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Autore: _Pulse_    24/06/2011    2 recensioni
Nonostante il discorso di Tom fosse stato persino più convincente di quello che aveva fatto alla famiglia di Anto, il papà di Ary scosse il capo, cingendoselo con le mani, e sprofondò ancora di più nella poltrona.
«Non sapete a che cosa andate in contro», disse stancamente. «Rischiate di essere trascinati in quell’inferno anche voi, proprio com’è successo ad Anto».
«Voglio provarci lo stesso», ripeté Tom, stringendo i pugni sulle ginocchia. Aveva gli occhi lucidi, ma non avrebbe pianto.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Tom Kaulitz
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sogno che è Realtà'
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Allora… Innanzitutto buongiorno a tutti :) 
Stanotte ho pensato molto, visto che non riuscivo a prendere sonno, e ho deciso di postare questa mia piccola long che, come avete notato, è un "What if?". In poche parole, vi spiego la domanda che mi ha portato a scriverla e che mi ha dato l'ispirazione: "E se Ary avesse reagito in modo diverso alla morte del suo fratellino Davide?". Quindi, se volete riallacciarvi alla storia originale "Il sogno di un sogno", dovreste andare al capitolo 21: è da lì che ho ripreso e ho cambiato alcune cose. Troverete alcune note, a volte, per farvi capire ciò che è cambiato in particolar modo, ma ho cercato il più possibile di mantenere gli stessi episodi :)
Okay, credo sia tutto... Ah, come ho già detto è una piccola long, ci sono solo 7 capitoli, ma spero comunque che possa essere di vostro gradimento, soprattutto in questo momento in cui grava la sospensione di "Il sogno di un sogno: Our Future".

Non mi resta che augurarvi buona lettura :D
Fatemi sapere che cosa ne pensate ;) Un bacio, vostra _Pulse_

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Heal with your love

I

 

«It is the distance that makes life a little hard
Two minds that once were close,
now so many miles apart».

(You’re not alone – Mads Langer)

 

«Ragazzi, io… no, non posso partire. Non con Ary in queste condizioni».

Tom, dopo aver guardato negli occhi il fratello e i suoi compagni di band, si voltò e guardò la sua ragazza, seduta fra i cuscini del divano ad L nel salotto, avvolta da una coperta chiara. Aveva un aspetto pessimo, il colorito spento e gli occhi vacui, fissi su un punto indefinito del pavimento. Accanto a lei c’era Antonia, la sua migliore amica nonché ragazza di Bill, ma da dov’erano loro, in cucina, non riuscivano a sentire che cosa le stesse dicendo, ma nemmeno la stessa Ary sembrava sentirla.

«Lo sai che non puoi», gli disse Georg, dispiaciuto.

«Ma io devo restare! Non… non posso lasciarla sola proprio in questo momento, ha bisogno di me!». Aveva il viso contratto in un’espressione disperata, perché anche se continuava ad aggrapparsi a futili speranze, sapeva che era come diceva l’amico: non sarebbe potuto davvero rimanere con lei.

Bill, sofferente della sofferenza del gemello, abbassò lo sguardo e gli gettò le braccia intorno al collo, stringendolo fortissimo a sé, il viso nascosto nell’incavo della sua spalla.

Rimasero aggrappati l’uno all’altro, come se fossero l’uno l’ancora di salvezza dell’altro, fino a quando non videro Anto alzarsi lentamente dal divano, con gli occhi grandi lucidi e le labbra che tremavano, e raggiungerli in cucina.

«Ti ha detto qualcosa?», le chiese Gustav.

Lei scosse il capo con insistenza e poi si coprì il viso con le mani, iniziando a singhiozzare. Bill si scostò dal fratello per accogliere fra le sue esili braccia il corpo tremante della propria ragazza; le accarezzò i capelli, sperando di riuscire a rilassarla un minimo, ma il suo pianto non si affievolì, così nemmeno per i suoi singhiozzi.

L’atmosfera che si respirava in quella casa, fin troppo silenziosa, era di tensione e di dolore. D’altronde, che altra atmosfera ci poteva essere dopo un lutto? I genitori di Ary si erano rifugiati nelle camere al piano superiore, lei si era messa sul divano in salotto e da qualche ora non si muoveva dal suo posto: era come se le avessero strappato l’anima, talmente era assente, e come se non riuscisse a capire ciò che stesse accadendo intorno a lei.

Erano passati già diversi giorni dall’accaduto, erano tornati a Milano in anticipo poiché quella normalissima ed abituale vacanza si era trasformata in un inferno, e qualche ora prima era stato celebrato il funerale in una chiesa modesta, con pochi ed intimi partecipanti.

Tra loro c’era stato un insolito silenzio durante quei giorni, un po’ perché non si sapeva cosa dire oppure perché proprio non c’era nulla da dire in quel momento, ma da quando Davide non c’era più sua sorella non aveva più aperto bocca, come se avesse perso la voce, e viveva passivamente, mangiando a malapena e se forzata.

Tom sentì un profondo malessere guardandola e si sentì uno stronzo per non poter starle accanto come avrebbe dovuto e voluto. Si strinse le braccia al petto, cercando conforto nel suo stesso abbraccio, e fece un passo verso il salotto, quando un clacson fuori dalla casa li fece sobbalzare tutti quanti: la macchina che li avrebbe portati in aeroporto per tornare in Germania era arrivata.

Non si sarebbe mosso da lì, avrebbero dovuto prenderlo con la forza, si promise e senza badare ai clacson successivi, poiché nessuno si era mosso per avvisare l’autista che sarebbero arrivati, raggiunse il divano e si mise seduto accanto alla propria ragazza. Le avvolse un braccio intorno alle spalle e l’avvicinò a sé, se la strinse al petto e con le labbra sulla sua fronte tiepida le sussurrò:

«Mi dispiace, piccola. Io sono qui».

Ma da lei nessuna reazione, nemmeno ricambiava l’abbraccio. Gli sembrava di avere fra le braccia un pupazzo inanimato. Sentirla in quello stato fu un altro colpo in pieno petto.

«Ti amo, ti amo, ti amo», sussurrò ancora, ripetutamente, passando a baciarle la tempia e i capelli.

Ary non gli rispose nemmeno quella volta e ciò che gli fece più male fu che se l’era aspettato. Sapeva che avrebbe dovuto lottare, che avrebbe dovuto farle aprire la bocca e farle uscire un suono qualsiasi anche con la forza se necessario, ma in quel momento non possedeva nemmeno un briciolo di quella forza. Anzi, come aveva potuto pensare di costringerla a fare qualcosa che non voleva? La sua piccola, il suo amore…

Non si era nemmeno accorto che Gustav era uscito e aveva raggiunto la macchina per avvisare l’autista che sarebbero arrivati fra qualche minuto: tutto il suo campo visivo e la sua attenzione erano rivolte solamente a lei, a quel gattino ferito che teneva fra le braccia e che non avrebbe dato alcun segnale di vita se non fosse stato per il suo respiro, che gli sfiorava il collo facendolo rabbrividire.

«Ragazzi, dobbiamo andare… l’autista è incazzatissimo e ha minacciato di chiamare David…», spiegò Gustav a Bill e Georg, ancora in cucina con Anto che ormai aveva gli occhi gonfi e arrossati di pianto.

Forse credevano che non riuscisse a sentirli, tanto che iniziarono a parlare di lui e di Ary, lanciandogli occhiatine preoccupate:

«Ma come facciamo, Tom non…».

«Lo sa benissimo che se fosse per David verrebbe a riprenderselo seduta stante».

«Ci sono troppe cose in ballo, non può… lasciarci così, di punto in bianco. Io… io capisco che cosa è successo ad Ary, che ha bisogno di lui, ma anche noi abbiamo bisogno di lui. Ci sono concerti, promozioni, il nuovo album… e non può sparire dalla circolazione, le fan inizierebbero a sospettare qualcosa e credo che non sia la cosa migliore per Ary, se si venisse a sapere qualcosa…».

«Georg, tu hai ragione, però…». Bill sospirò e, mentre lanciava una fra le tante occhiate nervose in direzione del gemello, incontrò il suo sguardo ferito e deglutì, sentendosi infinitamente stupido ed inutile: voleva aiutare il fratello, ma non poteva… Era una sensazione orribile, perché sentiva ogni minima emozione che stava provando, proprio come se fosse nel suo corpo, e non era affatto piacevole.

Tom distolse per primo lo sguardo da quello di Bill e abbassò gli occhi su Ary, stretta ancora dalle sue braccia, impassibile e con il viso nascosto nell’incavo della sua spalla. Le accarezzò docilmente i capelli e le prese il viso fra le mani, con una delicatezza tale da farla sembrare di cristallo. La guardò intensamente negli occhi, nonostante li sentisse bruciare, e diede un tono neutrale e composto alla propria voce, seppure con fatica:

«Piccola, dimmi qualcosa». La guardò negli occhi e si accorse che quegli occhi azzurri di solito così caldi ora erano di ghiaccio, privi di ogni emozione: ci aveva sempre visto un mondo, dentro quegli occhi… ora non ci leggeva niente, erano vuoti, spenti come si era spenta la vita in Davide. Stava morendo con lui e Tom non poteva fare assolutamente nulla per impedirlo… A quel pensiero fu costretto a chiudere gli occhi per non piangerle davanti e un brivido lo scosse, portandolo ad appoggiare la fronte sulla sua.

«Qualsiasi cosa», la implorò con la voce tremante, passandole i pollici sulle guance.

«C’è la macchina che vi aspetta».

La sua voce, nonostante fosse fin troppo flebile, gli arrivò alle orecchie come un grido disperato e spalancò gli occhi per guardare i suoi che erano ancora lì, immobili, gelidi.

«C-Come?», sussurrò, incredulo.

Gli stava dicendo di andarsene? Non lo voleva al suo fianco? Una marea di domande e di dubbi si insinuarono nella sua mente senza pietà, distruggendolo psicologicamente, e si chiese se avesse sentito male oppure se quelle parole fossero uscite davvero da quelle labbra che fino a qualche giorno prima sorridevano e lo baciavano con amore.

Ma Ary ritornò in quel suo stato di mutismo, dopo aver sospirato stancamente, e si sfregò gli occhi prima di accasciarsi sul divano, la testa fra i cuscini morbidi e i capelli biondi che le coprivano il viso pallido e sciupato.

Tom, ancora fermo come l’aveva lasciato, era scioccato e profondamente ferito. Non sapeva più che cosa pensare, ma il suo cuore gli disse che non aveva detto così perché non lo volesse al suo fianco, perché non lo amava più, ma solo perché in quel momento aveva bisogno di stare un po’ da sola. Ma era davvero sicura di quello che aveva detto? Una volta preso quell’aereo non si sarebbero visti chissà per quanto, era sicura di voler stare senza di lui per così tanto tempo?

Con la coda dell’occhio notò il fratello e i suoi amici con il fiato sospeso, che guardavano con gli occhi leggermente sgranati tutto ciò che accadeva nel salotto. Prendendo coraggio, fece un lungo respiro profondo, si inginocchiò sul pavimento e le spostò i capelli dal viso, per poterla guardare negli occhi.

«Piccola», mormorò incerto, mentre il suo cuore prendeva a battere furiosamente nella cassa toracica, facendogli persino male: quegli occhi inespressivi lo uccidevano. «Non so per quanto non ci vedremo, una volta uscito da quella porta. Se tu vuoi posso stare qui, con te». Le accarezzò ancora i capelli, portandoli dietro l’orecchio, e durante il compimento di quel normalissimo gesto notò una scintilla negli occhi della ragazza che amava.

Che fosse il suo modo per dirgli di restare? Era possibile che nel profondo volesse che lui restasse al suo fianco, ma che non voleva essere compatita e allo stesso tempo ostacolare il suo lavoro, la sua vita?

«Io posso restare, se tu lo vuoi», mormorò avvicinandosi di più al suo viso, con l’ombra di un sorriso sulle labbra. «Vuoi?».

Le labbra di Ary si dischiusero, forse avrebbe parlato e avrebbe risposto a voce, avrebbe estraniato i propri pensieri, la propria volontà; Tom pendeva da quelle labbra, le guardava con un desiderio impellente di ricevere la conferma di quello che aveva visto di sfuggita e allo stesso tempo fremeva perché avrebbe voluto tanto baciarle fino a non avere più aria nei polmoni.

Ma la suoneria di un cellulare interruppe tutto quel complicato meccanismo e in un attimo Ary serrò le labbra, sprofondando di più con la testa dentro al cuscino. Tom sollevò lo sguardo, adirato, e vide Georg tirare fuori dalla tasca dei jeans il proprio telefono e portarselo all’orecchio.

«Pronto?», sussurrò, dandogli le spalle. Quello, però, non gli impedì di sentire.

«Oh, David, sei tu… No, noi non siamo ancora… C’è stato un contrattempo… No, no! Tom non vuole venire», sospirò. «Lo conosci, è testardo e anche io… anche io sono d’accordo con lui, infondo. Non si potrebbe…? Ma, David, Ary…! Lo sappiamo perfettamente, ma…!». Georg sospirò di nuovo, incurvando le spalle in avanti, e Tom capì che non ci sarebbe stato nulla da fare: si sarebbe dovuto separare dalla sua piccola, avrebbe dovuto lasciarla sola, o quasi, proprio nel momento in cui aveva più bisogno di lui.

«Sì, okay», rispose Georg, probabilmente ad un ordine del manager, e chiuse la chiamata, riponendo il cellulare nella tasca.

Bill e Gustav non ebbero bisogno di delucidazioni, la situazione era fin troppo chiara a tutti ormai. Tom compreso. Anzi, lui aveva capito meglio di tutti.

«Tu non puoi restare».

All’udire quella voce, se possibile ancora più flebile e soffocata a causa del cuscino, sobbalzò e portò immediatamente lo sguardo sul suo viso nascosto nuovamente dai capelli, che prese a spostare alla rinfusa, respirando affannosamente.

«No, piccola, io…», tentò di spiegare, ma la mano di Ary si posò sulla sua, sulla propria testa, e la trattenne lì, facendogli gelare il sangue nelle vene.

Dopo qualche istante di silenzio, mormorò: «Tu non puoi restare, nemmeno se io voglio».

Tom sentì i propri occhi riempirsi di lacrime e lottò con tutte le sue forze per ricacciarle indietro, ma allo stesso tempo un grosso magone in gola gli fece mancare l’ossigeno e gli fece sfuggire un singhiozzo. Si appoggiò con il viso sul bordo del divano e strinse la mano di Ary, così piccola e fredda, nella sua grande e calda. Era disperato, non sapeva più che cosa fare per impedire che succedesse l’inevitabile.

Improvvisamente la mano di Ary sgusciò via dalla sua presa e si posò sul suo capo, sul cappellino nero che indossava; poi scivolò lentamente sul suo profilo e si fermò sulla sua guancia bollente e che era stata rigata da una solitaria lacrima che non era riuscito a trattenere fra le ciglia.

«È giusto così», mormorò ancora Ary, atona. Aveva parlato tanto, tantissimo: aveva forse detto più cose quel pomeriggio che durante tutti quei giorni. «Tu devi andare, è la tua vita».

«Fa schifo, fa schifo la mia vita se so che tu non ci sei e che soffri», biascicò, ormai tormentato dalle lacrime e i singhiozzi.

L’ennesimo clacson, persino più lungo ed irritato degli altri, gli fece alzare il capo ed incontrare di nuovo quegli iceberg che senza pietà gli lacerarono il petto. Ma riuscì a cogliere qualcosa di diverso, quella volta. Forse… Era un minuscolo sorriso, quello che stendeva di qualche centimetro le sue labbra?

La mano di Ary non si era ancora spostata dalla sua guancia e non sembrava volerlo fare, perché iniziò ad accarezzarla con il pollice. Una lacrima sgorgò dal suo occhio destro e li chiuse entrambi ad un nuovo clacson, lasciando scivolare la mano sul collo e sul petto di Tom, per poi lasciarla ciondolare nel vuoto, ad un soffio da terra.

«Vai», disse quasi in labbiale, talmente poca era stata la sua voce in quel momento.

«Sei sicura?», domandò incerto. Per forza, che cavolo di domanda era?

Ary, ovviamente, non rispose; si limitò a dargli le spalle e a rannicchiarsi su se stessa.

Tom si passò una mano sul viso, distrattamente, e si sollevò da terra tenendo le mani sul bordo del divano. La guardò dall’alto e gli sembrò così piccola e così indifesa… Si piegò nuovamente su di lei e le posò una mano sui capelli, sfiorandole la guancia, poi avvicinò le labbra alla sua pelle e sussurrò un «Ti amo», prima di baciarla sull’angolo della bocca, il massimo a cui riusciva ad arrivare. Lei non ebbe alcuna reazione esterna, rimase impassibile e con gli occhi chiusi: forse si era addormentata.

Un altro clacson lo fece girare irritato verso la porta, fulminandola con lo sguardo. Aveva una voglia immensa di ammazzare l’autista che li avrebbe portati in aeroporto.

«Ti chiamo quando arrivo, okay?», disse. Rimase qualche secondo in attesa di una risposta, che non arrivò.
«Okay», si rispose da solo, allora, e ritornò dagli amici con passo stanco e demoralizzato.

Le braccia di Anto furono le prime che lo avvolsero una volta raggiunti e poi ognuno lo strinse a sé, ricordandogli tantissimo il momento che aveva passato a guardare Ary mentre veniva abbracciata a turno dai parenti e da altre persone che non conosceva, e le facevano le condoglianze. Rabbrividì e si scostò docilmente da Georg, l’ultimo: lui non aveva perso proprio nessuno, a parte Davide, e non doveva essere “consolato” in quel modo fin troppo triste.

La guardò, stesa sul divano, e si promise che avrebbe lottato per la propria piccola. E ce l’avrebbe fatta, ne era certo.

 

Raggiunse la propria stanza, lasciò lo zaino, nonché suo bagaglio a mano, accanto alla porta, che chiuse a chiave, e poi si gettò sul letto, sul quale rimase diversi istanti ad osservare il soffitto.

Con un sospiro prese il cellulare nella tasca dei propri jeans, compose il suo numero a memoria e se lo portò all’orecchio. Chiuse gli occhi, pregando con tutte le sue forze che rispondesse, ma dopo secondi incessanti, passati ad ascoltare i “tu” che indicavano che era libero, l’unica cosa che udì fu una voce metallica: la segreteria telefonica.

Lanciò il telefono dall’altra parte del letto e affondò il viso nel cuscino. Da solo, nella sua camera, non aveva alcuna paura a mostrare i suoi sentimenti, infatti incominciò a piangere come un bambino.

Infondo, come poteva avere la certezza di riuscire a guarire la propria piccola da un male che non sapeva nemmeno da che parte doveva essere preso?
Come poteva avere la certezza che anche se avesse lottato con tutte le proprie forze per lei, avrebbe avuto successo?

L’unica cosa a cui riuscì ad aggrapparsi, per quella sera e alla quale si sarebbe aggrappato molte altre sere ancora, fu il sentimento che li legava e che sperava li avrebbe tenuti uniti anche in quelle circostanze: l’amore.

   
 
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