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Autore: Neal C_    20/06/2011    4 recensioni
Virginia Foster si trasferisce in una cittadina anonima, Rodeo, in California. Abituata ad essere sempre la prima della classe neppure alla Pinole Valley High School si smentisce e così non può rifiutare una richiesta della cordinatrice del suo corso: aiutare un compagno di classe particolarmente refrattario allo studio, con la testa perennemente nella musica, spesso assente e in continuo conflitto con i professori a cui si rivolge con linguaggio piuttosto colorito, contestando tutto.
Saprà rimettergli la testa a posto o verrà trascinata nel suo mondo di insoddisfazione, di ribellione e continuo rifiuto?
Ha solo cinque mesi per convincerlo* che la scuola non è tutta da buttare, lei che nei libri e nella cultura ci naviga fin da bambina.
*(Armstrong abbandonerà il liceo il 16 febbraio 1990, il giorno prima di compiere diciott'anni.)
[Rating Giallo: linguaggio colorito]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Billie J. Armstrong, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Virginia Foster 1989-2004'
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Ottobre
Strazi e rivelazioni


Alla fine non sono riuscita a scoprire il perché della partenza di Malika.
Quel giorno non mi ha aspettato per l’intervallo, a pranzo non c’era e solo il giorno dopo ho scoperto che aveva presentato una lettera di rinuncia agli studi.
Pensavo che a diciassette anni non si potesse lasciare la scuola ma a quanto pare aveva anche una delega di trasferimento.
Da brava stupida,  ho fatto passare almeno cinque giorni prima di decidermi a chiedere in segreteria il suo indirizzo.
Domani la vado a trovare.
Voglio almeno salutarla, augurarle buon viaggio; specie se ha deciso di tornare in Africa, non so come se la caverà, veramente.
Ne so poco dell’Africa e quel poco che so mi terrorizza.
Insomma, io non potrei mai vivere in uno stato come il Sierra Leone o la Costa d’Avorio o il Senegal con la fame, la guerra, la povertà…
L’unico posto ragionevole sarebbe il Sudafrica ma il sistema dell’apartheid mi ripugna.
Non so neppure lei di dove sia.
È strano come per noi qui, in America, o in Europa, l’Africa sia tutta uguale.
Già che c’ero ho preso anche l’indirizzo di Armstrong, visto che in questi giorni non si è fatto vedere.
D’altra parte non credo che abbia intenzione di ricevermi a casa, figuriamoci venire lui a casa mia.
Non prenderebbe mai l’iniziativa e anche io vorrei mandare tutto al diavolo.
Se non interessa a lui perché dovrebbe interessare a me!?

“Meine liebe, kannst du, bitte, den Tisch decken?* ”
“Gewiss doch*”
“Ehi, vipere che state mormorando in germanische, ja woll?!”
“Niente Frank, ho solo detto a Vig di avvelenare il tuo boccale di birra serale”
“Oh, quoque tu, Aprile*, cara mia.  ”
“Allora non ti sei trasformato in un asino lavorando nei forni eh?”
“Ehi cocca, il fatto che io abbia fatto il pizzaiolo invece che il latinista non significa che ho dimenticato tutto quel poco che abbiamo passato al liceo. Anzi! Potrei mettermi a fare il latinista quando voglio!”
“Uhm…certo, certo dicono tutti così! Proemio dell’Eneide? ”
“Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris, Italiam fato profugus Laviniaque venit litora…*”
“Cicerone, prima catilinaria!”
“Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? quam diu etiam furor iste tuus nos eludet*?”

Mio dio, quando fanno così non li sopporto. Si beccano come due fidanzatini.
Mamma in questi ultimi mesi è stata davvero strana.
Non ha fatto altro che ridacchiare con Frank, giocando a chi dice la cosa più stupida.  
Ha riempito la casa di croccantini per gatti, tanto che Kelly ha messo su almeno tre chili, ha comprato a Dominick un videogioco e un paio di Levi’s, e nell’ultimo week-end ci ha portati tutti a cinema con l’espressione da “famigliola felice” stampata in faccia.
Ogni sera, verso le nove,  telefona a papà che continua a venire raramente, forse perché non ha la forza di farsi sei ore e mezza di macchina da Los Angeles.
Eppure adesso siamo molto più vicini, e lui aveva promesso che sarebbe venuto a trovarmi più spesso, specie all’inizio della scuola.
Quanto alle telefonate sono brevi e piene di raccomandazioni.
E poi scompare dalla nostra vita, almeno fino alle nove della sera dopo.

Squilla il telefono.
Chi sarà a quest’ora?
Di solito  lo stacchiamo perché non vogliamo seccature e tutti quelli che ci conoscono lo sanno; non si sognerebbero mai di chiamare all’ora di cena.
Mia madre risponde, ancora ridacchiando:

“Pronto, qui casa Foster.
Buonasera, piacere mio.
Virginia?  Mi scusi ma lei chi è?
Oh, capisco.
Un attimo che gliela passo.
Si, altrettanto. Grazie.
Arrivederla.
Vig, c’è qua un signore che vuole parlarti.”

Che?
Mamma deve vedere la mia faccia allucinata perché scrolla le spalle e mi sorride, divertita.

“Tesoro, il padre di un tuo compagno di classe. Sbrigati su.”

Prendo in mano la cornetta con un pessimo presentimento che mi ronza in testa come una zanzara fastidiosa.  
Il padre di Mike? Mamma l’avrebbe riconosciuto.
Il padre di Sab o di Meggy? E perché dovrebbe chiamarmi?
Il padre di…Malika? Ma che dico! Sto dando i numeri!

“Pronto. Chi parla?”
“Sono il padre di Billie Joe. Sei Virginia?”
“Come scusi?”
“Sei Virginia Foster?”
“Si, sono io.”
“Ho ricevuto una lettera di Mrs Carson, la vostra insegnante di inglese. Diceva che per il recupero di Billie dovevo rivolgermi a te.”
“Ehm…magari posso parlarne direttamente con lui, domani…o anche ora, insomma…”
“Guarda, in questo momento non c’è e non vorrei aspettare.
Potete incontrarvi lunedì, verso le quattro,  al **** di ***** Street* ? Per te va bene o è troppo presto?”
“Aehm…non possiamo fare quattro e mezza?”
“Va bene, quattro e mezza. Allora a domani, Virginia.”
“Va b-bene, uhm…buona sera.”

Oddio.
Domani, dopo scuola, devo correre prima a casa di Malika, perché lei parte domani alle sette, e poi a casa di Armstrong.
Non ci posso credere. Ho la sensazione che il mondo mi stia cadendo addosso.
Non ho preparato niente per un corso di recupero! Non ho fatto una lista degli argomenti.
Devo recuperare quei pochi appunti che ho preso in classe che sono sparpagliati per la camera, chissà dove.
Non sono una particolarmente ordinata, specie quando ho altro per la testa.
Per almeno due settimane ho dormito con gli appunti sparsi sul pavimento, i calzini e le magliette appallottolate e dimenticate sotto il letto, così come i miei pupazzi, e, sul comodino, due o tre bicchieri di carta sporchi di caffè, un thermos per il tea e la tazza, con le foglie ancora sul fondo.
Per non parlare delle briciole.  Sembrava una casa per studenti in cui non si organizzavano i turni per le pulizie da secoli.

“Virginia, che è successo? Che voleva quel tizio?”
“Cosa?”
“Che voleva quello a telefono?”
“è il padre di un mio compagno.”
“Ho capito ma…”
“Voleva che aiutassi suo figlio in inglese.”
“Ah. Ma non si organizzano i corsi di recupero?”
“Lascia perdere, mamma.”

Mi lascio cadere sul divano.
Dio, mi è passata la fame. Che rottura di coglioni.
Mi alzo subito dopo e vado verso la scala.
Devo organizzare qualcosa per domani; non posso mica presentarmi così?
Chissà se lui ha mai aperto un libro? Devo fargli fare anche qualche cenno sul programma dell’anno scorso?
Come può capire il romanzo di Irving oppure Poe se non sa neppure chi sia Brown*?
Dove ho messo quelle schede su Brown che mi ha dato la Carson all’inizio dell’anno?
Se non le trovo dovrò sperare che lui abbia il libro dell’anno scorso, se non lo ha riconsegnato alla prof*.

“Vig! Dove vai!? Stiamo aspettando te per mangiare!”
”Mamma, non ho fame. Vado a dormine.”
“Assolutamente no, signorina. Tu mangi troppo poco, sei magra come un’acciuga e io mi preoccupo!”
“Mamma, non lo hai mai fatto. Sono nata così! Non sono mica denutrita!”
“Amore, Frank ti trova pallida”

Oh, ma questa è scema. E che diavolo centra Frank in tutto questo!
Sono affari miei quanto mangio, quando mangio, dove, come, con chi ecc.
Mamma non mi ha mai fatto storie per queste scemenze.
E adesso, tutt’ad un tratto, fa la piantagrane?

“E chi se ne frega di quello che dice Frank!”
“Virginia, per piacere, non rispondere così e vieni a tavola.”
“Mamma, ti prego, sto morendo di sonno. Ti giuro che non ho fame, ho anche fatto merenda piuttosto tardi e ho i biscotti sullo stomaco.”
“Ti da fastidio lo stomaco?”

Ecco, magari così me ne libero.

“Si, mamma, ho bisogno di stendermi. Fammi andare a letto.”
“Ach so, meine liebe, gute nacht*”

Era ora.  
Che strazio.

******************************


Oggi la scuola sembrava non finire più.
 Se penso che mi aspetta un pomeriggio simile, mi deprimo.
Anche perché ho portato anche la cartellina degli appunti, con un vecchio libro di letteratura e storia anglo-americana che ho usato per prepararmi per il test.
Risale ai tempi di mia madre, è tutto scritto, pieno di appunti al margine, che occupano tutto lo spazio possibile tanto che mi sono adattata ad annotare tutto a parte, su dei foglietti, messi in punti strategici.
Vabbè, lasciamo stare.  Fatto sta, che adesso il mio fedele Eastpack pesa un casino.
 A proposito di mamma…
Non le ho detto niente di oggi.
Non le ho detto che sto cercando casa di Malika nel posto più desolato di Berkley, tre quartieri più a nord del nostro, né che vado a casa del mio sconosciuto compagno di banco.
Sono seduta in un piccolo pullmanino sgangherato che hanno il coraggio di chiamare autobus.
Probabilmente non mi avrebbe mai fatto andare da sola. O forse si, ma io non voglio correre il rischio.
Davanti a me è seduta una vecchietta che sta facendo le ragnatele.
Non so quando sia salita ma è seduta lì da più di venti fermate, con la testa abbandonata in avanti e la bocca semiaperta, e ogni tanto si lecca le labbra, cercando di non sbavare sul sedile.
è comico osservarla. Ho la sensazione che…. no… lo sapevo!
Sta dormendo! A questo punto avrà perso la fermata!
Accidenti, mi fa pena.

“Signora!”
“Auhm…roooonf…”
“Signora! Si svegli!”
“Uaaaahm…zzzzz…snort”
“SIGNORA!”
“Ah! Eh?! Chi? Che?!”

Finalmente! Ormai mezzo pullman mi sta guardando, decisamente incuriosito e un po’ sorpreso.
E la signora mi fissa come se fossi parte dei suoi sogni strampalati…o dei suoi incubi, non so.

“Mi scusi, signora, ma si era addormentata”
“Che?! Mi hanno derubata?!?!”
“No, dicevo che si era addormentata!”
“Cooosa?!?! Ti hanno malmenata?!??!”
“SI ERA A-D-D-O-R-M-E-N-T-A-T-A!!!”
“Aaaaah, cara ragazza, grazie, cara! ”

La signora si sporge contro il finestrino e sbatte la testa contro il vetro.
Sembra un incrocio fra un gattino e un rettile*.
Mi sporgo anche io per vedere a che punto siamo. Fra tre fermate devo scendere.
Speriamo che questa tizia non si metta a chiacchierare.

“Ma cara, dove siamo?”
“Aehm, siamo in California Street, all’altezza di Trigder Road.”
“Tigre, cara? Quale tigre? Qua non ci sono tigri. Non siamo mica in Malesia.”
“T-R-I-G-D-E-R   R-O-A-D”
“Ma cara, il pullman non passa per di là! Devi esserti sbagliata!”

Dio, che nervi questa tizia. Sembra davvero stonata come una campana.
Con mio grande disappunto la vecchietta si rivolge ad un tipo che stava seduto esattamente dietro di noi, con una lunga barba nera, cespugliosa e un espressione tanto seria da incutere rispetto e timore.

“Scusi signore, sa dirmi dove siamo?”
“California Street, all’altezza di Trigder Road “
“Oh, grazie mille, giovanotto.
Vedi cara? California Street, Trigder Road! Bambina! Mica ti eri persa?
Stavi pensando alle tigri e a Sandokan*? Oh, che bel cartone quello!
 Lo facevo vedere ai miei nipoti, qualche anno fa, quando abitavamo ancora a Cambridge.
Perché, bambina, io ho sempre vissuto qua, fino ai miei ventitre anni, poi ho sposato quella buon’anima di mio marito, Philips, e mi sono trasferita con lui a Cambridge e poi…blablabla…e siamo tornati nel…blablablabla… ”

Ecco, lo sapevo. E adesso chi la ferma più,
Si è messa a raccontarmi la storia della sua vita ma io non ho nessuna intenzione di ascoltare.
Innanzitutto non capisco se davvero era sorda o ha fatto finta di non sentirmi prima, quando le ho dato le indicazioni.
Eppure la voce del tizio barbuto era pure più grave e masticata della mia!
Modestamente, ho una voce bella limpida, e molte volte mi hanno fatto i complimenti perché scandivo bene le parole.
Insomma che diamine ha questa matta di una nonnina?
Speriamo che non si faccia accompagnare fin sotto casa.

“Blablabla…e quindi quando nacque Mary Jane…blablablabla…insomma, cara, capisci che roba? Se ne è andato di casa tre giorni dopo il parto e non è più tornato! Uomo degenere! Io ringrazio sempre il Signore di essermene liberata, certo, però…a quel modo…”
“Mi scusi, signora! Ma questa è la mia fermata! Devo scendere!”
“Ooooh, che fermata è?”
“L-A- T-E-R-Z-A!”
“Oh, è la mia. Ti accompagno io, cara. Potresti perderti. Vedi, qua non siamo mica in Malesia.
 Ma cara, non c’è bisogno di urlare, ci sento benissimo!”

Perfetto.
Lo sapevo che alla fine mi toccava accompagnarla.
Salto già dal pullman e poi tendo la mano alla signora, per aiutarla a scendere.
Speriamo che non abiti troppo lontano…anzi basta con questi “speriamo”!!!
Mi hanno già creato un sacco di guai!

“Piccolina, quanti anni hai? E come ti chiami, eh?”
“Mi chiamo VIRGINIA  e ho DICIASSETTE anni”
“Oh, Virginia. Scusami, dicevi? Mi sono distratta, quanti anni hai detto che hai? Quattordici? Quindici?”
“DICIASSETTE!”
“Oh, cara, sicura? Mica sei di nuovo con la testa fra le nuvole? A me sembri più piccolina! Così magra, caruccia, hai fame?”

Questa tipa mi ha rotto le scatole.
Affretto il passo. Ok, così non la agevolo di certo ma ho bisogno di sfogarmi:
Odio le persone irritanti e quelle sarcastiche, quindi, alle volte, anche me stessa, ma che ci posso fare?

“Rallenta, cara, non ti seguo bene…”
“Signora, conosce casa Numba? Dovrebbe essere su questa strada.”
“Uhm…Numba…la mia vicina! Anche lei una cara ragazza, sembra una scolaretta ma in realtà ha sei femmine e tre maschietti. Due maschietti sono piccolini, uno è malato, povero ciccino. E il più grande è rimasto in Sudan con altre tre figlie…”
“Si, esatto, loro. Siete vicini di casa?”
“è pochi metri più avanti! Pensa che quando si traferirono…blablabla…”

Grazie al cielo siamo a pochi passi dalla porta di una casa anonima, in cartongesso e mattoncini, grigiastra e dannatamente campagnola. Non troverò mai un condominio qui, a Berkley, mi ci posso giocare due dita della destra.

“Signora, è stato un piacere!
“Tesoruccio, torna a trovarmi qualche volta!”
“Aehm…certo! Arrivederla!”

Fuggo prima che la nonnina possa ripensarci e chiedere se può accompagnarmi a fare visita ai Numba.
E quando mi grida un po’ stridula “Cara, aspettami! È tanto tempo che non vedo i signori N…” io faccio finta di non sentire e affretto il passo.

******************************

Busso davanti alla porta di casa Numba.
Il loro giardino è nel caos più totale. Giocattoli per bambinetti dai cinque ai tredici anni, la pompa ad acqua che emerge dalla foresta dei cespugli che non vengono potati da un secolo. L’erba è alta, ci sono un paio di timidi alberelli che stanno soffocando sotto la stretta delle edere, parassite per natura, che hanno prosperato selvagge e indisturbate.
Mi apre una signora nera, due occhi scuri e profondissimi, di una bellezza sciupata, con gli occhi rossi e stanchi, in magliettona, pantaloncini e  grembiule e con uno chignon di ricci afro neri.

“Buongiorno. Sono Virginia Foster. C’è Malika?”
“Como scussa*?”
“Malika. C’è Malika?”

La donna non sembra ben capire cosa dico.  Si guarda intorno, afflitta e alza le mani, in segno di attesa.
Poi si rinfila dentro, come un animale che si ritira nella sua tana, spaventato.
Non oso guardare dentro. Non voglio sembrare una ficcanaso.
Dall’esterno si vede davvero poco, l’ingresso deve essere senza finestre perché è abbastanza buio.
Rosso. Vedo qualcosa di rosso. Forse la carta da parati.
 Se è davvero così allora è un pugno nell’occhio!
Dalla porta si affacciano un paio di testine ricciolute, piene di treccine e perline che mi osservano così intensamente da mettermi in imbarazzo.
Dimenticavo quanto sono delicati i bambini in questi frangenti…
Finalmente vedo Malika sulla soglia della porta.

“Ciao Malika!”
“Ciao”

La conversazione langue e le occhiate imbarazzanti continuano.
Accidenti, potevo portare un fiore, un dolcetto o un pensiero dall’America.
In fondo stanno per partire, che diamine…

“Io ho detto alla Carson che non serve che tu vieni, perché io torno a casa mia.”
“Oh, ma io sono venuta solo a salutarti. Volevo sapere come andava, se avevi voglia di raccontarmi cos’è successo…”
“Perché ti importa?”

Questa sua domanda mi spiazza. È fredda, gelida e sospettosa.
Sento le guance che avvampano; mi sto facendo rossa, non so se per l’imbarazzo o cosa.
Cresce anche l’indignazione. Io mi preoccupo per lei e quella che fa?
Mi tratta così?!

“Malika, non lo so se ti vedrò mai più. Una volta abbiamo parlato, mi hai raccontato tutto.
Credevo che avessi cominciato a fidarti di me. Io ero e sono tutt’ora sinceramente preoccupata per quello che è successo alla tua famiglia e voglio starti vicino, consolarti…
Vorrei che, una volta partita, tu ti ricordi che, qui a Berkley, hai potuto contare su un’amica, specie quando ne avevi più bisogno!”
“MA IO SONO STUFA! STUFA DI STARE IN QUESTO PAESE DI MERDA!
DOVE TUTTI TRATTANO DI MERDA,  DOVE NESSUNO è FIDATO, NESSUNO è AMICO!”

Oh mein Gott.
Sta piangendo.
Lacrime di rabbia.

“MALEDETTO IL GIORNO CHE SIAMO VENUTI QUI! BRUTTO STRONZO DI MIO PADRE. DEVE CREPARE!!!”

La abbraccio.
Lei versa tutte le sue lacrime sulla mia spalla; mi bagna la camicia dell’uniforme che diventa trasparente. Machissenefrega…
Sta singhiozzando talmente forte che ho paura che le manghi l’aria prima o poi.
Le teste che prima si sporgevano fissandomi sfacciatamente sono scomparse, con discrezione e in silenzio.
Non so che fare. Non la conosco abbastanza. Alla fine perché sono andata a salutarla?

“Shshshshshshshshsh…calmati, respira…”

Perché si.
Perché aveva bisogno di questo sfogo e non c’è niente di meglio che piangere sulla spalla di una persona amica.

“Io vollio tornale a caaaasssaaaa! Ma ho paura per mio fratello! Che se non troviamo uno buono dottore lui muore!”
“Shsh…Malika…guardami…Malika…va bene?
Sicuramente esistono ottimi dottori, gente in gamba che vedrà tuo fratello, anche se so che l’Africa non è un posto all’avanguardia, però adesso devi tranquillizzarti, aiutare il tuo fratellino a sorridere.
Se non lo fai tu, allora chi?”

 Mi sento un’idiota.
Ho paura che pensi che sto sparando solo baggianate, come dice il protocollo della conversazione modello.
E invece è l’unica cosa che penso e spero anche io per lei.
Pian piano si stacca da me e tira su con il naso, asciugandosi la faccia con il dorso della mano.

“Quel figlio di puttana di mio padre ha lasciato noi e adesso noi non possiamo stare qui da soli.
Mamma non parla una parola di inglese, capisce a malapena. E poi è sola, non c’è nessuno di famiglia ad aiutarci, né la nonna, né il nonno. Tutti in Sudan.”
“Allora torna a casa per affrontare questa cosa con la tua famiglia. E adesso fammi un bel sorriso, che le lacrime ti imbruttiscono!”
“Io…Grazie, Virginia, io adesso ricorderò sempre. Tu anche?”
“Io anche. Mi scriverai?”
“La posta non funziona molto. Io proverò.”
“Va bene. Il mio indirizzo ce l’hai?”

Scuote la testa.
Glielo annoto su un pezzetto di carta che lei si mette in tasca.
Rimaniamo a guardarci mentre i suoi occhi scuri riprendono quell’aria seria e indagatoria.

“Allora, buona vita qui in America- Se ti piace, rimani. Ma io odio questo posto.”
“Buon viaggio, Malika. Vedrai che tutto si sistemerà…anche io preferivo Berlino, ma pazienza!”

Finalmente mi fa un timido sorriso e sventola la mano in segno di saluto.
è contenta che io sia venuta.
Quanto sono contenta io, di essere venuta.
Meno male che le è tornato il sorriso.

Adesso dove prendo l’autobus?
Vediamo il prossimo passa alle…oddio!
Sono le quattro e mezza!!!
Sono le quattro e mezza e io sono ancora a quattro isolati da qui, con venti fermate che precedono la mia!
Arriverò in ritardo a casa di Armstrong.
Scheiße *!

********************************

Alle cinque e un quarto busso finalmente alla porta di casa Armstrong.
Sono in ritardo di tre quarti d’ora. Cazzo, e quelli mi staranno aspettando lì tutti fiduciosi!
 Chissà cosa avranno pensato. Forse che gli davo buca…
Nessuno viene ad aprire.
Può darsi che non mi hanno sentito.
Busso di nuovo, stavolta più a lungo, tanto che il campanello risuona anche oltre la porta di casa.

“Chi cazzo è a quest’or…?”

Mi trovo davanti un trentacinquenne o poco più grande che mi guarda malissimo come se avessi interrotto qualcosa di molto, molto importante.

“E tu chi sei? ”
“Aehm…sono Virginia Foster. C’è…uhm… Billie Joe?”
“Non c’è.”

Non è possibile.
Va bene, sono arrivata in ritardo di tre quarti d’ora, ma non può avermi mollato così, senza avvertirmi.

“Io…avevo un appuntamento alle quattro e mezza con Billie Joe. Dovevamo studiare insieme. È uscito da molto?”
“Studiare insieme, eh? Non è ancora rientrato, da stamattina.”

Che fastidio! Perché mi guarda in quel modo? Non mi crede?! Si facesse gli affari suoi questo idiota sulla porta.
Idiota e maleducato! Non mi ha nemmeno fatto accomodare a casa, come si usa fra persone civili.
Io sono in giro da stamattina e che cazzo!
No, aspetta…
DA STAMATTINA?!?!?!?
Mi ha appeso!
Semplicemente non ha intenzione nemmeno di presentarsi a casa sua!
Intanto il tipo sulla porta sembra essersi spazientito e sembra sul punto di cacciarmi via quando sentiamo entrambi un rumore di passi, sul cotto dell’ingresso.
Compare un ometto attempato, cinquanta anni abbondanti o anche di più, in babbucce e con una vecchia vestaglia a righe. Orribile.
Ha qualche capello bianco di qua e di là ma per il resto mantiene il suo castano un po’ innaturale.
Insomma ha l’aria di quello che deve rifarsi la tintura, che i capelli bianchi sono ricresciuti.
Ha un’aria assonnata, il viso gonfio e gli occhi rossi.
Mi sa che l’ho svegliato.
Mein Gott…

“Sei Virginia?”
“Si, sono io. Lei è il signor Armstrong?”
“Diciamo di si. Ma vieni, entra pure.
Alan, tu stai andando?”
“Si, Tim*, ci rivediamo la settimana prossima.”
“Ok, Ciao.
Vieni, Virginia.”
Non so se Billie Joe è in casa...”
“Aehm, mi ha detto il suo amico che non c’è.”
“Alan è mio figlio adottivo.”

Quel maleducato musone mezzo debosciato? Ma ha quasi quarant’anni!
Attraversiamo l’ingresso e ci andiamo a sedere in soggiorno.
Fino ad adesso niente di straordinario. La casa è un po’ sullo stile della mia, con un gusto meno orrido e meno floreale cosa di cui ringrazio mezzo mondo, Dio, o chi volete voi.
Tiro fuori una risatina nervosa, anche perché mi pare talmente strano…
faccio fatica ad assecondare la gente e mi sento a disagio per cui ridacchio e così faccio la figura della cretina.

“Strano davvero! E…quando torna Billie Joe di solito?”
“Di solito, verso le due di notte. Ma dipende dalle serate al Red’s.”
“Ah, giusto, dimenticavo che lavora lì.”
“Tsk, non è mica solo lavoro. Il turno finisce a mezzanotte per lui e a l’una per mia moglie.”
“Ah…e poi cosa fa?”
“Questo lo sa solo lui.”

Silenzio.
Non sappiamo che dirci.
Imbarazzo.
Adesso mi chiederà cosa stiamo studiando a scuola, tanto per non rimanere a guardarci, come pesci lessi.

“A che punto siete arrivati con il programma di inglese?”

Ecco appunto.

DLIIIN.
La porta mi ha salvato.
Bene, magari è lui che ha fatto tardi. Adesso mi sento meno in colpa e più tranquilla.
Certo, sarei voluta arrivare più tardi così da non trovarmi davanti una specie di cane da guardia alla porta e un orso che è stato costretto ad uscire dal suo letargo.
 Oddio, considerare quell’omino un orso vuol dire stimare Berkley una novella New York.
Tim va ad aprire e c’è un attimo di tensione fra padre e figlio.
Magnifico, ha anche litigato con i genitori.
Complimenti, Armstrong, sei il prototipo dell’adolescente ribelle.
Dopodiché il figlio supera il padre, velocemente, infilandosi in casa e andando verso le scale che portano al piano di sopra.

“C’è Mike? Dobbiamo provare.”

Provare cosa?
Il padre non gradisce e lo insegue a passi veloci e roboanti.

“Billie, oggi niente prove. Devi studiare. C’è qui Virginia Foster che ti aiuterà”
“Non me ne fotte un cazzo. Stamattina abbiamo incontrato Lawrence Livermore della Lookout!*, fra un paio di giorni dobbiamo registrare. Non ho tempo per studiare.”
“Ciao, Armstrong”

Bene, visto che si sta parlando anche di me,  qua dentro, mi metto in mezzo io.
Lui sta in prossimità delle scale e sembra desideroso di salirsene su.
Mi getta uno sguardo scocciato, come se gli stessi rovinando la gita della domenica.

“Senti, oggi no, va bene? Torna un altro giorno. Torna…venerdì. Anzi no. Venerdì c’è il Gilman.
Facciamo la settimana prossima. ok?”
“Armstrong, la settimana prossima c’è  il test. Mercoledì per l’esattezza.
Piantala di dire idiozie e fammi salire. Hai bisogno di carta, penna, un tavolo, una sedia e il tuo cervello. Troppo difficile? ”
“Ma come siamo rompicoglioni oggi, eh?! Ti ho detto che non posso. Ho da fare. Sono fottutamente impegnato. Così lo capisci meglio, miss mi-apro-il-culo-sui-libri-da-mattina-a-sera?”

Apro la bocca e la richiudo.
Non pensavo che ci sarei rimasta così male se un coglione mi avesse aggredito in questo modo.
Pensavo male. Non so che dire e in questo momento vorrei scomparire.
Mi sento smarrita e la cosa peggiore è che me lo si legge negli occhi.
Altolà! Non sarà un idiota qualsiasi a mettermi a tappeto!
Nel frattempo il padre mi si avvicina e fa, quasi sottovoce:

“Scusami, Virginia, puoi uscire un attimo? Rimani in salotto e aspetta un secondo.
Devo dire due parole a Billie.”
“Che cazzo rimani a fare? a questo punto vattene. Tanto io sto uscendo di nuovo.”

Eccolo che riparte alla carica.
Esco dalla stanza, furibonda.
Ma con che diritto mi risponde così!?
Sono IO quella che si è trascinata fino a casa sua, carica di appunti.
Sono IO quella che, ieri, ha passato la serata a prepararsi gli argomenti.
Sono IO quella che deve insegnargli qualcosa, visto che quello non ha mai fatto un emerito cazzo in vita sua.
Poi improvvisamente sento un colpo, come uno schiocco.
Neanche il tempo di sedermi che ho fatto un salto dal divano e mi sono spostata vicino alla porta almeno per controllare che tutti stiano bene.
Quello che vedo mi sconvolge.
Il padre sta prendendo a schiaffi il figlio.
E non sono scappellotti, sono schiaffi seri*, colpi che fanno un rumore incredibile, come due che si pestano su un ring.
Devo soffocare un urlo quando Armstrong va a sbattere contro il corrimano delle scale e cade a terra
Mio Dio! Ma quell’uomo è impazzito?
Come gli viene in mente di alzare le mani in questa maniera su suo figlio?!?!

-Adesso ascoltami bene, stronzetto, perché non mi ripeterò.
Non me ne frega un cazzo di quello che vuoi o non vuoi fare nella vita, se ti piace o non ti piace studiare, se vuoi continuare a fare il galletto sul palco con i tuoi amichetti, se vuoi fumarti quella merda che ti porti dietro o se vuoi sbronzarti fino a vomitare l’anima. L’unica cosa che mi importa è che tu ti prenda quel cazzo di diploma e ti levi dai coglioni.
Ma finché sei ancora minorenne non ti devi far bocciare altrimenti ti spacco il culo, hai capito bene?
- Vaffanculo,  lo so io quello che devo fare. Tu non sei mio padre, quindi non hai il diritto di dirmi né di farmi niente!
-Ragazzino, tuo padre è morto e sarebbe ora che ci rassegnassimo, che dici?
Vogliamo guardare in faccia la realtà? O quello sei bravo a farlo solo dopo che ti sei fumato una piantagione di marijuana?
Io amo tua madre e anche voi tutti, nonostante sembriate sopportarmi a malapena.
Ormai faccio parte della famiglia e quando parlo voglio essere ascoltato.
E non lo faccio perché così mi garba, sia ben chiaro. Non è che mi sono svegliato una mattina e ho deciso così perché mi andava, ma perché, senza quel fottuto diploma, non sei nessuno, hai capito?!
N-E-S-S-U-N-O!  Quindi smetti di giocare a fare la rockstar e diventa uomo!

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Sono annichilita.
Svuotata, scimunita, intontita, allucinata, basita e chi ne ha più ne metta.
Sapevo che in alcune famiglie si veniva alle mani ma…insomma, prima quegli schiaffi, poi quella serie di insulti…  è orribile.
Non voglio più rimettere piede in questa casa, anzi, ne voglio uscire seduta stante.
Raccatto la mia roba il più velocemente possibile ma i fogli mi scivolano dalle mani.
Una decina di pagine si sparpaglia per terra.
Fanculo, me ne voglio solo andare. Lontano.
Voglio tornare a casa, farmi una dormita, dopo cena ripetere qual cosina dell’ultimo minuto e poi addormentarmi e dimenticare tutto.
Domani vado dalla Carson e le dico che mi mettesse pure F ma io qua non ci torno.
Sto cercando di recuperare alla ben e meglio gli appunti che sono scivolati sotto il divano quando sento la voce familiare di Armstrong, un po’strascicata:
“Lo devi muovere. Spostati che faccio io.”

Alzo lo sguardo e lo vedo lì, dietro al divano, mentre si succhia il labbro che sanguina.
Ha due guance rosse e gonfie, quella destra è la più violacea, e le labbra spaccate.
Mi sposto indietro, lentamente, senza emettere fiato.
Mi ricordo di averlo visto in una condizione simile appena un mese fa, dopo la bravata della divisa.
Oddio, no, non pensiamoci.
Lui trascina il divano più in là e io mi lancio in avanti per prendere i fogli.

“Stai bene? Sei pallida come un lenzuolo.”

Lui che chiede a me se sto bene?!?!? È il colmo!

“Io si…tu?”

Lui si stringe nelle spalle e annuisce.

“Scusa per prima, mi sono comportato da vero stronzo. Poi sono arrivato tardi e… mi dispiace che tu abbia assistito alla scena di prima., ”
“Allora non ti eri dimenticato…”
“No, Tim me lo aveva detto, ma io non ci ho fatto caso. In quel momento l’importante era Mike, le prove…scusa.”
“Tutto a posto ok? Dimentichiamo.”
“Come vuoi.”

Dai, che ho quasi finito.
Poi verrò fuori di qui.
Ho bisogno d’aria, di respirare, di riflettere e di pensare ad altro.

“Senti, si è fatto un po’ tardi per me. Devo andare.”
“Tardi? Sono appena le sei!”
“Aehm…ecco…io non lo so…forse ho della gente a cena. Forse mia madre ha bisogno di una mano. Dovrei tornare ad aiutarla.”
“E pranzate alle sette di sera?”

Dio, non so che inventarmi.
Che gli dico?
CheGliDicoCheGliDicoCheGliDico?!?!

“Scusami è che sono un soggetto asmatico e ho bisogno d’aria. Quindi devo uscire immediatamente da qui.”

Che scusa patetica. Fa veramente pena. Non ci crederà mai. Ci crede?
Non ci crede. Glielo leggo in faccia. Però non dice niente per un po’.
Poi attacca:

“Senti, facciamo così: adesso andiamo a farci un giro così ti riprendi e intanto mi fai una panoramica di quello che abbiamo fatto di inglese. Alle sette e mezza ci viene a prendere un mio amico che prima mi porta al Red’s, che stasera sono di servizio, e poi ti riporta a casa, ti va?”
“Per me è ok. Ma non prendi appunti?”
“No, ho una buona memoria.”

Ci avviamo fuori. Lui fa strada.
Finalmente quando sento l’aria fresca tiro un lungo respiro e mi sento meglio.
Quello strano dolore che mi attanaglia il petto si allevia.
Comincio a parlare, quasi meccanicamente, tenendo lo sguardo fisso sulla strada, sui fiorellini di campo nei prati dei vicini, sulle case, tutte con lo stesso marchio di fabbrica che grida ai quattro venti: “sono una casa americaaanaa.”
Evito di guardarlo il più possibile, quei lividi mi fanno impressione.
Intanto lui ascolta, con la fronte  leggermente aggrottata e la bocca semi aperta, cercando di mantenere la concentrazione costante.
Ogni tanto fa qualche domanda, domande intelligenti. 

è la prima impressione quella che conta?

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Glossario

* Meine liebe, kannst du bitte den Tisch decken? : Amore, puoi per favore apparecchiare la tavola?

* Gewiss doch : Certamente  (l’equivalente di of course)

*Ach so, meine liebe, gute nacht: Va bene, amore mio, buona notte

*Como scussa? : Come scusa?

* Scheiße! : Merda!

*Mein Gott : al solito vuol dire "Oh mio Dio"  


Note

* April:  nome della mamma di Virginia, concordato al vocativo.

* Proemio dell’Eneide, Virgilio

Prima Catilinaria, Cicerone 

* Non conoscendo ovviamente l’indirizzo di BJ ho adottato questo piccolo espediente <.<

*William Hill Brown scrive il primo romanzo americano (1798) ispirato ai “Dolori del giovane Werther ” di Goethe.  Washington Irving scrive una raccolta di short-stories che descrivono la vita inglese e il sogno americano.  Edgar Allan Poe, in pieno romanticismo americano, scrive racconti gotici e anticipa il romanzo polizesco.  FONTE

* I libri, nei paesi civili, invece di essere comprati ogni anno dagli studenti, vengono consegnati a ciascun alunno dall’insegnante, il primo giorno di scuola e vengono poi restituiti alla fine dell’anno a meno che lo studente non decida di comprarlo o prenda in prestito una copia dalla biblioteca (così però fissa il termine di scadenza che può rinnovare allargando i tempi finchè un giorno non è costretto a restituirlo).  Da noi invece il sistema costringe la famiglia dello studente a spendere cifre folli per comprare sempre la  nuova edizione di un certo testo, quasi identica alla vecchia ma, poiché è nuova, è impossibile trovarne una copia usata. Non siamo geniali?  =.=’

* Ragazzi, non confondiamoci, non è che la nonnina sia un personaggio oscuro e infido ma la metafora si riferisce ai sensi degli animali in questione. Il cucciolo di gatto, appena nato,  è cieco e i rettili sono sordi ma percepiscono le vibrazioni e così sopravvivono xD

*ANACRONISMO: La serie su Sandokan verrà trasmessa sul 4 Channel, in Inghilterra, solo a partire dal 1992. Però mi piaceva l’accostamento :)  Chiedo licenza d’autore!

* Per quanto ci abbia provato non sono riuscita a scovare nemmeno il nome del terzo marito di Ollie (il patrigno di BJ&Co) quindi me ne sono inventato uno <.< Probabilmente è una questione di diritto alla privacy…

*Lawrence Livermore era il proprietario di una piccola casa discografica indipendente, la “Lookout!” e suonava nel gruppo omonimo, lo stesso di cui faceva parte Trè Cool prima di diventare la fedele batteria dei GD. Verso l’inizio del 1989 i “Sweet Children” firmano un contratto con Livermore e registrano quattro canzoni (1000 Hours; Dry Ice;  Only of You; The One I Want) che furono pubblicate nell’Aprile dell’89 nell’album “1000 Hours”.  FONTE: “Green Day New Punk Explosion”


*FONTE: “Green Day New Punk Explosion”, intervista di Anna Armstrong (BJ’s sister)  su Rolling Stones 1995,  “…dopo la morte di nostro padre e con un patrigno che non piaceva a nessuno…”
 “la nostra era una famiglia piuttosto violenta: tra fratelli e sorelle si litigava un sacco, ci picchiavamo moltissimo. Non so da dove venisse tutta quella rabbia”
FONTE : “...purtroppo dette sfogo alla sua rabbia anche con la violenza fisica, sia a scuola che a casa, contro il suo patrigno.”


Ringraziamenti

Grazie a Bill22, BlumeInDerNacht e Italian Idiot per aver inserito la storia fra le seguite.
Grazie mille a Bill22 per averla segnalata come preferita.


Angolo dell’autrice

Buondì care mie,
già sento che questo capitolo riscuoterà diverse critiche o comunque verrà considerato un tantino inverosimile da alcune di voi.
Innanzitutto la telefonata a casa del patrigno  potrebbe essere considerata una forzatura.
A quanti sarà mai capitato che un (-o pseudo)genitore si impegni a chiamare un compagno di classe del figlio per definire i termini di un incontro?
Lo so che può sembrare strano ma, come avete avuto modo di capire, il patrigno, avendo ricevuto la lettera della prof. è deciso a parlare personalmente con colei che si occuperà del corso di recupero (più che comprensibile visto che se si fosse affidato al figliastro, hai voglia ad aspettare!) , infatti, il suo unico interesse è che BJ si diplomi e poi dopo potrà fare tutto quello che vorrà, e il padre non sarà più responsabile degli studi del figliastro essendo finita la scuola dell’obbligo xD
E io non me la sento affatto di condannarlo come accade in molte storie, in cui la situazione di BJ è presentata come una fase difficile della sua vita, nè voglio tirare in ballo più di tanto la famosa antipatia genitore adottivo-ragazzo. Tim prova affetto per i figli di Ollie benchè loro non siano disposti ad accettarlo come padre, e così, a maggior ragione, sentendosi responsabile di Billie, ha tutto il diritto di informarsi per i suoi corsi di recupero e dargli una strigliata.
Ci ho tenuto a inserire l' elemento del "non-hai-futuro-se-non-finisci-gli-studi" perché è un tema che ricorre nella storia di BJ.
Lui stesso ha dichiarato che se non avesse sfondato come rockstar sarebbe finito a fare lo spazzino.
Già ai suoi tempi era mal considerato lasciare la scuola senza riuscire o provare nemmeno a diplomarsi quindi un ragazzo che usciva da lì senza il diploma poteva fare davvero poco nella vita, e doveva talvolta umiliarsi, facendo lavori tristissimi (non so voi, ma a me la vita dello spazzino sembra terribilmente triste, senza offendere nessuno!  <.<)
Questo fra i cinque probabilmente è il capitolo più drammatico e con questo mi riferisco alla scena di Malika. Potrebbe risultare strano anche tutto questo affetto della protagonista per questa ragazza ma posso spiegare il tutto pensando ad una sorta di solidarietà fra loro. In fondo vengono entrambe dall’altra parte del mondo, e poi Vig ha sempre cercato di fare un passo avanti per integrarsi e sentirsi a suo agio con tutti in classe; questo spiega il suo bisogno di avere un compagno di banco che non sia un essere indifferente e annoiato con cui non si può trattare.
Almeno spero che l’incontro con l’eroica nonnina abbia alleggerito un po’ l’atmosfera...
Accidenti ma lo sapevate che fra BJ e il suo primo fratello ci sono 21 anni di differenza?!?!?!
E per questo parlo di un trantacinquenne ù,ù.
Un altro punto delicato è il piccolo “diverbio” che hanno avuto Tim e BJ.
All’inizio doveva essere solo un confronto verbale, poi ho trovato delle fonti che riportavano questi episodi come normale amministrazione e allora siamo passati alla violenza fisica.
Devo dire che non sono tanto scandalizzata e non la penso affatto come Virginia (al contrario di molte altre cose in cui mi ritrovo completamente )... io sono davvero convinta che qualche scapaccione aiuti a crescere (senza ovviamente sfociare nella violenza gratuita).
Certo, non ai livelli della bacchettata di cui ho scritto, ma penso che se mi avessero dato qualche pacchero in più forse sarei venuta su meglio xD
Quello che invece mi fa molto pensare è il terrore di aver reso in modo un po' OOC BJ e il suo patrigno (anche se c’è davvero poco da sapere su quest’ultimo che sembra non esistere per il resto del mondo ...).
Innanzitutto, nella caratterizzazione di Armstrong a fine capitolo, mi ha aiutato moltissimo leggere “Green Day: new punk explosion”  di Ben Myers (opportunamente prestatomi da una mia amica ), specie per quanto riguarda il suo atteggiamento nei confronti dello studio, della scuola e dei prof.

La scuola è una palla, così come lo studio è una perdita di tempo specie quando invece si potrebbe fare musica, ma oltre il cazzeggio, c’è anche una sorta di curiosità nei confronti del resto.
Infatti, almeno fino agli ultimi anni in cui gli Sweet Children cominciavano a ricevere le attenzioni del piccolo pubblico (in generale non più di una quarantina di persone a causa delle piccole dimensioni dei locali) e a entrare in contatto con la “Lookout!”, BJ è stato uno studente mediocre, ma non è mai stato bocciato, è sempre stato il tipo da ultimo banco, perso nei suoi pensieri, (testimonianza di un suo prof in una dichiarazione)  che faceva il minimo indispensabile per passare tutti gli anni.
Perciò sono partita dal presupposto che fosse un tipo sveglio (è stato lui per primo a contattare la “Lookout!” e ha organizzato diversi provini con la band perché voleva assolutamente fare un disco...) che avrebbe potuto fare molto di più se si fosse impegnato.
Poi sarete voi a giudicare, scusate per tutte queste spiegazioni ma avevo bisogno di metterle su carta e allegarle anche per sentirmi più sicura di quello che ho pensato mentre scrivevo questo capitolo!
Per qualsiasi incongruenza (e magari non solo per quella), fatevi sentire!
Bye bye,

Misa

p.s  stavolta ho aggiornato prestissimo...evidentemente ero ispirata! ;)
  
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