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Autore: TuttaColpaDelCielo    27/06/2011    2 recensioni
«Ho diciassette anni e sono pazza.»
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Sfumature'
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«Ho diciassette anni e sono pazza.»
Era iniziato tutto così, con una citazione tratta da un libro che parlava di pagine date alle fiamme, di un mondo asettico, di persone non più persone ma fantasmi grigi.
«Devo chiamarti Clarisse?» era stata la risposta sussurrata dall’uomo – o dal ragazzo, impossibile dirlo con quell’oscurità – seduto su una panca di pietra.
Lei aveva annuito con una risata, chiedendo poi quale fosse invece il suo nome. Lo sguardo scuro dell’altro si era spostato dal suo viso alle altalene attorno a loro, e forse oltre, perdendosi tra le tenebre della notte.
«Faber andrà bene.» aveva risposto infine.
«Quello del libro?»
«Quello del libro, sì.»
Si era seduta accanto a lui, riuscendo con quella vicinanza a scorgere lineamenti quasi del tutto adulti, mentre riportava alla mente frasi imparate a memoria.
«Avete davanti a voi un codardo.» era stata la sua scelta, dopo qualche istante di riflessione. «Davvero?»
«Non ho amici, io.» aveva ribattuto quasi subito l’altro, bruscamente. «Ho paura dei ragazzini della mia età. Davvero?»
«Ho scelto una frase infelice, lo ammetto, ma dovevo citare i tre elementi necessari alla felicità? Lo trovo un po’ eccessivo.» era stata la replica, altrettanto secca.
Le labbra del giovane si erano distese in un sorriso ironico.
«Ricordi a memoria tutte quelle pagine?»
«Io sono Clarisse, devo conoscere le mie battute, non le tue.»
Ed erano rimasti in quel parco, mentre la notte scivolava lentamente verso l’alba, a parlare del grado a cui brucia la carta.


 
 
Sorrise, ricordando il loro primo incontro, e rimediando con l’immaginazione laddove la sua memoria logora non riusciva a giungere. Il grado a cui brucia la carta. Dubitava che avessero mai chiamato in modo diverso quel libro; o almeno non al principio, non prima che tutto diventasse amaro e polveroso e che la stanchezza si facesse strada. Non prima che anche loro iniziassero a trovare sciocco utilizzare un giro di parole invece di un titolo. Appassiti, consumati, spenti, morti. O forse avevano imparato a vivere al di fuori di carta e inchiostro, nella realtà, fino a dimenticare tutto ciò per cui avevano vissuto fino a quel momento; e Faber e Clarisse non erano diventati che un’ombra, una misera traccia sepolta sotto i loro i nomi, e i loro visi ormai assumevano espressioni sconosciute, e le loro voci pronunciavano parole che anni prima avrebbero respinto, e... e crescere, dicevano gli altri, bisogna crescere, prendersi le proprie responsabilità. «Che c’entrano i libri con questo?» «Che vivi nel mondo dei sogni, Lisa!» lei, sua madre e la solita discussione. Erano passati troppi anni per ricordare quando fosse avvenuta l’ultima volta.


 
 
Era luglio, ormai. Il secondo da quando si erano conosciuti – o il terzo? Il tempo assumeva una consistenza vaga, quando pensava a lui: si misurava in libri sfogliati insieme, cene di famiglia, notti passate a parlare nel parco o in un letto.
Per diversi minuti aveva osservato distrattamente le madri che chiamavano i bambini per rincasare, i giovani distesi nel prato, le fronde che non bastavano a schermare del tutto la luce calda del tardo pomeriggio; cullata dalle lievi oscillazioni dell’altalena, le era sembrato che tutto fosse avvolto da un velo chiaro che attutiva i suoni e ammorbidiva i contorni.
«Questo luogo pulsa di vita.» aveva sussurrato, voltandosi verso l’uomo in piedi accanto a lei.
Il tempo aveva reso i suoi lineamenti più adulti, il  suo corpo più robusto, ma gli occhi scuri erano rimasti gli stessi – ancora si perdevano in riflessioni che non le aveva mai svelato, in ricordi che lei conosceva solo in parte. Occhi che, quando si era voltata verso di lui, l’avevano fissata con un’espressione troppo spenta per non metterla a disagio.
Puntando i piedi la giovane aveva arrestato il dondolio dell’altalena.
«Faber.» aveva mormorato, incerta. «Faber, cos’hai?»
Era rimasto in silenzio per quasi un minuto, le spalle curve e lo sguardo ancora fermo sul suo viso, mentre lei sentiva il proprio cuore battere furiosamente, le proprie dita tremare. Panico.
«Ho che il bastardo... che mio padre è andato via. Davide mi ha telefonato, la settimana scorsa. Hanno bisogno di me.» aveva deglutito, distogliendo lo sguardo dal suo viso. «Tra due giorni parto.»
Aveva sentito la nausea chiuderle lo stomaco, il terrore annebbiarle la vista, e aveva continuato a ripetersi che non era nulla di grave. Un mese, due mesi senza di lui: avrebbe stretto i denti in attesa del suo ritorno, mostrandosi forte. Talvolta le aveva raccontato della malattia della madre, delle due sorelle ancora bambine, del proprio trasferimento più simile ad una fuga: ovvio che il fratello gli avesse chiesto aiuto, in un momento simile. Nulla di grave.
«E quando...» si era schiarita la voce tremante. «Quando torni?»
Non aveva ricevuto risposta.


 
 
Accarezzò con lo sguardo la scatola posata sul tavolo della cucina, illuminata dalla luce morbida che filtrava dalle tende di lino alla finestra. Le dita le tremarono, quando le passò delicatamente sul cartone per eliminare la polvere che negli anni si era accumulata. Si pulì le mani nel grembiule, sistemò nervosamente la crocchia di capelli biondi che avevano iniziato ad ingrigire, poi le abbandonò in grembo con un gesto stanco. Perché vuoi farti del male, Lisa?
Solo un’occhiata, solo un rapido sguardo alla ragazza leggera e ingenua che era stata – Clarisse che guardava il cielo con un sorriso, pensando alle stelle e ai libri. Che male poteva esserci nel voler ricordare? Sollevò il coperchio, con il cuore che le batteva furiosamente nel petto.
Lettere. Pile di carta di foggia diversa ma ugualmente ingiallita dal tempo, raccolte da elastici e divise anno per anno: voluminose le meno recenti, sempre più sottili via via che il tempo scorreva, la corrispondenza diradata come le occasioni in cui tornavano ad incontrarsi. C’erano tutte, tranne una che riposava in fondo ad un cassetto, intoccata da tredici anni.
Allungò una mano con lentezza esasperante, scelse una delle pile più spesse e la liberò dall’elastico. Prese un foglio tra le dita tremanti e, dopo che si aprì con un suono simile al crepitio di foglie secche, lasciò vagare lo sguardo alla ricerca di parole particolarmente impresse nella propria memoria. Nulla, solo frasi che ora le sembravano ingenue e vuote. Ne scelse un altro e un altro ancora. Lesse. Un tremito.
 
«Mi piace scrivere lettere. La carta nuova ha un buon profumo, soprattutto quella da corrispondenza, che ancora non sa d’inchiostro, hai mai notato? Ma neanche il profumo dell’inchiostro mi dispiace, se ti scrivo di sera poi la mattina dopo mi sveglio con le dita che sanno ancora della lettera che ti devo spedire. E alzarmi per correre a piedi nudi in giardino, a controllare se è arrivata la risposta, mi sembra qualcosa di antico. Forse lo facevano i nostri nonni, ci pensi? A volte leggendo ciò che scrivi t’immagino nel farlo, chino da qualche parte a pensare le parole e a tracciarle e a cancellarle. Forse fai anche una brutta copia, conoscendoti sarebbe una cosa molto da te, Faber.»
 
Quell’amore per la corrispondenza non l’aveva mai abbandonata. «Farai la fortuna delle Poste, Clarisse.» lesse nella risposta. Una replica tipica di lui – una replica che ormai poteva solo immaginare, pensò con un sorriso amaro.
Ripiegò le due lettere con cura, senza leggere altro. Tremando raccolse nuovamente tutti i fogli sparsi sul tavolo, stringendoli con il vecchio elastico e riponendoli nella scatola; poi scelse un’altra pila tra quelle meno recenti, scritti lunghi anche diverse pagine. Solo uno era di qualche riga: ricordava benissimo di esserne rimasta delusa, di averlo letto decine di volte in attesa di una nuova risposta, imprimendosi nella mente ognuna di quelle parole fredde e sbrigative.
 
«Clarisse,
perdona una lettera così breve e così in ritardo. Da giorni tentavo di trovare il tempo di scriverti. Mia madre sta male e Giulia ha preso una bronchite che fatica a guarire. Temo dovremo rimandare l’incontro di sabato almeno fino al prossimo mese. Ti farò sapere non appena la situazione migliorerà.
Ti annuncio anche che ho convinto Davide a leggere qualcosa del grado a cui brucia la carta; ne sarai contenta, spero, dopo tutte le tue insistenze.
Devo andare.
Faber»
 
Non aveva mai amato i saluti, si era sempre limitato a poche parole, ricordò – ma l’aveva mai davvero dimenticato?
Ripeté i gesti di qualche minuto prima, con le dita ancor più tremanti. La nostalgia stava iniziando a soffocarla come una coltre troppo calda e polverosa, un peso che rendeva ogni suo movimento lento e faticoso.
Prese altre lettere, risalenti a momenti più sereni, rifugiandosi nelle osservazioni pungenti dell’altro, nelle proprie riflessioni insensate, nelle citazioni di libri e di canzoni che avevano trascritto su quei fogli ormai ingialliti.
 
«La curiosità è donna, e soprattutto Clarisse.»
 
«Ci pensi a volte che facciamo ogni cosa senza sapere se il giorno, l’ora, il minuto dopo saremo ancora vivi? E che sprechiamo tantissimo tempo senza dire niente di veramente importante, e che forse non potremo farlo mai perché non ne avremo il tempo? Non ti fa impazzire, Faber?»
 
«L’inferno esiste solo per chi ne ha paura. Hai mai sentito questa canzone, Clarisse? Qualche giorno fa mia madre ha passato quasi tutta la notte a cantarla. Sorrideva. Mi ha fatto pensare a te.»

«A volte mi sembra di non riuscire a respirare e allora devo aprire la finestra, far entrare l’aria, e se sono fuori mettermi a correre fino a rimanere davvero senza fiato. Anche se si gela, anche se non sto bene. Se non lo facessi morirei soffocata.»
 
Più andava avanti nella lettura, più le pile si assottigliavano. Da due, tre lettere al mese erano passati ad una sola, e poi ad una ogni due mesi; arrivò fino all’ultimo anno in cui si erano scritti, alle frasi brevi e fredde di quelle tre lettere – saluti, informazioni sulla famiglia, nessuna citazione, nessuna parola sul grado a cui brucia la carta. A quel tempo entrambi avevano amanti che forse non consideravano più tali, entrambi trovavano quella corrispondenza un obbligo e un tedio, entrambi non riconoscevano più l’altro durante i loro rarissimi incontri; probabilmente nulla li aveva uniti, negli ultimi mesi di quel rapporto che viveva solo nei loro ricordi.
Era troppo stanca per versare altre lacrime, si rese conto con gli occhi terribilmente asciutti. Desiderava solo richiudere quelle lettere nella scatola e dimenticarle, insieme alla nostalgia e al dolore ridestati dopo più di un decennio. Sarebbe potuto andare tutto diversamente, se solo avessero avuto entrambi più coraggio, ma si erano lasciati semplicemente trasportare dagli eventi: lei con leggerezza e ingenuità, seguendo il filo di riflessioni inutili e insensate, lui con un’infinita stanchezza nello sguardo.
Si passò pesantemente le mani sugli occhi, sempre spaventosamente secchi, aridi. Ripromettendosi di non cedere mai più ad un desiderio tanto sciocco, richiuse la scatola in cui c’erano tutte le loro lettere tranne una. Era stata solo una perdita di tempo. La luce che filtrava dalle tende di lino era già quella rossastra del tramonto: suo marito stava per rientrare e lei non aveva ancora preparato la cena.


 
 
Aveva riletto per l’ennesima volta quelle parole, prima di ripiegare con cura la lettera e riporla in un cassetto, lontana da tutte le altre. Il dolore lacerante che inizialmente l’aveva colta era in poco tempo sfumato nella fastidiosa sensazione che qualcosa non andasse, che vi fosse una qualche mancanza; dopo meno di due giorni aveva già imparato ad ignorare il peso che sentiva sullo stomaco, con la consumata abitudine di chi da tempo non presta attenzione a nulla. Non era più una ragazzina, si costrinse a ricordare: aveva smesso da tempo di illudersi, quella lettera era stata semplicemente la conferma definitiva di ciò che aveva capito anni prima, in un tardo pomeriggio, con uno sguardo scuro e spento puntato su di sé.
Si era alzata per andare a cucinare, gettando un ultimo sguardo al cassetto in cui aveva riposto il foglio, mentre ancora le risuonavano in mente le ultime parole.
 
«Spero potrai perdonarmi, Lisa.
Andrea»
 
Era stata la loro ultima lettera.




Le frasi in corsivo nella prima parte appartengono al libro Farenheit 451, di Ray Bradbury.
   
 
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