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L’adesso
«Sono in ritardo, sono in ritardo!»
Sora schizzava da una
parte all’altra della stanza, in divisa e calzini, una fetta di pane
imburrato in bocca e le braccia che lottavano per disincastrarsi dalla giacca.
S’infilò le scarpe senza fermarsi, saltellando su un piede solo,
ora il destro ora il sinistro; ingoiò il boccone e per poco non si
strozzò; sbottonò l’uniforme e infilò i bottoni
nelle asole giuste. Il tutto alla velocità della luce.
Roxas lo osservava dalla sua
sedia accanto alla scrivania, trattenendo a stento le risate. Negli ultimi
tempi gli succedeva spesso. Era bello dormire sonni senza incubi, svegliarsi di
buon umore e assistere al quotidiano déjà-vu di Sora che
rischiava di rompersi l’osso del collo nelle sue corse prescolastiche.
Era bello soprattutto
– quando suo fratello aveva lasciato il condominio – aprire la
finestra e lasciar entrare nell’appartamento le speranze che per tanto
tempo si era negato.
Vedendolo finalmente
vestito del tutto e nel modo giusto, gli si avvicinò e gli tese la
cartella. «Ecco a te. Sbrigati, se non vuoi far infuriare Kairi.»
Sora lo guardò,
grato come se gli avesse appena offerto un biglietto per un concerto della band
di Yuna. Afferrò la cartella al volo.
«Grazie! A
stasera!»
In un lampo era
già sparito dall’appartamento.
Roxas ascoltò
l’eco sempre più lontano delle sue scarpe da tennis sulle scale.
Si sentiva un po’ in colpa per non avergli mai parlato di ciò che
faceva ogni mattina, invece di seguire le lezioni del professor Ansem – che aveva chiesto di spostare al primo
pomeriggio.
Erano gli inizi di
maggio; e ormai andava avanti con quel piccolo grande segreto da più di
dieci giorni. E non sapeva nemmeno spiegare a se stesso il motivo per cui
l’unica persona che volesse coinvolgere fosse Axel.
Aspettò ancora
qualche minuto prima di aprire le persiane.
Come sempre, la finestra
del 2B era già aperta. Axel era seduto sul
davanzale. Lo guardò con un sorriso sornione.
«Il gatto è
uscito?»
Roxas ricambiò. Era
lieto che Axel avesse rispettato la sua scelta,
evitando di svelare quella cosa a Sora e a chiunque altro. Più di tutto,
però, era felice di vederlo così tranquillo e a suo agio, pur
sapendo di essere tenuto al guinzaglio dalla polizia.
«Sì, e i
topi ballano.»
Axel saltò sul pianerottolo
e lo raggiunse alla finestra.
«Dio, con tutto
questo mistero mi sembra di vivere in un dramma teatrale. Guarda, non ci manca
nemmeno il balcone.» Appoggiò le mani al davanzale e iniziò
a declamare con voce sottile e disperata. «Oh, Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo?»
Roxas scoppiò a
ridere.
«Vieni dentro,
Giulietta» disse, ritraendosi e chinandosi per slacciarsi le stringhe.
«Romeo ha bisogno di te per fare una cosa.»
Axel scavalcò il
davanzale scoccandogli un’occhiata scaltra. «Sei un pervertito,
Romeo.»
Roxas si sentì
avvampare. Gli lanciò addosso la scarpa che si era appena sfilato.
«Fottiti, Axel.»
Lui si scansò
ridacchiando.
* * *
La ricreazione stava per finire. Sora si
lasciò cadere nell’erba del cortile a riprendere fiato, mentre Riku e Tidus continuavano la
corsa dietro la lattina vuota che faceva da palla in quella partita
improvvisata. Per quella mattina, lui aveva già corso abbastanza.
Con la coda
dell’occhio vide una macchia di rosso e d’azzurro muoversi nella
sua direzione. Si voltò e riconobbe la figura di Kairi
che, allontanandosi da Selphie e dal gruppetto di
ragazze, andava a raggiungerlo al bordo del campo.
L’amica gli
sorrise mentre s’inginocchiava al suo fianco. «Come stai?»
Sora allargò
appena le braccia. «Seduto!»
Kairi rise, scuotendo la
testa. Il ragazzo si costrinse a non incantarsi nel movimento ipnotico dei suoi
capelli rossi.
«Intendevo come
vanno le cose.»
Sora tornò a
seguire il gioco, riportando le dita tra l’erba.
«Bene. Mi suona
ancora assurdo pensarlo, eppure sono convinto che tutta questa storia abbia
fatto bene a Roxas. È sereno, sorride sempre.
È tornato come prima. Sai... Prima di due anni fa.» Scosse le
spalle, con un sorrisetto. «Dovrò fare un monumento ad Axel, quando i suoi problemi con la legge saranno finiti.»
Circa una settimana
prima, il suo dirimpettaio lo aveva incrociato sulle scale del condominio,
forse non per caso. Lo aveva bloccato e gli aveva raccontato una storia che
Sora ancora faticava a credere. Eppure, lui non aveva avuto nessuna paura. Gli
aveva sorriso come al solito: Axel avrebbe anche
potuto essere il più pericoloso criminale del pianeta, ma per lui
sarebbe sempre stato soltanto colui che aveva – consapevolmente o no
– convinto Roxas a ricominciare a lottare.
«Insomma, è
come rinato. Magari l’anno prossimo potrebbe persino tornare a scuola. Le
strutture ci sono, e lui, beh, mi sembra pronto.»
«Ma...?»
Sora sorrise, colpevole.
Eccolo là, l’intuito femminile, la sensibilità, o come
altro si chiamava.
«Ma...»
Sospirò. «Ma lo ammetto, a volte vorrei tanto che non fosse
capitato a noi. Credo sia normale... Sarebbe tutto così facile, se quel
dannato incidente non ci fosse mai stato. Se Roxas
fosse ancora il campione degli Hawk Runners. Se avessimo ancora una famiglia vera, se vivessimo
a casa nostra, e se il mio unico pensiero fosse quello di trovare il coraggio
di invitarti a uscire...»
Al suo fianco, Kairi si voltò in fretta a guardarlo.
Ancora concentrato sulla
partita, Sora non vide la sua espressione, ma si bloccò
all’istante, imbarazzatissimo.
Come cavolo aveva fatto a lasciarsi sfuggire
una cosa del genere?!
Rimase lì
attonito, senza scuotersi né al suono della campanella, né alla
vista dei compagni che tornavano in classe. L’unica cosa di cui era ben
conscio era il respiro irregolare di Kairi, unito al
caldo insopportabile che si sentiva in volto.
Alla fine, lei si
schiarì la voce e si alzò. «Dobbiamo andare... Xenahort interroga.»
Sora prese un respiro
profondo. Si alzò, guardando fisso le proprie scarpe.
«Va bene
venerdì sera?»
Sollevò lo
sguardo in preda alla confusione. Kairi era
arrossita, ma sorrideva euforica.
Quando capì il
senso della sua domanda, Sora la fissò sorpreso, incapace di
risponderle. Ma lei non gli diede neppure il tempo di cercare le parole; senza aggiungere
nulla corse via nel cortile.
Passò qualche
istante prima che lui si riscuotesse e si muovesse per seguirla, sorridendo ai
suoi capelli al vento.
* * *
Axel era inginocchiato
accanto al letto e ai piedi di Roxas. Si sarebbe
quasi detta una prosecuzione della piccola schermaglia shakespeariana di poco
prima; ma in realtà l’attività che stavano svolgendo non
offriva proprio nulla di cui scherzare.
Oltre al suo calore, il
dottor Leonhart aveva lasciato a Roxas
anche una serie di consigli, che andavano ora tradotti nell’aiuto
concreto di Axel.
In fondo non ci voleva
una laurea in medicina. Era solo il ripetersi di un movimento regolare: alto,
basso, alto, basso... E gli faceva piacere che Roxas
lo avesse chiesto a lui, certo.
Però, passare tutto quel tempo solo con lui in
quella cameretta stava cominciando a fargli venire in mente degli strani e
confusi ricordi.
Il ragazzino che sorrideva e chiudeva gli occhi e lui che si
chinava sulla sua fronte e poi sulla sua b...
«Che ti
prende?»
Axel scosse la testa con
vigore. Era certo che il turbamento gli si leggesse negli occhi, e si
affrettò ad abbassarli ancora di più.
«Niente.»
Roxas sembrò decidere
di non insistere.
Riprese a sollevargli
alternativamente le gambe inerti, senza sforzo. Su e giù, su e
giù. Quei movimenti avrebbero dovuto abituare i muscoli delle sue gambe
a rimettersi in moto, o qualcosa del genere. Axel non
aveva bisogno di spiegazioni dettagliate; qualsiasi cosa potesse essere utile a
Roxas, l’avrebbe fatta anche a occhi chiusi.
In fondo, era stato lui a salvarlo da se stesso.
Dopo qualche minuto il
ragazzino parlò di nuovo.
«Posso farti una
domanda?»
«Spara.»
A testa bassa, Axel si accorse che Roxas stava
stritolando un lembo del copriletto tra le dita.
«Dov’è
la tua famiglia?»
Alzò lo sguardo
su di lui.
Il ragazzo
arrossì, ma non distolse il suo.
Rifletté per un
istante prima di rispondergli.
«Non lo so. Non
l’ho mai conosciuta.»
Roxas parve sinceramente
sorpreso. Axel proseguì imperterrito,
impersonale. Era un argomento che non l’aveva mai toccato troppo.
«Mia madre
è morta subito dopo il parto, e mio padre era già sparito da un
pezzo. Io sono finito in una sottospecie di orfanotrofio.» Chinò
il viso e riprese a muovergli le gambe, più lentamente. «Un covo
di mocciosi problematici con l’unico genere di assistenza che si riserva
ai cani... Anzi, meno. A quattordici anni ho tagliato la corda – tanto
non m’interessava di essere adottato. Ho lasciato la scuola del quartiere
in cui vivevo e mi sono dato alla macchia.» S’interruppe, raccogliendo
le idee. «Da allora, per quattro anni, ho vissuto per strada. Di avanzi.
Di piccoli furti, all’occorrenza. Sono stato anche alle dipendenze di
gente che non ti consiglierei mai di frequentare» ghignò,
fermandosi e guardando di nuovo l’amico in faccia. «E alla fine ho
incontrato Demyx.»
Roxas annuì. «E
adesso?»
Axel lo soppesò
ancora con gli occhi. Ci pensò su. «E adesso, non lo so.»
Rimasero per un attimo
immobili a guardarsi e – almeno, questo valeva per lui – a
chiedersi quando e come sarebbe cominciato quell’adesso.
Poi Roxas
tornò a concentrarsi sulla coperta, e Axel
riprese gli esercizi.
Passò ancora
qualche lungo minuto di stallo.
«Mi
dispiace.»
Alzò di nuovo la
testa.
Roxas non lo guardava.
Continuava a stringere il tessuto in una mano. Aveva un’aria tristissima.
«Non deve essere
stato facile.»
Il mondo si
fermò.
Un quindicenne su una
sedia a rotelle, che aveva perso i genitori, una passione, e per tanto tempo
anche gli amici e la voglia di vivere; che gli aveva gridato in faccia la
differenza tra loro due, che gli aveva fatto vedere una strada; che per colpa
sua aveva rischiato di morire per
mano di uno psicopatico malato d’orgoglio ferito e che, nonostante tutto,
aveva ritrovato il coraggio di andare avanti – quel quindicenne, adesso,
seduto su quel letto, lo guardava coi suoi occhi puliti e gli diceva che era
dispiaciuto per lui.
Per lui.
Si sentì
così inerme.
Axel non si chiese se
l’avesse sempre saputo o se lo stesse capendo soltanto ora; però
ora sapeva. Sapeva che quel giorno, con quel gesto, non aveva semplicemente
seguito un impulso. Che c’era un significato in ciò che aveva
fatto.
E allora lo fece di
nuovo.
Si sollevò sulle
ginocchia e portò il viso all’altezza di quello di Roxas.
Le sue labbra appena dischiuse sapevano di un mare di cose
che non aveva mai avuto e che non avrebbe mai voluto perdere.
Quando riuscì a
ritrarsi, si fermò a poca distanza da lui e lo vide sorpreso, spiazzato,
smarrito. I suoi occhi azzurri divennero due specchi d’acqua chiara sopra
l’oceano rosso fuoco delle sue guance. L’imbarazzo contagiò
anche Axel, che si maledisse mille volte.
Ma non si pentì
del proprio gesto.
Il ragazzino distolse lo
sguardo, arrossendo ancor più intensamente. Capendo che qualcosa si era
appena spezzato, e che in quel modo rischiava di rovinare tutto, Axel si alzò.
Voltò le spalle e
s’incamminò verso la finestra.
Aveva bisogno di
riflettere. Aveva bisogno di lasciarlo
riflettere...
Aveva già una
gamba oltre il davanzale quando la voce lo fermò al suo posto.
«A... Axel...»
Incerto su cosa aspettarsi,
si voltò.
Roxas era in piedi davanti al letto, la testa
bassa, concentrato sui propri calzini. Lo fissò.
E alla fine fece una
cosa che – di nuovo – fermò il mondo circostante.
Mosse un passo verso di
lui.
Axel distinse lo sforzo nella
sua espressione, e temendo di vederlo cadere si staccò subito dalla
finestra.
«Roxas, fermati, sei ancora...»
Ma gli morirono le
parole in gola.
Il ragazzo
allungò una mano e si chinò per sostenersi al piano del comodino;
riprese fiato e fece un altro passo.
Axel avrebbe voluto
fermarlo, ma si sentiva il piombo nelle scarpe.
Roxas si staccò dal
comodino, fece un passo più lungo e posò la mano sulla libreria.
«Accidenti a
te» gemette Axel. «Accidenti a te, accidenti a te.»
Lui non diede segno di
averlo sentito. Continuò a camminare,
piano, un piede alla volta, senza mai lasciarsi scoraggiare dalla fatica.
Superò lentamente la scrivania. Alla fine abbandonò ogni sostegno
e si ritrovò proprio di fronte ad Axel.
Qui si fermò,
tirò il fiato e abbassò le palpebre, esausto. Cominciò a
vacillare. L’adolescente tese le braccia e lo sostenne.
«Tu sei pazzo!» ringhiò.
«Lo so...»
Gli occhi chiusi, il respiro ansante, Roxas sorrise
stancamente e gli si aggrappò. Riaprì gli occhi. «Sono
diventato amico tuo.»
Senza parole, Axel sentì l’ira e la frustrazione sbollire in
fretta. Si rese conto in quel momento di quanto
gli fosse vicino.
Contemporaneamente,
capì anche perché Roxas avesse camminato verso di lui.
E sorrise incredulo alle
sue guance ancora rosse.
Avrebbe voluto
scostargli i capelli dagli occhi, percorrere con le dita il contorno del suo
sorriso; ma non poteva lasciarlo andare, non poteva e non ci riusciva. E allora
si limitò a baciarlo di nuovo.
Forse quell’adesso era appena cominciato.
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SORPRESA! Dai che non ve l’aspettavate.
Vi ho colti alla sprovvista, eh? xD
Beh, non mi dilungo su questo capitolo.
Anche perché sono certa di non
averlo strutturato nel migliore dei modi; mi sarebbe piaciuto metterci tanto in
più – di Axel,
soprattutto di Axel, e della sua comprensione
finalmente completa su ciò che lo lega a Roxas.
Ma è stato più complicato del previsto. Spero solo non vi deluda
;_;
Alla prossima,
Aya ~