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Autore: _zukky    20/06/2011    11 recensioni
E c’era sempre stato per lei, in notti come quella, quando persa tra le impervie vie della sua insonnia, con una premura che riusciva ad attribuire solo a lui, la ritrovava e riportava indietro.
Sapeva – lo sapeva! – che potevano essere solo affetto e gentilezza – non ci si sarebbe aspettati di meno da una persona amabile come Ross – ma lei, ormai, non era più in grado di immaginarsi accanto un altro che non fosse lui.
Guardarsi intorno e chiedersi perché. Come avrebbe potuto scegliere proprio lei.
La rosa perse l’ultimo petalo.
[Anthony Ross Granville/Emily Sylvie Granville]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è nata in primavera, come la sua protagonista, e si svolge in una delle sue tante notti. Sono stata a lungo indecisa, ma chiudo il cerchio postandola nell’ultimo giorno di primavera di quest’anno, mi sembrava giusto così.




Alla vera Emily Granville.
Perché mi ci ha quasi costretta, perché è stata insistente, assillante
e tanti altri aggettivi che mi hanno fatto invocare la Santa Pazienza (!).
Ma, probabilmente, se non fosse stato per lei non avrei mai trovato il coraggio di farlo.
Tutta tua, stressante personale ♥










Come l’ultimo petalo di rosa.






Le notti di primavera avevano il profumo aspro e intenso dell’aspettativa. Non avrebbe saputo definirlo a parole che risultassero comprensibili – come quelle sensazioni senza nome che scivolano sotto la pelle, solleticando i punti più sensibili. L’aria sapeva vagamente di muschio e corteccia, fresca quando la inspirava, arrivava a dolere alla gola se trattenuta a lungo, come la morsa di una speranza tradita.
Emily Granville avrebbe saputo riconoscere le stagioni solo dal profumo delle loro notti. Aveva, a onor del vero, un rapporto particolare con le ore notturne... e con il soffitto della sua camera. Quanto tempo della sua giovane vita avesse passato a fissarlo, non avrebbe saputo dirlo con esattezza, sarebbe stato sempre troppo e le avrebbe solo ricordato, ancora una volta, la noia che la prendeva, con un fastidio che la faceva fremere, in quei momenti. Così aveva iniziato a concentrarsi sui particolari, come il profumo dell’aria, il suono pieno del silenzio, il filo caotico dei suoi pensieri che non si placavano mai. E quando la noia la rendeva inquieta al punto da impedirle di stare ferma, sgusciava silenziosa fuori dalle coperte perdendosi dietro ad altri particolari, altri pensieri, altre idee, che coglieva entusiasta come la più bella delle peonie.
*


Le rose vermiglie, adagiate in ordine sparso sul ripiano della cucina, sembravano bagnate da gocce di oscurità, l’acqua che nella penombra della stanza si colorava delle tonalità più cupe.
I petali di una si staccarono dalla corolla sotto la pressione delle sue dita e finirono nel mortaio di marmo che a forza, attenta a non fare troppo rumore – sobbalzando a ogni tonfo che risuonava ampliato nel silenzio della notte – aveva trascinato fino al tavolo della cucina.
Con la stessa accortezza con cui avrebbe posato un piede nudo sull’erba inumidita dalla rugiada, affondò il pestello tra i petali. Il disappunto si dipinse in una piega tra le sue sopracciglia, quando si accorse che in quel modo non ricavava risultato alcuno. Mentre metteva più forza nel pestare, un leggero broncio le piegò le labbra e finalmente i petali iniziarono a frantumarsi, colorando di rosso il fondo del mortaio e diffondendo nell’aria la fragranza tipica delle rose rosse di Valdyer, quella che le ricordava le incursioni di nascosto nelle cantine, guidate per mano dalla curiosità tipicamente puerile di chi non può lasciare inesplorato neanche un angolo.
Assorta com’era in quell’operazione, non udì la porta aprirsi e poi richiudersi su se stessa, né i passi nell’atrio, e si bloccò sorpresa, solo quando avvertì lo stomaco contrarsi poco piacevolmente in una morsa.
Poteva catalogare quella sensazione come la consapevolezza imperfetta di percepire sempre la sua presenza nelle vicinanze. Era un senso che aveva sviluppato fin dalla più tenera età, quando durante le sue notti insonni, stretta in una copertina rosa, osservava incantata le ultime briciole di brace arrotolarsi su se stesse e nascondersi tra la cenere; la sua poltrona preferita era ammorbidita dal tempo e lei amava affondarvi il viso, in quella quieta contemplazione. Era stato allora che, per la prima volta, aveva girato la testa, come solleticata sulla nuca dal suo sguardo, e aveva trovato la sua sagoma scura sulla soglia del salotto. Sarebbero sempre rimasti impressi nella sua memoria, come frammenti che recavano ancora la tangibilità di allora, i suoi passi attutiti dal tappeto mentre la raggiungeva e i suoi capelli neri scompigliati da un sonno irrequieto e fanciullesco.
Solo più tardi avrebbe prestato attenzione ai suoi occhi che, illuminati in quelle notti solo da quello che restava di un fuoco allegro o dalla pallida luce della luna che attraversava la grande vetrata del salotto, avevano riflessi tanto scuri da perdervisi, con la facilità con cui il rossore le colorava le guance quando si rendeva conto di essere ormai coinvolta fino a quel punto.
Un sorriso luminoso si aprì sul suo volto, mentre alzava lo sguardo su di lui. Ritrovarselo alle spalle, più vicino di quanto pensasse, la destabilizzò un attimo, facendole barcollare dentro qualcosa che rimaneva quieta e silente fin quando non riconosceva la sua presenza. Finse di tornare ad affaccendarsi di pestello munita, sottraendo il viso al suo sguardo sempre così attento. Sentiva le guance scottarle per la consapevolezza che lui avesse compreso in ogni caso il suo turbamento, pur non potendo leggerne la causa nell’agitarsi inquieto in fondo ai suoi occhi.
La vista della sua mano che le porgeva una rosa le aprì la mente sul ricordo lontano e ovattato, della consistenza di un sogno – come possono essere solo i ricordi d’infanzia – della propria mano che si perdeva nella sua, il vento che le riempiva la bocca, il sole accecante che le faceva stringere gli occhi.
Quella rosa costituiva un’unica, immutabile certezza: Anthony Ross Granville ci sarebbe sempre stato per loro.
Checché se ne dicesse, dovevano sembrare davvero una famiglia singolare, e forse lo erano davvero, singolari, fosse anche solo per l’oltremodo numerosa presenza di esemplari di essere femminile che condividevano parte dello stesso patrimonio genetico.
Singolari era dire poco.
Ma le piaceva quell’aggettivo, aveva un suono pieno e spigoloso, come attribuito a qualcosa di diverso, a cui si rivolgeva uno sguardo di muta ammirazione.
Nessuno, però, avrebbe pensato a loro con altro nome che non fosse famiglia.
Lui ci sarebbe sempre stato per loro.
La rosa perse un petalo, che finì a fare compagnia a quelli che ormai della fattezza dei petali avevano ben poco.
C’era stato quando Amelia era stata male. Le era stato accanto quando la mamma riposava, tenendo sotto controllo la temperatura e mormorandole parole rassicuranti, mentre lei delirava in preda alle febbri.
La rosa perse un secondo petalo.
C’era stato per Janine, quando in preda a mille dubbi e preoccupazioni non sapeva quale fosse la strada giusta da imboccare per il suo futuro. Le era stato vicino in silenzio, negli spazi tra un pensiero negativo e l’altro catastrofico.
La rosa perse un altro petalo.
C’era stato per Diane, spettatore paziente dei suoi sospiri e tormenti amorosi, sperando intimamente che fosse solo una fugace infatuazione: chi meglio di lui poteva sapere quali disastrose conseguenze si potevano raggiungere quando c’era di mezzo Gareth Eldrige e quanto labile fosse il concetto di fedeltà quando si parlava di quest’ultimo, troppo impegnato a non dispiacere nessuna, perché il suo sguardo si soffermasse per più della veloce vampata di una fiamma su uno solo degli esponenti del gentil sesso.
Un altro e un altro ancora.
E c’era sempre stato per lei, in notti come quella, quando persa tra le impervie vie della sua insonnia, con una premura che riusciva ad attribuire solo a lui, la ritrovava e riportava indietro. Sapeva – lo sapeva! – che potevano essere solo affetto e gentilezza – non ci si sarebbe aspettati di meno da una persona amabile come Ross – ma lei, ormai, non era più in grado di immaginarsi accanto un altro che non fosse lui.
Guardarsi intorno e chiedersi perché. Come avrebbe potuto scegliere proprio lei.
La rosa perse l’ultimo petalo.

*


“Emily.”
Il cuore le sussultò in risposta, mentre una nuova ondata di calore si infrangeva sulla pelle chiara delle guance. La sua voce era un accordo basso e musicale, capace di scioglierle i pensieri più intricati e i nervi più tesi. Ricordava ancora il momento in cui, come risultato naturale e inevitabile della crescita, si era fatta da un giorno all’altro più profonda facendole perdere, stupita, il primo battito.
Non era sicura di essere riuscita a mettere insieme un’espressione di neutra curiosità, quando alzò il viso verso di lui nella muta e spontanea risposta al suo richiamo. Cancellarsi dagli occhi quel turbamento che era profonda emozione e malinconia non sapeva a quanto sarebbe servito, probabilmente albergava la maggior parte del tempo, inconsapevole, in fondo al suo sguardo, e lui l’aveva già scorto, la paura e il dubbio che potesse averne intuito la natura.
“Cosa stai facendo?”
Lo sguardo che gli rivolse racchiudeva una tale genuina sorpresa e una tale punta di indignazione, che Ross dovette trattenersi a stento dallo scoppiare a ridere.
Dinanzi alla smorfia divertita che aveva dipinta in volto, Emily si imbronciò, distogliendo l’attenzione da lui e ritornando alla sua occupazione.
Forse per impedirsi di fissare i suoi occhi accesi dal divertimento. Forse per non perdersi in quell’angolo delle sue labbra piegato all’insù.
“Cosa credi stia facendo?”
Le parole si mischiarono al rumore ritmico del pestello con cui stava disintegrando quel po’ che rimaneva dei petali.
“Sono rose di Valdyer,” le indicò come se l’ovvia e palese verità fosse racchiusa in quei fiori dal rosso tanto intenso da sembrare una finzione.
Quando si accorse che Ross continuava a guardarla divertito e anche un po’ perplesso, l’esasperazione le fece alzare gli occhi al cielo.
“Ross, sei sempre così perspicace.
L’allegria danzava nei suoi occhi con la luce tremula delle candele e lui non seppe davvero prendersela, anzi continuò a sorridere divertito e vagamente canzonatorio.
“Le rose rosse,” Emily le indicò intenta, cercando di spiegarsi, “per fare il liquore di Valdyer, ovviamente.”
In quel momento lui scoppiò a ridere davvero, una risata bassa e gioiosa, mentre le mormorava – e lei si chiese come quel sussurro potesse armonizzarsi così semplicemente allo scroscio delle sue risate – di parlare più piano, perché era notte fonda.
Emily si ritrovò a domandarsi – ancora una volta – dove fossero finite le parole e dove si fosse nascosta la sua indignazione per quell’evidente presa in giro, quando le sue mani le circondarono i polsi.
“Non agitarti così.”
Non si era accorta di aver ripreso a pestare le rose con più energia di prima e lasciò andare il pestello rimanendo con le mani inerti nelle sue. Si sorprese di come i suoi polsi sottili sparissero così facilmente in quelle mani, grandi, che erano in grado di conferirle sicurezza solo trattenendola.
La voce di Ross era divertita e bassa come la sua risata, ma in sottofondo risuonava chiaramente dell’affetto di chi ti conosce davvero e ha deciso comunque di essere lì.
“Per fare il liquore, i petali devono macerare nell’alcol per quindici giorni circa,” le spiegò paziente, interrompendo il filo caotico dei suoi pensieri.
“Per fortuna, la maggior parte delle rose sono ancora intatte.”
Lo vide allontanarsi per avvicinarsi al ripiano della cucina e con una parte remota della mente lo sentì armeggiare alla ricerca di qualcosa. Era ancora assorta nella sensazione delle sue dita attorno alla pelle sensibile dei polsi e non si capacitava di come la sua vicinanza riuscisse a confonderla al punto da non trovare altro appiglio alla realtà che non fosse lui.
“Vieni a darmi una mano con queste rose, su.”
*


Guardò estasiata il risultato del loro lavoro: avevano riempito un vaso di petali, versato l’alcol fino a coprirli e chiuso il vaso con una grossa tavola di legno, in modo che non entrasse aria né luce. “Ora dobbiamo aspettare quindici giorni”, Emily ricapitolò, ricordando le parole di lui “Così tanto?” Mise su un broncio impaziente.
“Sì, devi portare pazienza.” Lui sorrise, scompigliandole distrattamente i capelli.
“E dopo?”
“Dopo si aggiunge lo sciroppo ottenuto mescolando acqua tiepida e zucchero e si aspettano altre due settimane.”
Il broncio scomparve dietro un sorriso entusiasta all’idea del momento in cui avrebbero ottenuto i risultati sperati, sorriso che si smorzò appena, quando si ritrovò disarmata di fronte alla sua espressione altrettanto felice.
In fondo al suo sguardo risiedeva la quieta accettazione e quel calore che riuscivano a non farla sentire mai inadeguata, qualunque cosa stesse facendo, e si ritrovò ad arrossire senza accorgersene, gli occhi che si abbassavano per disperdere quell’emozione che all’improvviso le pungeva dietro le palpebre e in mezzo al petto.
In un altro momento – come aveva sempre fatto – avrebbe cercato di distrarsi e di distrarlo, ma quella notte, pur cercandola ovunque, non ne trovò la forza – né la volontà.
La sua stanchezza fisica era pari solo a quella mentale, quell’estenuante lotta contro se stessa, combattuta ogni giorno per non gridare al mondo quello che si portava dentro, a volte le faceva desiderare di mostrargli tutto, perché leggesse fin in fondo ai suoi occhi e a lei stessa.
“Ross?”
Si accorse che la voce le tremava appena e non aveva la benché minima idea di come proseguire. Lui la guardava curioso, in attesa, ed Emily ebbe l’impulso primordiale di fuggire; l’avrebbe fatto, se non fosse stato per quella mano accanto alla sua, sullo stesso ripiano cui si stava appoggiando, che giocherellava distrattamente – innocente come la confidenza che si impara solo da bambini – con le sue dita.
“Un...”
Spostare lo sguardo era stato un errore e se ne accorse quando vide la propria mano ritrarsi di scatto dalla sua e fece un salto indietro.
“Un...”
Sul ripiano, sospeso a pochi centimetri, un ragnetto zampettava allegro nella sua ragnatela trasparente.
Lo sguardo terrorizzato che gli rivolse dovette bastare, perché una mano premette sulla sua bocca soffocando preventivamente l’urlo che le aveva risalito la gola: avrebbe svegliato come minimo tutta la casa e mezzo vicinato, se quel grido avesse mai avuto via libera. Svegliare, alle quattro del mattino, la nonna, non sarebbe stata affatto una trovata geniale, soprattutto considerate le civili maniere che utilizzava per comunicare il suo sdegno. L’infelice orecchio di Ross Granville e il pavimento su cui era stato scaraventato ne riportavano ancora i segni, certamente non visibili agli occhi di chi non poteva sapere.
Emily si dibatté agitata tra le sue braccia, sgranando allarmata gli occhi in direzione dell’aracnide e cercando di mugugnare qualcosa di indistinto. Combattuta tra lo scappare a gambe levate, battere i piedi e agitarsi in preda al ribrezzo e rifugiarsi tra le sue braccia perché la proteggessero, il suo corpo sembrò registrare tutte quelle informazioni insieme, fu scossa da uno spasmo innaturale e poi si fermò, immobile, come se non conoscesse più il modo elementare per muoversi.
“Shh, calmati,” le sussurrò Ross, la mano sulla sua bocca che scivolava delicatamente dietro la nuca, l’altro braccio che la stringeva di riflesso.
“Mandalo via,” mormorò, nascondendo il viso contro di lui. Ritrovarsi in quell’abbraccio imprevisto l’aveva riscossa dallo stato di immobilità in cui si era ritrovata costretta: tutti i suoi sensi che si risvegliavano e gridavano di trattenerlo, di stringersi a lui un minuto ancora o un’eternità.
“E’ già risalito guarda.”
Vedere il ragno correre sul soffitto verso il suo angolino non la rassicurò affatto.
“Il tuo scatto l’ha spaventato.”
Sentì la sua risata direttamente contro l’orecchio e quella consapevolezza le accese un puntino di calore all’altezza del seno.
“Non è affatto divertente,” mugugnò, cercando di sembrare contrariata, quella nota stonata che era solo il fiato che stentava ad uscire, mentre sentiva il cuore galoppare veloce nel petto.
Lo sentì ridere ancora e si fece cullare da quella risata, chiudendo gli occhi e appoggiandosi a lui. Si sorprese ancora una volta di quanto fosse semplice affidarsi completamente a lui, fidarsi delle sue braccia perché le impedissero di cadere, delle sue mani perché non la abbandonassero mai.
“Andiamo a dormire?”
Forse erano le sue braccia strette attorno a lei a far vorticare il buio dietro le palpebre chiuse, forse era la voce con cui le aveva sussurrato all’orecchio e le mille prospettive che quella domanda le aveva schiuso nella mente, forse era solo la sua vicinanza ad aprirle la strada per una dimensione in cui ogni sensazione era sempre troppo intensa, ogni emozione troppo grande da legarle i polsi e imprigionarla nella dolcissima sensazione di non riuscire più ad appartenere solo a se stessa.
Solo silenzio, fuori e dentro di lei, il rimbombo sordo del cuore che cessava nell’attimo esatto in cui realizzava che erano le sue labbra, quelle poggiate sulla sua testa, il suo respiro caldo tra i capelli. Si concesse un attimo ancora per bearsi di quella sensazione, poi annuì semplicemente, mentre una remota parte della sua mente gridava per la distanza che si stava frapponendo tra loro, prima ancora di raggiungere la completa consapevolezza di non ritrovarsi più tra le sue braccia.
Per un momento, mentre la lasciava, scorse nel suo sguardo qualcosa che non aveva mai visto – sempre attenta a memorizzare anche il più piccolo dei particolari di lui – una luce talmente intensa e profonda che la spiazzò. Fu un secondo, quando tornò a guardarla, nei suoi occhi scuri ritrovò il calore di sempre, in fondo ai propri impresso il ricordo del dolore sordo al petto che aveva provato di fronte a quello sguardo e all’idea che fosse davvero rivolto a lei.
“Ross.”
Si disse che era meglio interrompere quel silenzio e l’eco dei suoi pensieri. In lontananza risuonavano ancora le sue parole, ne avrebbe ricordati il sussurro e la cadenza ancora per molto, ne era certa.
Andiamo a dormire.
Si stropicciò le mani incerta.
“E se dovesse ritornare?”
Il solo pensiero di quel coso bastò a distrarla da qualsiasi divagazione la sua mente stesse operando su quelle semplici parole e la fece tremare di raccapriccio.
“Non tornerà, sta’ tranquilla.”
Sorrideva, di quel sorriso canzonatorio che le piaceva tanto.
“E se... dovesse? E se si infilasse nella mia stanza?” La voce si alzò di un’ottava in una nota più acuta e inorridita delle altre. “E se... me lo ritrovassi nel letto?”
E se... non aveva svegliato metà della Vecchia Capitale in quel momento, non l’avrebbe fatto mai più.
“Va bene, va bene, andiamo prima che la nonna ci scopra in piedi a quest’ora.”

Il senso pratico di Ross e la sua voce pacata erano proprio quello di cui aveva bisogno in quel momento e non si rese conto di dove la stesse guidando fin quando non si ritrovarono nella propria camera, la porta chiusa silenziosamente alle loro spalle.
“Così non entrerà nessun ragno,” sussurrò piano Ross, mentre la serratura scattava su se stessa.
“Facciamo silenzio, immagino avremo... avrai,” si corresse, sorridendo nella sua direzione, “di sicuro svegliato qualcuno.”
Armeggiò ancora nei pressi della porta, cercando di carpire anche il minimo rumore, e il tramestio proveniente da un punto imprecisato della casa fu la conferma alle sue parole.
“Va bene,” esordì pratico, cercando di non farla agitare, “aspetteremo un po’ fin quando non saremo sicuri che, chiunque sia, è tornato a dormire.”
Non sentire neanche un fiato proveniente dalle sue spalle lo preoccupò e quando si voltò a guardarla notò che era ancora ferma, immobile, lì dove l’aveva lasciata.
Essere cresciuto circondato prevalentemente da esseri femminili poteva avere i suoi vantaggi: sia per il suo carattere incline alla pazienza e ben accomodante, sia per i modi gentili e galanti, si era conquistato il rispetto di chiunque lo conoscesse, oltre a costituire il sogno di qualsiasi madre per la propria bambina – vedersi poi recapitare proposte di fidanzamento dalle suddette madri, con tanto di descrizione dettagliata della suddetta bambina alla stregua di un capo di bestiame offerto al miglior offerente sul mercato, non era più tanto positivo, doveva ammetterlo; ma anche i suoi svantaggi: cosa fai quando ti accorgi che qualcosa è cambiato? Cosa fai quando ti rendi conto che, quella che è sempre stata tua cugina Emily, non lo è più? Quando esattamente una voce nella tua testa ha iniziato a chiamarla semplicemente, senza possibilità di replica, la tua Emily?
Anthony Ross Granville non aveva la risposta a tutte queste domande e, nell’indecisione, continuava a comportarsi come sempre – non potendo evitarsi di sostare più a lungo con gli occhi su di lei, di protrarre all’infinito i fugaci contatti – diviso tra il buon senso che gli diceva di cancellare dai pensieri quell’immagine di lei diversa, eppure così uguale, che diventava sempre più insistente e l’istinto che lo invitava ad assecondarla, a cercare il momento giusto.
Ma ora, guardandola lì ferma, gli occhi distanti, i pensieri persi chissà dove – le davano quell’espressione assorta che si era ritrovato più di una volta ad osservare, desiderando inconsapevolmente di essere lì con lei, di poterla raggiungere, ovunque andasse – si disse che non esisteva il momento giusto, se non dentro di sé.
Si avvicinò a lei con l’intento di scoprire cosa ci fosse che non andava e si accorse che ora lo stava guardando, incertezza e stupore negli occhi chiari.

Emily aveva smesso di respirare nell’attimo stesso in cui lui aveva richiuso la porta alle loro spalle. Stava ancora cercando di mettere insieme tutti i dettagli che le facessero interpretare correttamente la situazione, ma era oltre le sue capacità, in quel momento. Risultava ancora più difficile ora che lui era a pochi centimetri da lei.
“Emily?”
Aveva negli occhi quella preoccupazione che gli aveva visto tante volte, quando cercava di districarsi tra i fili contorti dei suoi pensieri, e una luce nuova, diversa.
Non esisteva il momento giusto.
Non ebbe il tempo di comprendere quale fosse la consistenza di quella nuova consapevolezza che, pur nella penombra, scorgeva in fondo al suo sguardo, che si ritrovò a sgranare gli occhi, il viso tra le sue mani, le sue labbra sulle sue.
Se non dentro di lui.
Il cuore le si era fermato nel petto, un dolore acuto e dolce che le stringeva la gola tanto forte da poter spezzare il respiro in un singhiozzo, se mai ne avesse posseduto uno.
Il tempo si dilatò all’infinito, ma prima ancora che se ne rendesse conto, lui si era allontanato e si ritrovò a fissare i suoi occhi: vide affiorare il principio di un timore talmente familiare che per la prima volta quel dolore al petto si accese di una speranza tanto dolce da farle spuntare un sorriso inconsapevole.
Trattenne le sue mani sul proprio viso quando si accorse che stava per ritrarsi, incerto, stringendo con più forza di quanta volesse – resta, ho paura anch’io – le sue braccia.
“Non...”
La voce le uscì stridula e fece una smorfia di disappunto all’ennesima presa di coscienza di quanto non avesse più il controllo di se stessa, quando era vicino a lui.
“...ero tranquilla, non stavo per urlare.”
Si accorse di quanto doveva risultare stupido, quello che aveva detto, il filo logico perso chissà dove. E avrebbe continuato a blaterare senza senso, se lui non avesse sorriso in quel modo. “Sarebbe stato un bel modo per zittirti.”
Quello stesso sorriso nella sua voce, che le faceva battere furiosamente il cuore.
“Se mai fosse stata quella, la mia intenzione.”
Le dita di Ross scivolarono tra i suoi capelli, il viso che le scottava tra le sue mani mentre lo sollevava leggermente verso il suo. E questa volta ebbe tutto il tempo per rendersi conto di cosa stesse per fare. Ebbe tutto il tempo per escludere il mondo, tutto ciò che non fosse lui, dietro le palpebre chiuse, morire e poi rinascere sulle sue labbra.
“Non mi prenderai un infarto proprio ora, vero?”
Quel sussurro le arrivò da lontano e a un soffio dalla sua bocca, immaginò a occhi chiusi la sua espressione divertita, prima che tornasse a baciarla, annullando ogni altro pensiero.
Erano sempre gli stessi Ross ed Emily che, con ancora il profumo dell’innocenza nella voce, si nascondevano in una stanza buia per non farsi scoprire in piedi a notte fonda, le risate soffocate da mani premute forte sulle labbra.
Erano sempre gli stessi Ross ed Emily che si scambiavano sguardi complici da un lato all’altro di un’enorme tavolata di parenti riuniti per l’infelice e interminabile succedersi di chissà quale ricorrenza.
Lui riusciva a capirla con un solo sguardo.
Fuggire di soppiatto, per poi ridere divertiti e complici, le espressioni stoiche dipinte in viso, quando li richiamavano perché stessero seduti a tavola.
Erano sempre gli stessi Ross ed Emily, eppure diversi, ora che le soffocava un ansito sulle labbra, mentre lei si aggrappava letteralmente alle sue braccia e poi al suo viso, come ad assicurarsi inconsapevolmente che fosse davvero lui, che fosse davvero lì.
Quello che Emily avrebbe sempre ricordato sarebbero stati il sapore delle sue labbra la prima volta che l’aveva baciata, quel profumo di rose rimasto incollato alle loro mani, impresso nei loro sensi, e le parole indistinte che le aveva mormorato nello spazio infinitesimale tra un bacio e l’altro.
“Saranno andati a dormire.”
Ma non accennava a lasciarla andare.
“Cosa... pensi?”
Ma non le dava il tempo, il fiato, la voce per rispondergli.
“Sei tu.”
“Solo tu.”
E l’aveva stretta forte al petto.
Anche tu ti sei incastrato in fondo al mio cuore.
Perduta.
Come l’ultimo petalo di rosa.










Note: tutto di Savvina/ Virginia de Winter, Black Friars (as u know), io mi sono solo divertita a farli smuovere un po’ (dietro incitazione della diretta interessata XD).

La storia partecipa al contest “Rosa, rosae”, indetto dalla prof, Mirya, che trovate qui:. Rosa, rosae

Non l’ho iniziata pensando di partecipare, non l’ho iniziata pensando neanche che qualcuno (oltre a Emy, “rimane tra me e te”, dicevamo XD) l’avrebbe mai letta, e invece eccomi qua e va bene così :)
E siccome i lupi, porelli, sono in via d’estinzione, in bocca al vampupo (Emylogismo, per rimanere in tema XD) a tutte le partecipanti :)

EDIT: siccome mi è stato chiesto, e avevo già pensato di sottolinearlo, in realtà, ma poi mi è passato di mente, questa parte della storia: “Svegliare, alle quattro del mattino, la nonna, non sarebbe stata affatto una trovata geniale, soprattutto considerate le civili maniere che utilizzava per comunicare il suo sdegno. L’infelice orecchio di Ross Granville e il pavimento su cui era stato scaraventato ne riportavano ancora i segni, certamente non visibili agli occhi di chi non poteva sapere.” Si riferisce ironicamente ad un passo del libro.
Ve lo riporto per chiarezza: “Lady Sabelle era tutto meno che la dolce e indifesa nonnina che il fratello stava dipingendo. Era la madre del Reggente di Valdyer, il Grande Vecchio, come lo chiamavano tutti, ed era ancora capace di fargli assaggiare il tacco della sua pantofola. «Prova a farla arrabbiare, vedrai quanto è dolce. Una volta l’ho vista prendere Ross per un orecchio e scaraventarlo sul pavimento. Eravamo entrambi abbastanza ubriachi e anch’io ho rischiato parecchio. Cerca di starle alla larga quando ha il suo bastone in mano e non è propriamente di buon umore». (Black Friars, L’Ordine della Spada, pag 341-342)

Un’altra cosa, il liquore alle rose rosse di Valdyer viene citato più di una volta nel libro, ma non so effettivamente come si faccia, ho cercato una ricetta di un liquore alle rose e mi sono riferita a quella.
Per qualsiasi altro dubbio non esitate a chiedere :)

EDIT2: Sono usciti i risultati del contest “Rosa, rosae” che potete trovare qui: Risultati e quindi ho apportato qualche correzione: di ortografia e sono stati aggiunti un paio di spazi.


   
 
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