Rumore di passi, la sala è fredda, illuminata da una luce irreale, glaciale, fuori dal tempo. Non si riuscirebbe mai a capire che giorno, mese, anno, secolo sia, a meno di non notare il cambiare rapido delle attrezzature, sempre più tecnologiche nel corso degli anni. E a meno di non notare il rumoroso orologio da muro, un tondo bianco fisso sulle piastrelle, che guarda tutti impietoso. Ed è importante per entrambi, avversario di entrambi, e quasi invidio te che non lo puoi guardare.
Almeno questo, grazie al cielo, me lo risparmio.
Rumore di passi, rimbombano nel corridoio, fa freddo, hai freddo, ho freddo. Abbiamo freddo tutti e due, scommetto, anche se non lo sai. Spero tu non lo sappia.
Sento
freddo, le mie mani
sono gelide, vorrei muoverle, ma da quando ho questa cannula nel
braccio, non mi è consentito. Ecco ora una mano mi afferra
il mento,
mi aprono la bocca, vorrei sputare mentre qualcosa di spigoloso mi
cala nella gola, mi viene da vomitare. Soffoco, per la miseria!
Qualcosa vicino a me ha
iniziato a suonare, o forse è il mio cuore, che batte
così forte
che mi sembra di sentirlo.
Frequenza 120,
tachicardico. La spia rossa del monitor batte sincrono col fastidioso
suono automatico d'allarme, sembra strano, ma quello è il
tuo cuore.
E' meglio aumentare le dosi. L'anestesista si alza, preme un tasto,
ne schiaccia un altro, e il pistone della siringa avanza nel suo
binario, e ora tutto torna come prima.
"Accendete la
radio".
Qualcuno sta ascoltando Chopin. Come si fa ad ascoltare Chopin mentre un povero stronzo è steso, nudo, con un tubo in gola, aperto, esposto, senza ritegno alcuno? Come se non potessi sentire le battute volgari sulla mia nudità, da qualche vocina stridula e fastidiosa come unghie strisciate su una lavagna, vicino a me. Se non altro il bip-bip di prima è sparito, e persino il tubo sembra meno fastidioso, forse non lo sento neppure. E' come essere in stand-by, come se qualcuno respirasse per me, usando il mio torace. Ora capisco cosa prova un sassofono.
Ci siamo. Mi allacciano
il camice usa e getta, il ferrista prepara il campo, stende i telini,
la battaglia sta per avere inizio. Stendo il collo, stirando i
trapezi della mia schiena, faccio ben attenzione a non toccare nulla
e infine arrivo, davanti al tavolo. Davanti a me, uno che potrebbe
essere il mio gemello, vestito come lo sono io, bardato di
un'armatura sterile, si avvicina. I nostri occhi si incrociano. Mi
fido di te. Si comincia.
"Bisturi".
Qualcosa striscia sul mio addome. Non riesco a capire cosa sia, è come se fra il mio corpo e i miei pensieri, vi fosse un cancello. E io potessi solo intuire cosa sta accadendo di là. La porta è chiusa. Forse è meglio così. Ma posso sentire. Ora Wagner.
Cute, sotto cute, fasce,
muscoli, e ancora fasce. La lama taglia la carne, solo una goccia di
sangue mi disegna il primo rivolo sulle mani. La prima volta ne
rimasi affascinato. Vederlo correre fra le miei dita, vivo, in un
lucido fulmine di autoesaltazione.
Ogni volta che affondo
una lama in un corpo, un brivido mi attraversa la schiena, come
quando si buca una superficie tesa di una confezione di cellophane,
la sensazione, in piccolo, è quella. All'inizio tremavo. Le
mani
tremavano, la sensazione di entrare in una chiesa come un
bestemmiatore, sporco di sangue, di aprire ciò che
è fatto per
restare chiuso, poi venne l'automatismo, il limite fra
sanità
mentale e burn-out, e tu sei lì sull'orlo del capire, la
consapevolezza di quel che è giusto fare e la paura. Di
sbagliare.
La mano affonda precisa.
Ora
incomincio a sentirmi
strano. Mi viene da vomitare. Non riesco a vedere, ma è come
se
vedessi. All'improvviso le luci si fanno chiare, e il buio, la mia
strana veglia ad occhi chiusi, è disturbata. Mi spavento,
quando
vedo rosso, prima di capire che la luce filtra tra le mie palbebre
serrate.
"Luce".
Un barlume di coscienza
mi attraversa, mentre un monitor squilla di nuovo.
"Purge".
Silenzio, di nuovo.
Amputazione di Miles. La
chiamano così, ma è un bel modo per dire che ti
togliamo il culo. E
un bel pezzo di quel che c'è dentro. Ah, e dimenticavo,
cagherai con
la pancia. Non è per essere scurrili, triviali, non ci sono
giri di
parole con me. Non c'è autocompiacimento nel lordarsi la
bocca con
queste parole. La verità è questa. Non ho mai
amato tutti quei
discorsi di qualità della vita, non ho mai amato quelle
frasi da
assistenza sociale. La verità è questa. Ma
è grazie ad interventi
come quello, se tu respirerai ancora. Ed in che modo? In che modo mi
alzerò al mattino, andrò a dormire con una donna?
Potresti
chiedere. Io lo chiederei. Fortunatamente oggi sembrerebbe non essere
il tuo caso.
Un
brivido mi attraversa
la schiena, mi verrebbe da irrigidirmi. Mi sento frugare. E' la
parola giusta. Frugare. Qualcosa mi entra dentro. Mi fruga, mi
indaga. Mi viene un conato di vomito. O meglio, è quel che
credo di
avere. Soffoco, ho freddo e caldo insieme, forse perchè non
riesco a
sentire la mia stessa pelle, come fossi prigioniero di una cella che
è il mio corpo. Una mano, ecco cosa, una mano mi fruga, mi
sento
estrarre, letteralmente come nascere da me stesso.
La sento come un cane che
cerca la sua preda, dentro, come una pallina da flipper che rimbalza
di continuo fra i visceri cavi.
Vorrei svenire, ma non mi
riesce. O forse sono già svenuto.
Taglio, suturo, è un
lavoro lento, meticoloso, il sangue mi schizza oltre il gomito, sul
camice monouso, imbratta i telini. Due studenti del quarto anno,
trattengono il fiato, in piedi, sui predellini dietro di me.
L'anestesista è in piedi, a pochi metri. Scuoto la testa.
Fino in
fondo.
Dove
sono? Non ricordo.
Mi sento intorpidito, la lingua impastata. Muovo un dito. Mi riesce.
Stringo la mano. Mi riesce. Non ricordo. Non ricordo niente.
Nè la
cannula nel braccio, nè la mano che mi fruga, nè
come mi sia
procurato i due segni rossi sul petto, due piastre violacee gemelle.
Apro gli occhi.
Apre gli occhi davanti a me. E' uno dei tanti che transitano sul tavolo, uno dei miei tanti compagni di viaggio. Mi guarda, guarda la mia tuta verde, i miei capelli neri. Muove la mano. Mi piacerebbe sperare. Forse ce la farà.