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Autore: cuoredpanna    25/06/2011    3 recensioni
Erano mesi ormai che era rinchiusa lì dentro, e non sapeva se si ricordava come fosse un profumo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                             -Auschwitz e il suo odore-
Seduta per terra con le spalle al muro cercava di decifrare quell’odore che impregnava l’aria. Non poteva essere attribuito ad un profumo, poiché annusando l’aria quello che le narici percepivano era qualcosa di acre che pizzicava le pareti del naso, che ti faceva starnutire, che ti stordiva. Erano mesi ormai che era rinchiusa lì dentro, e non sapeva se si ricordava come fosse un profumo. Scosse la testa per non piangere. Non aveva più lacrime. Si guardò attorno ma se ne pentì nel momento stesso in cui voltò il capo. Desolazione, disperazione, deperimento..deportazione. Ecco cosa la circondava. Era quella la sua nuova casa. Si carezzò il braccio magro e ne sentì solo ossa. Era quello ormai, solo un mucchio di ossa. Un’ondata improvvisa di quell’odore acre la riportò alla realtà. Era indecifrabile. Non lo ricollegava a nulla. Non lo aveva mai incontrato durante la sua vita. Una deportata che dormiva nella branda sotto di lei le aveva esplicitamente detto “E’ puzzo di carne bruciata..carne umana” lei aveva scosso la testa ignorandola. Non le credeva. Sapeva che i tedeschi erano spietati ma il genere umano non sarebbe mai arrivato ad una tale crudeltà. No..lei non ci credeva. Si sollevò con non poca fatica e lasciò libera decisione ai suoi piedi. L’avrebbero condotta ovunque volessero. Dove, non aveva più importanza ormai. Mentre camminava con la testa vuota da tanto tempo ormai, sentì quell’odore acre aumentare a dismisura. Le provocava quasi la nausea. Poi i suoi occhi si allargarono in un misto di incredulità e disprezzo. Delle gigantesche bocche di metallo accoglievano barelle in acciaio sulle quali giacevano corpi ancora vivi di persone che fino a qualche minuto prima lei aveva guardato. Non era vero. Non poteva essere vero. La deportata sotto di lei aveva ragione..quelli erano forni. E quell’odore acre, quel ‘puzzo’ veniva dalla carne umana bruciata viva. Aveva sentito altri deportati dire che da quei corpi ricavavano sapone o bottoni che venivano usati, senza scrupoli, da tedeschi ricchi che elogiavano la razza perfetta. La razza ARIANA. Scosse la testa disgustata, si voltò ma non riuscì a trattenere un conato di vomito. Cercò di gettar via, oltre al poco pasto ingerito, l’odio e il disprezzo verso quegli uomini che non erano uomini. Il tempo sembrò passare così velocemente davanti i suoi occhi quasi privi di vita, che non si rese quasi conto dell’arrivo degli Americani. Quell’inferno era finito. L’aquila dell’America aveva salvato quei pochi brandelli di popolazione ebrea che restavano. Finalmente era libera. Se libera si poteva considerare una deportata di Auschwitz. Il suo cervello non sarebbe mai davvero stato libero, avrebbe riproiettato all’infinito i giorni vissuti in quell’inferno, la notte si sarebbe svegliata urlando e chiedendo aiuto, avrebbe guardato con sospetto chiunque le passasse accanto, avrebbe sentito nelle sue orecchie il lamento della disperazione ed avrebbe ricordato l’odore della morte, sua compagna inseparabile dal primo giorno ad Auschwitz. Lo sapeva lei e lo sapevano tutti, il Lager ti resta dentro. Poi..l’incontro con lui sul pianerottolo del suo condominio, gli sguardi eloquenti, i sorrisi imbarazzati, le poche frasi di un discorso. E la normalità che torna improvvisa nella tua vita senza che tu te ne accorga. E poi finalmente il primo vero appuntamento e il cuore che le batte forte. Quel cuore che credeva di aver perso. Seduta al tavolo del ristorante cercava di ascoltare ciò che lui le raccontava ignorando deliberatamente gli impulsi che il cervello le mandava. Auschwitz non le avrebbe compromesso, nuovamente, la vita. Finita la cena passeggiarono lungo il fianco del fiume, sorrideva, finalmente tutto era come doveva essere. Arrivati al pianerottolo lui la strinse tra le braccia per augurarle la buonanotte e fu in quel momento che tutto, nuovamente, cambiò. L’odore acre tornò a farle pizzicare le pareti del naso tanto da farlo sanguinare. E decise di lasciar libero spazio agli impulsi che il cervello le aveva mandato per tutta la sera. Un’immagine nitida le si stagliò davanti. Lui accanto a quel forno che manovrava i comandi per bruciare quel che restava della sua popolazione. E poi ancora la prima volta che lo aveva incontrato, era il primo giorno da deportata, tre ufficiali fecero sistemare tutta la sua ‘compagnia’ in riga e poi lui con un sorriso beffardo cominciò, lentamente, a pronunciare quelle parole che le si marchiarono a fuoco nel cervello..lettera per lettera. “E’ inutile che parlate tra voi, cercate di memorizzare azioni, luoghi o volti. Perché una volta usciti di qui, se ne uscirete vivi - rise guardando gli altri ufficiali – nessuno crederà ai vostri racconti, penseranno che siete pazzi e diranno che la mente umana non è in grado di arrivare a tanto. Penseranno che siano delle fandonie frutto della vostra immaginazione e vi puniranno mentre noi – fece una pausa ad effetto – noi ne usciremo puliti e vincitori” rise spingendole una ad una ed uscendo soddisfatto. Le ricordava tutte quelle parole, sapeva che nessuno le avrebbe creduto perché lei per prima non vi aveva creduto. Si liberò da quell’abbraccio rifugiandosi nel suo appartamento. Aspettò di sentire la porta chiudersi poi si diresse nella camera che una volta era stata dei suoi genitori, aprì un cassetto dell’armadio e tirò fuori il revolver appartenuto a suo padre. Quell’uomo che ormai era un bottone su una camicia costosa di qualche maledetto tedesco. Un metro e ottanta di uomo trasformato in due centimetri di bottone, digrignò i denti l’avrebbe pagata. Strinse il calcio della pistola, infilò il silenziatore e senza esitare si diresse in quell’appartamento per riscuotere la vendetta che spettava a tutti gli ebrei. Spalancò la porta con un calcio trovandolo su una poltroncina. Sobbalzò per lo spavento e sgranò gli occhi nel vedere la pistola puntata su di sé. “Sono ebrea” disse a denti stretti “Non è un problema” sentenziò lui “Hai detto la stessa cosa ai tuoi superiori quando ti hanno chiesto di bruciare delle persone innocenti?” urlò e lui divenne paonazzo “C - come..” “Ho sentito l’odore fetido della carne umana bruciata, su di te. Tu non puoi riconoscerlo indossavi una mascherina” sentenziò “Io..ti prego non farlo” la supplicò “E perché no? Perché sei una persona? Anche tutti i bottoni o i saponi che hai creato lo erano, c’erano i miei genitori lì! Anche loro ti chiedevano di non farlo, eppure con il sorriso sulle labbra non ti sei fatto scrupoli! Solo perché non eri tu a morire!” gli sputò addosso tutto l’odio che gli ribolliva dentro. L’odio che le avevano fatto covare verso la Germania e i tedeschi. L’odio per aver perso tutto. Senza dargli il tempo di replicare gli sparò tre pallottole al cuore. Quel cuore che anche lei non aveva più. Quel cuore che aveva lasciato ad Auschwitz.
   
 
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