarsi e aiutarlo
nell’impresa, ma si vide rivolgere un’occhiata testarda, quasi
truce.
«Resta – dove – sei.»
Obbedì.
Il ragazzino
provò altre due volte. Alla terza riuscì a restare sollevato quel
tanto che gli bastò a lasciarsi cadere sul letto, abbandonando la sedia
vuota poco più in là.
Mentre riprendeva fiato,
Roxas lo guardò e inaspettatamente rise.
«Non fare quella
faccia. Non è la prima volta che mi alzo.»
Axel si chiese se fingesse o
se la stesse davvero prendendo così bene.
Scosse il capo.
«D’accordo, bimbo.
Visto che non hai più bisogno di me, sarà meglio che vada a
dormire anch’io.» Lo guardò in tralice, con un po’ d’indecisione,
ma deciso a non lasciargliela intuire. «Di’ un po’, sei
sicuro che non ti sentirai solo?»
Aiutandosi con le mani, Roxas si tirò le gambe sul letto. Alzò il
viso e fece segno di no con la testa.
«Non preoccuparti.
Sto bene.» Il suo sorriso si fece più ampio e luminoso, e in quel
momento assomigliò molto più del solito a Sora.
«Benissimo.»
Convinto soprattutto
dalla sua espressione, Axel si allontanò dalla
porta, dove era rimasto fino ad allora, e si diresse alla finestra.
«Però
ricordati» disse aprendola, «sono solo a un pianerottolo da
qui.»
Lo vide annuire, poi
distendersi sulle coperte, vestito com’era, e allungare una mano verso un
altro interruttore posto appena sopra la testata del suo letto.
«Buonanotte, Axel.»
La luce si spense. Axel si ritrovò guidato soltanto dal bagliore delle
stelle fuori dalla finestra.
«Buonanotte, Roxas» mormorò.
Da qualche parte, nel
buio, giunse il bisbiglio di un sorriso.
«E... grazie.»
Scavalcò il davanzale e atterrò
sulla scala antincendio.
Inspirò
profondamente l’aria della notte, riflettendo: quell’impalcatura lo
aveva visto coinvolto in complotti, confidenze, spedizioni e sfoghi... E se non
ci fosse stata lei, ridacchiò tra sé, con ogni probabilità
lui e Roxas non si sarebbero nemmeno mai conosciuti.
Si allontanò dal
2A quasi a malincuore.
Percorrendo il
pianerottolo, gli cadde lo sguardo sul cortile e da lì sul vicolo. Non
si stupì di vederlo sbarrato.
Sorrise nel buio. Anche
se era praticamente intrappolato nel regno di Vexen
il vampiro, si sentiva bene. Meravigliosamente bene. Liberato.
Arrivò alla
finestra del 2B. Ricordava di averla lasciata socchiusa, la mattina che Roxas era andato a trovarlo e gli aveva chiesto di
accompagnarlo al parco; e socchiusa la ritrovò.
Entrò in quella
che, fino all’udienza di cui gli aveva parlato il tenente Lockhart, sarebbe stata la sua prigione – ma ancora
una volta non avvertì nessuna oppressione a quel pensiero. Si mosse
verso il letto, senza accendere la luce, ma prima di arrivarci si
ricordò di colpo di qualcosa.
Qualcosa che avrebbe
dovuto fare tempo prima...
Beh, meglio tardi che mai.
Senza esitare,
andò al comodino e lo aprì. Non aveva bisogno di luce per vedere
cosa c’era dentro. Afferrò in fretta il contenuto, richiuse
l’anta e si allontanò di nuovo.
Per prima cosa,
trovandolo di strada, sollevò il coperchio del secchio per la spazzatura
e vi lasciò cadere quella dannata pistola.
Poi, in bagno, accese la
luce e aprì la sacca nera riportatagli da Zexion
due settimane prima, insieme all’arma.
Sostenne la vista della
cocaina senza provare la minima emozione. Era la ‘scorta
d’emergenza’, quella che gli aveva consegnato Demyx
poco prima del suo esame di coscienza, quando gli aveva detto che anche un pivellino come lui aveva il
diritto di concludere un affare, se gli capitava.
Axel estrasse la bustina di
plastica, dall’aria così innocente in modo così
spudoratamente falso, dalla sacca. Tese il braccio e finalmente, come aveva
desiderato di fare fin dall’inizio, la gettò in quel sacrosanto
cesso.
Solo che ora aveva
motivi migliori che non il timore di farsi beccare con le mani sporche.
Il frastuono dello
sciacquone fu anche più piacevole del previsto. Axel
sorrise: non più il suo solito ghigno insolente, ma un sorriso vero.
Spense la luce e
tornò in camera da letto, sfilandosi la maglietta. Emergendone con la
testa, si guardò senza volerlo la spalla. Poco più in basso,
riluceva una cicatrice bianca.
Mentre si stendeva sul
letto e incrociava le braccia dietro il capo, tornò a concentrarsi sul
piccolo miracolo avvenuto un pianerottolo più in là e sorrise di
nuovo.
* * *
«Siamo sicuri che il tenente non stia
concedendo un po’ troppa fiducia a questi ragazzini?»
Nel sedile del
passeggero, Cloud scrutava accigliato la sagoma di
Tifa Lockhart al di là del finestrino. La
donna aveva appena chiuso il suo colloquio con un allarmato portinaio –
chissà com’era, scoprire di aver affittato un appartamento a un
condannato agli arresti domiciliari? – e si stava dirigendo alla
macchina.
Seduta al volante, Aerith gli rispose senza nemmeno riflettere.
«A volte la
fiducia non tiene conto di nulla, tantomeno del comune buonsenso.»
Cloud si voltò a
guardarla, forse meditando su una risposta scettica; ma non disse nulla.
Il tenente Lockhart raggiunse la vettura e batté le nocche sul
vetro. L’agente si affrettò ad abbassare il finestrino.
«Bene, ragazzi.
Avete già bloccato il vicolo?»
«Sissignora.»
«Avete anche
bevuto qualche litro di caffè?»
«Sissignora.»
Tifa sospirò.
«Allora vi lascio di guardia. Perdonatemi se sono così poco di
compagnia, ma mi sento distrutta. Per fortuna questa storia sta per
finire...»
«Non si preoccupi,
tenente.» Aerith sorrise. «Passi una
buona notte.»
La donna ricambiò
il sorriso e agitò una mano in segno di saluto, mentre si allontanava
dalla volante che quella sera aveva scortato in incognito Axel
Kasai e Roxas Key, e che si apprestava a sorvegliare
il condominio da quel momento in poi. Mormorò una risposta che si perse
nella penombra.
«Lo sai, Aerith? Credo proprio che lo sarà davvero.»
Aerith Gainsborough
e Cloud Strife rimasero
immobili ad osservare Tifa Lockhart, i capelli
sciolti sulle spalle, le mani affondate nelle tasche, allontanarsi a piedi
sotto la luce delle stelle.
Fu di nuovo Cloud a rompere il silenzio.
«Sai una
cosa?»
«Che cosa?»
Il poliziotto guardava
oltre il parabrezza con una tale intensità che Aerith
si stupì che il vetro non si fondesse. Infine lo sentì sospirare
nell’ombra dell’abitacolo.
«Darei qualsiasi
cosa per essere come lei.»
* * *
Era mattina, e Sora sbadigliava.
Aveva lasciato la casa
di Kairi ancora insonnolito. Nonostante fosse tuttora
imbarazzato all’idea di dormire ogni notte da lei, al mattino il sonno
aveva sempre la meglio su qualsiasi altra emozione; così aveva salutato
lei, Naminè e la nonna senza impacciarsi
troppo, aveva fatto colazione al solito bar e, più morto che vivo, aveva
attraversato le molte strade che dividevano la villa dal condominio, per recuperare
alcuni libri prima della scuola.
Sbadigliò ancora,
lasciandosi alle spalle l’ultimo gradino della rampa di scale e
incamminandosi lentamente verso la porta del 2A. Chiunque avesse stabilito che
le lezioni cominciassero così presto andava strangolato nel sonno, di
questo era fermamente convinto.
Pescò le chiavi
da una tasca dei pantaloni, aprì la porta e marciò pian pianino
verso la camera da letto, col vago desiderio di lasciarsi ricadere a dormire
per altri cinque minuti, meglio dieci, facciamo quindici.
Ma quando ci
arrivò, vide qualcosa che riuscì dove anche la vicinanza
così pericolosamente stretta di Kairi aveva
fallito: svegliarlo del tutto.
Addormentato nel suo
letto c’era Roxas.
Sora non seppe come
reagire a quella vista. Si stropicciò gli occhi più e più
volte e si pizzicò forte le guance, ma vedendo che l’immagine non
accennava a svanire dovette riconoscere che era davvero sveglio. Allora alla
sorpresa si sostituì un leggero risentimento: perché Roxas non gli aveva detto che sarebbe tornato al
condominio, la sera prima?! E poi subentrò la contentezza, perché
nonostante tutto era lieto di rivedere suo fratello in quella stanza; gli era
mancato così tanto. E anche un po’ di orgoglio: Roxas stava diventando non solo più forte, ma anche
indipendente. Negli ultimi tempi aveva affrontato da solo le esperienze
più traumatizzanti che si potessero immaginare, e l’aveva fatto da solo, senza chiedere aiuto... E
infine un accenno di tristezza, quando i suoi occhi si posarono sulla sedia a
rotelle ai piedi del letto e lui si disse che, alla fin fine, tutto era tornato
come prima.
O forse no?
Ancora molto scosso,
Sora si mosse verso la scrivania, ripetendosi che avrebbe dovuto sbrigarsi per
andare a scuola e che non aveva tempo per giocare al Festival-delle-Emozioni-e-delle-Reazioni.
Si bloccò.
Sul piano di legno, in
bella vista sopra il casino generale, c’era un disegno che conosceva
bene. Ma quella mattina sembrava diverso.
Lo prese in mano: era la
stessa scena, quella del parco in cui lui e Roxas
avevano vissuto tanti momenti felici da bambini, e dove suo fratello aveva
trovato i suoi più grandi amici e la sua più grande passione,
prima di perdere tutto... E poi notò la differenza.
Una settimana prima,
l’uomo e la donna in primo piano nel disegno non avevano lineamenti.
Adesso invece sì,
e anche molto familiari.
E – cosa
più importante e più bella di tutte – sorridevano.
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Ci
siamo. Roxas è tornato a casa. Axel è agli arresti domiciliari. E Demyx e la ragazza senza nome si sono ritrovati.
Resta
qualcosa in sospeso, però, vero? Sbaglio o tempo fa abbiamo trovato un Saïx folle e inasprito dalla cattura di Marluxia? E Roxas non aveva la
possibilità di tornare a camminare? E Axel non
l’aveva forse baciato? x3
Ehh, come vedete ce ne vuole ancora di tempo
per risolvere tutto.
Grazie
a chiunque passi di qui, come sempre; e a presto! <3
Aya ~