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Autore: Frammenti del Buio    21/06/2011    1 recensioni
“Ma che importa l'eternità della dannazione a chi ha trovato, in un secondo, l'infinito del piacere?”
Questa fan fiction si è classificata al Primo Posto nel Contest Citazioni indetto dal Frammenti del Buio - GdR.
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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copertina
[“Ma che importa l'eternità della dannazione
a chi ha trovato, in un secondo,
l'infinito del piacere?

(C. Baudelaire)]



    Charles Baudelaire ancora doveva nascere quando io mi trovai dentro uno di quei periodi di vita che in seguito lui ha sapientemente definito ennuì. Intendiamoci, non ero e non sono mai stato un artista maledetto, un poeta alla ricerca della Vera Arte o un Pittore della vita moderna. Ero un uomo semplice, travolto dagli eventi della sua vita mortale per poi essere gettato a capofitto dentro la sua vita immortale; era un periodo della mia fin troppo lunga esistenza in cui, come ogni altro ‘anziano’, desideravo semplicemente la pace, il nulla, il buio della mia bara dentro un sepolcro anonimo di un cimitero fuori Londra. Ero stanco di vivere, di svegliarmi ogni notte in preda ad una sete bestiale e uccidere, uccidere e uccidere. Certo, la morte per le mie prede era dolce, piacevole, a volte persino lussuriosa; sono un vampiro generoso, io, ho sempre reso la dipartita dei delinquenti e delle prostitute che sceglievo per cenare come il sommo dei loro segreti e perversi desideri. Ed essi, con il sangue marcio, scendevano dentro di me, dandomi nuova vita, condannandomi a vagare per le vie, spiare gli umani nelle loro case e chiedermi se anche io, in diverse circostanze, non sarei potuto essere un fiero padre di famiglia, che finiva i suoi giorni in vecchiaia con la donna che ha sempre amato.
    Era un periodo della mia vita pieno di ennuì e malinconia per ciò che avevo perso e non potevo più riottenere, nonostante la morte mi avesse risparmiato più di un millennio fa. Non meritavo di essere sopravvissuto a Larissa; vedevo il suo volto straziato dal dolore mentre la violentavano davanti a me, mentre la infilzavano con la daga di ferro e uccidevano con lei anche nostro figlio. Non potevo più piangere, già da vivo avevo versato tutte le lacrime che possedevo, ma ora neanche le poche gocce di sangue che noi vampiri condividiamo nel nostro dolore privato potevano lenire le mie ferite non rimarginabili. Ed era stata una donna dai lunghi, lunghissimi capelli neri come la notte e il vento dei gitani tra di essi a strapparmi anche la possibilità di curarle o di privarmi della vita in qualche modo definitivo; mia madre, la mia creatrice in tutti i sensi, aveva reso le mie ferite impossibili da sanare, condannate ad infettarsi per l’eternità dentro di me. Come direbbero i moderni psicologi, ero depresso; sì, è paradossale e strano per un vampiro millenario essere depresso, ma ehi, vi sfido a vivere a lungo come me, a veder nascere e morire epoche sapendo che forse anche alla fine del mondo si sarà lì, soli, senza nessuno al proprio fianco, e rimanere sani di mente. Ero impazzito così tante volte nel corso dei secoli che non ci facevo più caso, anzi, quella depressione mi pareva semplicemente un ritorno di un dolore mai scomparso.
    Vagavo per la Londra governata da una donna, una vera donna a mio modesto parere, nonostante non fossi più da tempo appassionato di politica. Era figlia di un sanguinario, un rivoluzionario per piacere sessuale diciamo, e per questo era divenuta forte ed intelligente, per non incappare negli stessi fatali errori del suo genitore. Ciò che sapevo lo apprendevo dalle mie vittime, i truffatori più nobili o gli assassini assoldati dagli scagnozzi degli ipocriti di corte; ma lei, Elisabetta, non l’avevo mai vista. Ma neanche lei sapeva della mia esistenza, io, una delle tante piaghe infette che vagava per la sua città in sviluppo.
    Nel pallido ricordo dell’uomo che ero stato in passato, l’unico ristoro erano le ombre della notte che, sotto la luna, gli alti alberi maestri delle navi del porto proiettavano sulle banchine affollate anche in quelle ore tarde. Trovavo lì ultimamente le mie colazioni e poi svaghi, visto che mi dilettavo ad osservare il primo passante di turno e magari seguirlo, impicciarmi, entrare nella sua vita senza farmi notare, conoscere cause e conseguenze che lo avevano portato ad essere così come appariva, affamato, sporco, superbo, infelice, allegro. Bramavo la vita altrui per dimenticarmi, cosa impossibile, della mia o di quelle di coloro che avevo sacrificato per non dover affrontare un’insopportabile solitudine. Quando mi calavo fino a dove i cordoni, colorati di muschio e frutti di mare, erano legati ai piloni portuali, il riflesso del mio viso nelle acque del Tamigi me ne mostrava uno dal colore perlaceo così fatiscente che mi domandavo se esistessi ancora o no, se la morte delle mie prime ed ignare creature fosse servita a farmi imparare dai miei errori, a farmi crescere. Niente, quel mostro dagli occhi rossi, che brillavano anche da sotto un oscuro cappuccio, era lo stesso di sempre; così, con un gesto stizzito della mano muovevo l’acqua semi salata della foce e me ne andavo, veloce e invisibile a occhio umano.
    Una notte di quelle riuscii a prendere coraggio per mettere figurativamente fine alla mia esistenza; ero colpevole di troppe cose per poter davvero darmi la morte, e una minaccia della mia creatrice ancora mi perseguitava - nonostante sapevo non fosse vera, ma le credenze antiche come le mie sono dure a morire – ovvero, che se mai avessi voluto porre fine alla mia immortalità, lei lo avrebbe saputo prima e sarebbe corsa ad impedirlo; mi aveva fatto un sortilegio, diceva la strega, e anche se non era vero, una parte di me, quella codarda, ancora le credeva. Stava di fatto che alla fin fine avevo trovato una soluzione, che al giorno d’oggi può essere chiamata ‘lento suicidio volontario’: in altre parole avevo trovato il modo per rinchiudermi dentro la mia bara e darmi ad un sonno lungo secoli, millenni, decidendo di non bere più, in modo da indebolirmi abbastanza da giacere lì, vivo e morto insieme, per sempre. Era una tortura indicibile, lo sapevo e lo so tutt’ora, e già in molti l’avevano fatto, diventando seriamente pazzi non appena un umano, per caso, li aveva trovati. Lo avevano sbranato ed erano tornati tra noi non morti sconvolti come non mai. Ma io avevo scovato un luogo segreto ad anima viva in cui nascondermi, le catacombe medievali fuori della città, ed ero sicuro della riuscita del mio piano. Volevo solo dormire, dimenticarmi di me e sì, abbandonarmi all’insana pazzia nel nulla della non-morte.

    Tuttavia, commisi un errore fatale.

    Il sangue greco che scorre nelle mie vene da sempre mi ha reso appassionato di musica, danza e canto, e sopra a tutti di teatro, in qualsiasi sua forma. Il passare delle epoche lo aveva reso ottimo o pessimo a seconda dei paesi e delle disposizioni d’animo degli autori d’opere, eppure il Cinquecento si stava dimostrando un’epoca così piena di genio che non mi stancavo mai di frequentare i teatri di legno che da poco stavano iniziando a sorgere a Londra. Erano il mio unico e breve angolo di paradiso certe notti, e tuttavia a volte, soprattutto con Shakespeare l’eccelso autore, alcune capitava si trasformassero in ulteriori tormenti per l’anima.
    Così, prima di darmi al ‘sonno eterno’, decisi di dedicarmi ad un ultimo piacere. Attraversai tutta la città per arrivare al teatro a quel tempo più nuovo, quello che poi si sarebbe chiamato Globe e sarebbe stato la gloria di Londra. Vi lavorava la compagnia The Lord Chamberlain’s Men, quella creata da Shakespeare in persona con il benestare della regina, e quella sera c’era la replica del glorioso “Mercante di Venezia”, opera irriverente ma che non mancava mai di appassionarmi per la sua attualità. Non sto qui a raccontare la trama, poiché a tutt’oggi è una delle opere più famose dell’eccelso; ma soprattutto perché, quella sera, non me ne curai. Ripeto, ero nel bel mezzo del mio errore fatale; non sarei mai dovuto scendere a patti con il mio desiderio di diversivo teatrale ma sarei dovuto andarmene direttamente nelle catacombe campagnole per sempre.

    Una parte di me, oggi, continua a ripetermi che invece quella sera fu quella che cambiò la mia vita per sempre.

    Avevo sempre trovato Bassanio, il ragazzo di buona famiglia spendaccione che vuole sposare la ricca possidente, un personaggio gretto, mal caratterizzato, opportunista proprio come la maggior parte degli attori lo ritraeva. Si sposava per denaro, ingannava il suo migliore amico per denaro e lo spingeva persino a rischiare la sua stessa vita; e alla fine? Sembrava non gliene importasse nulla tanto che era nelle grazie della ricca Porzia.
    Eppure, quella sera, io vidi un Bassanio che penso non scorderò mai; è ancora oggi il punto di riferimento per tutte le altre interpretazioni che in seguito vidi. Quel Bassanio era esile, giovanissimo, eppure così accorato! Ci teneva veramente ad Antonio, odiava davvero Shylock e recitava con trasporto le sue parole d’amore alla bella Porzia! Sembrava un altro personaggio, uno che William stesso non avrebbe mai saputo creare. Certo, non fu una cosa così strabiliante da ricevere molti applausi, almeno non più del solito, lo ammetto; ma io ne rimasi stregato. E finito l’ultimo atto, l’ultima battuta di Antonio, mi sentii proprio come lui, il vecchio mercante che guarda con amore il giovane Bassanio coronare felice il suo sogno matrimoniale con la ricca possidente. Mi si spezzò il cuore quando il telone si abbassò e le panche di legno iniziarono a svuotarsi; invisibile a tutti, nel mio lungo manto nero mi mimetizzai nella folla e poi nelle ombre. Dovevo a tutti i costi sapere chi era tal ragazzo che aveva cambiato dall’oggi al domani quell’opera teatrale. Altrimenti non sarei mai riuscito a darmi un riposo eterno sereno! Che ipocrisia, ma già da allora dovevo presagire le avvisaglie del cambiamento, poiché era già troppo che rimandavo, rimandavo, rimandavo.
Corsi, mi nascosi, attesi; lo vidi, tra tanti volti, uomo tra uomini e donne, ridere e scherzare con loro. Profumo di vino proveniva dai loro aliti e le loro grida erano alte. Stavano festeggiando, e quasi mi facevano tenerezza mentre leggevo nei solchi dei loro visi quanto poco avessero ancora da vivere, paragonati alla mia più lunga esistenza. Ma non mi lasciai prendere da riflessioni o altro: i miei sensi si erano svegliati, la mia brama galoppava nelle vene, fino ad accendermi lo sguardo di un desiderio proibito.

    Fu forse in quel momento che pensai qualcosa di molto simile ad una famosa citazione di Baudelaire che ora mi sovviene alla mente: “Ma che importa l'eternità della dannazione a chi ha trovato, in un secondo, l'infinito del piacere?”.

    Pazzo, pazzo, pazzo fui e sono!
    In un lampo dimenticai il tormento della mia eternità che da troppo gravava sulle mie antiche spalle e ratto mi fiondai al suo inseguimento, in silenzio, come un fantasma o un nero angelo custode dietro al suo protetto. Ah, quanto fu premonitrice questa parola! Ma non corriamo, un passo alla volta: come quelli che feci io, lenti, fino a giungere ad una piccola casetta di periferia; una dimora campagnola, non degna di quello che io allora considerai il principe degli attori! L’odore di femmina tuttavia vi albergava, tanto da mandarmi fuori di senno: come, ancora una donna si frapponeva tra la felicità meritata di Antonio e Bassanio? Folle come ero, mi trovai alfine immedesimato nei personaggi dell’opera e avevo deciso di cambiarne il finale. Esatto: il mercante alla fine conquistava con il suo amore il giovane e caro amico, che abbandonava l’ereditiera. Odiai Porzia, sì, nel profondo del mio cuore, cosa rara per me, che vedevo nelle donne creature sempre così meritevoli d’affetto. Un tempo ne avevo anche io amata una, profondamente, e c’è un quarto del mio cuore che ancora lo fa.
    Il mio giovane attore era nelle sue stanze, stanco ma felice, ubriaco in quel modo squisito e obliante che solo gli essere umani possiedono; sapevo che aspettava le cure di quella donna, quella contadinotta volgare, perché potevo percepire dai battiti del suo cuore, dalla velocità con cui il suo sangue scorreva nelle vene, che era eccitato. Perché i miei sensi erano così acuti, vi chiederete, nonostante io mi trovassi ancora fuori dalla casetta? Semplice: perché lo bramavo, lo volevo, desideravo la sua carne, la sua voce, il suo sangue, la passione dei suoi occhi mentre recitava parole d’amore o di rassicurazione per me, soltanto per me.

    A mente più lucida, tutt’oggi mi rendo conto che se allora fui colto da vera follia, beh, quella mi ha intaccato per bene, perché ciò che provai quella notte non mi ha abbandonato mai, ogni volta che ho posato i miei occhi su di lui.

    Porzia trovò la morte, quella notte, per mano dell’oscuro mietitore che veniva da terre così lontane che forse lei, sempliciotta, neanche conosceva. Silenzioso, l’agguantai e la trascinai fuori, sgozzandola e uccidendola sul colpo, bevendo quel sangue necessario a riscaldarmi la pelle e a colorarla di un colore umano. Non potevo permettermi di spaventare il mio caro Bassanio, dovevo stare attento ad ogni minimo dettaglio, come una sposa del mio tempo quando si apprestava con la sua dote ad entrare nel talamo matrimoniale. E fu così che lo trovai: disteso lascivo su di un letto, in vesti dismesse, allegrotto per il vino che sarebbe stato in circolo ancora per molto nel suo organismo, il corpo in fiore aperto ora solo per me.
    Mi ci volle veramente poco per avere la meglio su me stesso, e non su di lui, poiché l’ombra del rimorso, il monito per ciò che stavo per fare mi opprimeva come se non potessi più respirare. Lo volevo, non c’era nulla che me lo impediva, ma poi? Bassanio sarebbe morto. Antonio quella sera avrebbe ucciso entrambi i coniugi. No, non potevo permetterlo! L’essere insano ancora accorse in mio aiuto, poiché mi fece prendere su due piedi quella suddetta decisione che mi cambiò la vita. Che ci cambiò la vita.

……………………

    Ricordo i suoi capelli color del grano, lisci ma anche arruffati, che tuttavia non trovavano impedimenti mentre scivolavano leggeri tra le mie dita pallide, sotto le mie unghie trasparenti. Li aveva lunghi fino alle spalle, legati in una coda; io quella notte la sciolsi, come le mie e le sue inibizioni.
    Ricordo il profumo della sua pelle, a tratti odorosa di liquore a tratti ancora del cerone di scena; e poi più in basso, dell’odore salato di sudore mascolino e ancora, l’essenza stessa di un uomo che solo le più sfacciate tra le donne possono affermare con sicurezza di aver almeno una volta nella vita sentito. Profumava tuttavia, sopra a tutto ciò, di vaniglia.
    Ricordo il colore dei suoi occhi, del colore di una mattina nuvolosa o in tempesta, del mare che si vede solo in remote regioni del globo, della neve sporca ai lati delle strade cittadine. Le sue ciglia erano chiare come i suoi capelli e li contornavano come se fossero organza preziosa. Erano liquidi, incoscienti e spavaldi, se non anche macchiati più e più volte di quel piacere che già conoscevano ma che ora riscoprivano più nuovo. La paura, tuttavia, quella non vi albergò mai quando li tenni dentro i miei.
    Ricordo il calore del suo corpo; mi ustionò la pelle, me la segnò fino in profondità, neanche fosse rivestito di fuoco. Era morbida, come i suoi muscoli e le sue membra, ed anche se tratti ruvidi lo designavano come un uomo ormai adulto, cresciuto in città, indipendente e senza timore dei lavori anche pesanti, sembrava così fragile tra le mie braccia che a volte avevo persino paura di toccarlo. Mi irretiva con ogni gesto, con ogni suo tocco che non mancava mai di giungermi.
    Ricordo il suono della sua voce. Lo ascoltai quando disse il mio nome, durante la confusione delle presentazioni, nel constatare che forse quello era un sogno, nel chiedermi dove fosse la donna per poi lasciar perdere, nel constatare il dolore e il piacere, nel gemere per me e nel dirmi di aumentare, di andare veloce, più veloce, ancora più veloce e a fondo. Nell’ansimare voluttuoso sotto il mio morso, perso dietro la mia illusione e alla sua ubriacatura, fino a raggiungere l’orgasmo insieme a me. Sembrava il canto delle sirene, e come Ulisse, io rispondevo ai suoi richiami chiamandolo in continuazione per nome: “Aaren”.
    Ricordo il sapore del suo sangue mentre mi inondava la bocca e gorgogliava nella mia gola; ricordo il sapore della sua epidermide calda come carboni ardenti mentre la leccavo e la succhiavo. Ricordo il sapore dei suoi baci mentre quasi non lo facevo respirare. Ricordo il sapore del suo seme, quando mi macchiò la mano e io la accostai curioso alla bocca.
    Ricordo come fu fare l’amore con Aaren, perché dopo quella notte in cui l’ebbi per la prima volta, lo feci mio ancora, e ancora, e ancora; lo resi immortale con il mio sangue. Divenne mio figlio, lo amai come tale e come se non ne avessi mai avuti altri lo crebbi nella sapienza della mia, nostra, specie.
    Ricordo tutto ciò come se fosse ieri nonostante siano passati secoli, nonostante io abbia diviso il suo letto per moto tempo a venire, nonostante lui ora mi abbia lasciato da solo, di nuovo.
Il nostro fu ed è sempre stato infinito piacere. Un piacere tale da chiudere vecchie ferite e da riaprirne altre; un piacere che mi fece impazzire una volta per tutte, senza più darmi modo di rinsavire. Un piacere che mi ha dannato più di quanto il dono dell’immortalità, datomi da mia madre, ha potuto mai fare.

    E oggi penso che sì, che cosa mi importa dell’eternità della dannazione data dalla mia rinnovata solitudine, quando ho trovato, anche per un secondo in quei giorni che mai dimenticherò, un infinito piacere? Nulla importa, perché io ho trovato ciò che molto più banalmente e prosaicamente viene chiamato amore.










Artemis Fowl.
   
 
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