Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: kiriku    24/06/2011    2 recensioni
[Storia classificatasi terza a parimerito con Glox e Simph al multifandom contest "Di fiori e paesaggi" indetto da My Pride]
Non ho mai pianto dalla morte di mamma Silvia, non volevo farvi rivivere il dolore per la sua scomparsa.
Non vi ho mai chiesto nulla di lei, non volevo vedere il volto della nonna rabbuiarsi.
Ma ora che sono vecchia e sola, non posso far soffrire nessuno.
I miei figli sono tutti così lontani, in giro per il mondo.
I miei nipoti, nonostante le mie insistenze per conoscerli, non sanno neanche di avere una nonna.
Non è questo che avreste voluto per me, ma di cosa vi sorprendete?
Qualcuno avrebbe dovuto forse essere buono con me?
E con voi allora?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

banner

Note dell'autore: Di solito preferisco metterle alla fine, ma credo possano essere utili per aiutare il lettore nella suddivisione temporale. Certi riferimenti, se applicati a epoche diverse, non avrebbero senso. Sono datazioni piuttosto intuibili nella storia, soprattutto tramite le parole di Marinella in merito al presente e alla sua vita coi nonni, considerando anche che dice lei stessa di avere ottant’anni, ma sempre meglio specificare: non tutto può essere colto ad una prima lettura e poi spesso vengo fraintesa.

Angelo (nonno): 24/2/1868 – 7/9/1946

Ambrogina (nonna): 12/12/1869 – 6/5/1935

Marinella:  27/7/1928 – 7/9/2008

Silvia (mamma): 23/8/1912 – 28/10/1932

Giacomo (papà): 6/2/1907 – 13/12/1932

Angelo e Ambrogina hanno rispettivamente 64 e 63 anni quando iniziano a prendersi cura di Marinella.

Ambrogina muore a 66 anni, quando Marinella ne ha 7 anni.

Angelo muore a 78 anni, quando Marinella ne ha 18 anni.

Silvia muore a 20 anni e Giacomo a 25, quando Marinella ha 4 anni.

Marinella muore a 80 anni.

 

 

-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 

Blu, bianco, azzurro. Blu, bianco, azzurro.

E’ bizzarro, lo so, ma è da quando ero bambina che amo dipingere utilizzando un pennello per ogni colore.

Blu, bianco, azzurro. Blu, bianco, azzurro.

Questo cielo è così bello, sarebbe un peccato ricrearlo in una boccetta; io voglio vederlo solo sulla tela.

Blu, bianco, azzurro. Blu, bianco, azzurro.

Le nuvolette candide scorrono veloci.

Il paesaggio invece, pur restando sempre lo stesso, è ogni volta diverso.

E non mi riferisco solo alle nuvole.

Sono io a essere diversa, o almeno il mio modo di vedere le cose.

 

Ne ho passate tante, in questi ottant’anni.

 

Le montagne della mia infanzia ancora si specchiano in quel lago così limpido.

E’ l’inizio di settembre, la terra è arsa e bruciata dalla siccità di agosto.

Ho visto queste cime imbiancate dalla neve, ricoperte di immensi prati verde smeraldo e ora sono brulle.

Blu, bianco, azzurro. Blu, bianco, azzurro.

Per loro ricomincerà tutto da capo.

Per me, no. Per me è finita qui.

Abbandono momentaneamente i pennelli e la tavolozza sulla terra nuda e mi avvicino alla mia auto, con fatica.

Camminare diviene ogni istante più faticoso.

Apro il bagagliaio, togliendone un vaso di circa quindici centimetri di diametro.

Il papavero che ho curato giorno e notte per impedirgli di sfiorire, altro non è che uno stelo marcio e mortifero*.

Scusa nonno, non somiglia per niente a quelli che mi regalavi tu.

Quando ero bambina venivamo sempre qui, ricordi?

Sempre a giugno, nonostante ci fosse molto lavoro da fare nei campi.

Coglievamo un sacco di papaveri per me.

Per la zia Carla.

E soprattutto per la nonna, al cimitero.

Perdevamo sempre un sacco di petali per strada, arrivavano più steli spogli che fiori, ma almeno erano verdi.

Volevamo tutti bene a nonna Ambrogina, le patate che cucinava erano deliziose.

Le “patate Marinella”, come le aveva ribattezzate, dando loro il mio nome.

Nessuno è mai stato in grado di replicare quella ricetta.

Forse era la sua dolcezza a renderle così morbide e saporite.

 

Era anche una sarta eccezionale; per quanto mi sforzassi di superarla, non sono mai stata alla sua altezza.

Dopo che ebbi ereditato la sua bottega, il numero dei clienti si dimezzò.

 

Sai, nonno, ho ancora il suo bracciale d’oro.

I rubini che vi erano incastonati, a formare due papaveri sovrapposti, i suoi fiori preferiti, si sono opacizzati, alcuni si sono persi; anche l’oro, per quanto sia un metallo incorruttibile, inizia a presentare i segni del tempo.

Ne ha viste tante, eh?

Conosco a menadito tutte le avventure di questo bracciale.

Una volta era anche caduto nel pozzo della nostra vecchia casa in campagna e non era stato semplice ritrovarlo.

Ti eri calato in quel buco e vi eri rimasto, con l’acqua alla vita, per cinque ore.

La nonna non aveva smesso di piangere, neanche quando le avevo offerto i lamponi.

Solo tu, di ritorno, stanco ma con un sorriso vittorioso, eri riuscito a farla sorridere, sebbene ancora si sentisse in colpa.

Mi sarebbe piaciuto esserci il giorno in cui glielo avevi regalato. Ti era costato davvero tanto, avevi dovuto vendere la mucca e parte delle sementi per comprarlo.

A pensarci adesso, ora che il mondo è cambiato rispetto a un secolo fa, sembra assurdo.

La nonna sapeva bene che non te lo potevi permettere; il ciabattino le aveva spifferato tutto.

Mi hai raccontato che aveva pianto anche quella volta.

Viveva tutto in modo così intenso, nonostante osservasse il mondo in punta di piedi, quasi temesse di romperlo.

 

Il mondo che non era mai stato buono con lei.

Vostra figlia, mia madre, venne colpita da un’influenza fulminante che la portò alla morte, seguita poco dopo da papà Giacomo**.

Vi eravate ritrovati soli, a dover sopportare il dolore peggiore per un genitore, la perdita di un figlio.

Vi eravate ritrovati soli, ormai non più giovani, a dover accudire una bambina sola, di quattro anni, incapace di rielaborare il lutto, di dare un senso al suo dolore.

Ricordi, nonno? Ricordi tutto?

Io mi ricordo e, ogni volta che rimembro quei momenti, vengo assalita da una profonda malinconia.

Ultimamente i miei occhi lacrimano spesso; è l’età, tutti invecchiano, ma non credo sia questo il motivo per cui le mie guance, testimoni di una vita vissuta, siano ora solcate da due nuove strade, cancellabili con il semplice polsino di una camicia.

Non ho mai pianto dalla morte di mamma Silvia, non volevo farvi rivivere il dolore per la sua scomparsa.

Non vi ho mai chiesto nulla di lei, non volevo vedere il volto della nonna rabbuiarsi.

Ma ora che sono vecchia e sola, non posso far soffrire nessuno.

I miei figli sono tutti così lontani, in giro per il mondo.

I miei nipoti, nonostante le mie insistenze per conoscerli, non sanno neanche di avere una nonna.

Sono stata abbandonata da mio marito quando avevo solo trentacinque anni.

Al mio risveglio, una mattina di dicembre, accanto a me, non avevo trovato altro che lenzuola vuote e fredde.

Non è questo che avreste voluto per me, ma di cosa vi sorprendete?

Qualcuno avrebbe dovuto forse essere buono con me?

E con voi allora?

Paradossalmente, l’unica grazia che avete ricevuto è stata nel momento della vostra morte.

La nonna Ambrogina se n’era andata nel sonno, in silenzio, in punta di piedi, come aveva sempre vissuto.

E tu eri venuto qui, senza dire nulla, il sette settembre di sessantadue anni fa. Ti eri seduto sulle sponde di questo lago, attendendo che la dolce morte ti accogliesse tra le sue braccia.

Tutti dicevano che eri un vecchio rimbambito, che probabilmente ti eri dimenticato la strada di casa, ma io non lo credevo possibile.

Sapevi che la vecchia pendola della tua vita stava per battere l’ultimo rintocco.

Lo sentivi, come io lo sento ora.

E’ una sensazione, una consapevolezza irrazionale, inspiegabile, come quella che spinge un animale a cercare l’isolamento pochi giorni prima che sopraggiunga la sua ora.

E’ solo nel momento della propria morte che ci si riscopre per quello che si è veramente: un animale, niente più.

Sapevi anche che io sola avrei potuto ritrovare il tuo corpo e, se c’è qualcosa che rimpiango nella mia vita, è il non essere giunta in tempo per assistere al tuo ricongiungimento con nonna Ambrogina.

Sono certa che, anche se non vi posso vedere, ora siate qui, su queste montagne, a divertirvi come ragazzini.

Perciò, aspettatemi.

Organizzeremo una bella festa, come quelle che facevamo sempre nel cortiletto di zio Marcello.

 

 

Ho quasi finito, mi manca poco.

 

 

Blu, bianco, azzurro. Blu, bianco, azzurro.

 

Rosso, verde. Rosso, verde.

 

Nero, bianco, rosso. Nero, bianco, rosso.

 

Il mio dipinto sta per essere ultimato.

Non è lo stesso paesaggio lontano e immutabile di prima.

Con la mia arte, ho piegato la realtà al mio volere.

Ora queste montagne sono verdi, puntinate dal rosso dei papaveri, si riflettono nel lago cristallino, mentre le vostre sagome, insieme a quelle di mamma e papà avanzano felici tra i lunghi fili d’erba.

Li ricordo solo grazie a quel vecchio e brutto ritratto che zio Marcello aveva realizzato in occasione della mia nascita.

Una nuvoletta ha appena oscurato il sole ma, nel mio dipinto, esso continua a risplendere gioioso.

Manca ancora un ultimo tocco e poi sarà completato.

 

 

 

Manco io.

 

 

 

Nero, bianco, rosso. Nero, bianco, rosso.

 

Aggiungo la mia sagoma, senza pensare che il verde utilizzato per il prato è ancora fresco.

Il colore si mischia, creando un’antiestetica macchia scura, mentre la mia mano destra inizia a tremare, lasciando cadere il pennello.

Non sono riuscita a fare bene neanche la mia ultima tela.

Ho voluto la perfezione e ho rovinato quello che andava bene***.

Non c’è più neanche la mia illusoria realtà a consolarmi; anche il mio dipinto si è preso beffa di me.

Voi vivrete insieme per l’eternità, ma io non sarò con voi.

Io sarò solo un ricordo dimenticato, un’ombra nera, una chiazza di colore indefinita e indesiderata, appartenente a quella che era stata la vostra vita.

Credo che alla fine morirò sola, come un’antipatica vecchiaccia, con il mio papavero marcio.

Sono sola.

Sola.

Sola.

Questa parola non fa altro che rimbombarmi nella testa. Non la posso scacciare, è la realtà, e a me manca davvero poco.

Non ci sarà nessuno a prendersi cura del mio cadavere, nonno.

Non ci sarà proprio nulla per me, nonna.

Nessuno mi troverà mai, forse qualche turista, ma in questo luogo non ci viene più nessuno da anni.

E anche se mi trovassero, per loro sarei solo un cadavere, magari già semi-divorato da insetti e uccelli, senza volto e senza nome.

Mi siedo, con estrema e crescente fatica, sul vecchio sgabello tarlato che, un tempo, nella mia fantasia di bambina, era un trono regale degno di una regina.

Ora mi appare per quello che è: un pezzo di legno fatiscente, impregnato di umidità.

Mi appoggio al piccolo schienale scricchiolante e socchiudo gli occhi, levandomi il bracciale di nonna Ambrogina e stringendolo tra le dita tozze e callose.

Per favore, questo è il mio ultimo grido di speranza e disperazione; so che sei solo un oggetto, ma anche tu, come me, sei stato amato da nonno Angelo e da nonna Ambrogina, hai dormito con loro, sei stato accanto ai loro cuori, li hai uniti. Non vali per quello che sei, ma per quello che rappresenti. Per ciò che ti è stato dato. Sei speciale, sei magico. Lo credevo da bambina e, per quanto mi ostini a considerarmi solo una vecchia decrepita e disillusa, ci credo ancora.

Trasformami in un papavero.

Voglio anch’io rimanere impressa su di te, voglio diventare io stessa il segno indelebile del mio passaggio, come quei due fiori rossi e vissuti incastonati nel tuo oro, simbolo dell’amore tra un uomo e una donna.

Anch’io facevo parte della loro vita, sarebbe egoistico da parte tua non accogliermi, non credi?

 

Chiudo gli occhi e continuo a far scorrere il cerchio metallico nella mia mano, fino ad arrivare ai papaveri.

Inspiro a fondo, con il cuore che palpita come non accadeva da lungo tempo.

Mi faccio coraggio e apro gli occhi.

 

 

Due.

 

 

Ce ne sono due soltanto, come sempre.

Le mie lacrime iniziano a scendere.

-Nonna… Nonno…

Non sono le semplici memorie di una vecchia a causarmi profonda tristezza, questa è disperazione, angoscia, terrore.

Finché sei giovane e piena di vita puoi dire tutto ciò che vuoi, che la morte non ti spaventa, che le ridi in faccia, ma è solo questione di tempo; solo quando ti trovi di fronte a lei, comprendi.

Sai che non ci sarà più nulla, che le favole, che hai raccontato agli altri al solo scopo di convincere te stessa, non valgono più.

Morirai, nient’altro.

Non mi dispiace andarmene tra le lacrime; con gli occhi gonfi di pianto, i papaveri sembrano tre.

L’ultima illusione di questa povera vecchia, prima che questa senta il suo corpo, che già non riconosceva più come suo, distaccarsi da lei.

Prima che il braccialetto cada definitivamente a terra, dimenticato da tutti.

Con lei.

 

 

 

*Sono i primi di settembre. I papaveri fioriscono a fine maggio, inizio giugno, per questo il fiore portato da Marinella è marcito.

**Era una morte molto comune nei primi del novecento, soprattutto nelle famiglie povere degli anni trenta. La crisi del ’29 ancora segnava l’economia, le famiglie, specie quelle con bambini, non potevano permettersi di acquistare grandi quantità di alimenti, per altro si trattava di alimenti poveri di proteine ed elementi nutritivi. Il sistema immunitario ne risentiva, le persone erano debilitate e l’ospedale gratuito per poveri non aveva strutture e medicinali adeguati.

***La frase è di Monet ed è parte integrante delle consegne del Contest "Di fiori e paesaggi" indetto da My Pride, di cui riporto il link: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9620676&p=1.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: kiriku