OATH
Rinascita
Si
erano fermati, finalmente. Dopo tre ore di viaggio
e litigi, erano arrivati alla fine. La casetta di montagna si
confondeva nel
verde della foresta. La bambina corse dentro, spalancando la porta in
legno di
quercia. Si precipitò al secondo piano, dove stava la sua
camera. Il giallo
pastello dominava nella stanzetta. Giallo il letto, gialle le pareti,
giallo
l’armadio, giallo il soffitto, gialle la sedia e la
scrivania. Il giallo era
il suo colore preferito. Prese la sedia, e la
trascinò di fronte al
balcone, per sedersi mentre osservava i genitori scaricare le borse e
le due
valigie dalla macchina.
Pochi
secondi, qualche passo e forse si sarebbero
salvati. Ma la vita aveva in serbo un altro destino per loro. La
bambina
assistette impotente all’esplosione. Un rumore assordante le
riempì le
orecchie, mentre il vetro della finestra andava in frantumi, ferendole
le mani
e il viso. Un tripudio di fuoco giallo in tutte le sue sfumature
inondò l’area
intorno all’automobile, senza lasciare superstiti.
Una
tragedia senza spiegazione alcuna, dissero
dopo. La macchina era saltata in aria senza nessun motivo.
La
bambina aveva
sempre amato il
giallo. Il giallo era vita. Il
giallo era gioia. Il giallo era energia.
Ma
da allora, la ragazza odiò
quel
giallo di morte.
***
9
Gennaio 2005
L’auto
procedeva veloce, mentre la pioggia batteva
leggera sulla carrozzeria scura.
Le
dita col loro tiepido calore lasciavano tracce
sui freddi vetri bagnati, mentre si spostavano sul finestrino,
disegnando
arabeschi incomprensibili. La ragazza abbassò lo sguardo sul
proprio petto;
dove fino a poco prima c’era stata una cascata di riccioli
rossi, ora non v’era
nulla a coprirle la felpa nera.
I
capelli. Erano stati le prime vittime del suo triste furore. Aveva
preso le lunghe forbici da cucina di sua madre e aveva tagliato
malamente la
sua capigliatura cremisi riducendola ad una zazzera crespa. Con quei
morbidi
boccoli, per terra erano caduti tutti i suoi vecchi sogni, e li aveva
calpestati, nel tentativo di rimuovere dalla sua vita la sua infanzia
distrutta.
Tornò
ad osservare il paesaggio che sfuggiva al suo
passaggio. Guardava i luoghi scorrere, e con essi i suoi
pensieri.
Stava
per andarsene. Nello stesso squallidissimo
orfanotrofio dove si trovava già suo cugino. Dicevano fosse
un istituto per
persone speciali, ma aveva capito che si trattava
di pazzi, pazzi che
dovevano essere allontanati dalla comunità. Ma lei non era
matta. Solo, aveva
smesso di parlare, chiusa in un triste mutismo, e aveva aggredito un
altro
bambino.
Nella
stessa stanza, con lei c’era un altro bimbo. Lui si era
ferito
cadendo dalle scale, finendo nella porta finestra. I suoi genitori gli
stavano
vicini, sussurrandogli parole d’incoraggiamento piene
d’amore. Per lei non
c’era nessuno: non suo padre e sua madre, che erano preda del
sonno eterno; non
sua nonna, che stava troppo male anche solo per alzarsi dal letto; non
i suoi
zii, misteriosamente scomparsi; non suo cugino, chiuso in quel buco di
orfanotrofio a marcire da cinque anni ormai;non la sua migliore amica,
che
l’aveva abbandonata. Quando i due adulti si furono
allontanati, la ragazza si
era alzata, e, con le mani che sanguinavano attraverso le fasciature,
aveva
premuto la gola dell’altro. Sapeva di non doverlo fare, era
intelligente,
dopotutto, ma non riusciva a fermarsi. Fu l’infermiera a
strapparla via e
chiuderla in una stanza, da sola, senza nessuno da soffocare, solo lei
e i suoi
fantasmi.
Eppure,
lei non era preoccupata. Non le interessava
più niente. I suoi genitori erano morti, e non era
riuscita ad impedirlo.
Aveva fallito. Aveva solo nove anni, ma la sua vita era finita, la sua
anima
era cenere e il cuore era in pezzi. Lo sentiva in modo chiaro, mentre
la morte
prendeva piano possesso della sua mente.
***
L’auto
si fermò bruscamente. Aprì gli occhi. Senza
accorgersene si era addormentata sul sedile. Si sfregò le
palpebre, e la mano
destra sfiorò i punti sulla guancia. Li avrebbe tolti dopo
tre settimane, ma
non sarebbe mai tornata come prima. Le vennero le lacrime agli occhi.
Era
sempre stata l’orgoglio della madre grazie a quella sua
bellezza ricercata, e
ora non le restava nemmeno quella. Non era brava a scuola, le lezioni
l’annoiavano. Si dilettava con i programmi più
avanzati, senza prestare alcuna
attenzione a quello che gli insegnanti spiegavano. Non le piaceva
frequentare
persone con le quali non fosse strettamente legata; osservava, invece,
i
comportamenti degli altri, indovinandone spesso il carattere e il
passato.
Amava analizzare i dettagli per avere una visione perfetta degli
individui che
la circondavano, prevedendone le mosse e intuendone i pensieri.
Si
ricompose, mettendosi dritta. Guardò fuori dal
finestrino. Sentiva le voci urlanti ed eccitate di tanti bambini, che
giocavano
nel cortile. Un uomo le venne ad aprire la portiera, per farla
scendere, ma lei
non voleva. Non disse niente, però strinse le dita pallide
sul tessuto di pelle
dei sedili, intenzionata a non lasciare la presa. Con uno strattone,
l’uomo la
tirò fuori, e si rimise in macchina, abbandonandola di
fronte al palazzo,
notevolmente più accogliente di quel che aveva immaginato.
Forse non volevano rinchiuderla
in manicomio. Dietro di lei un cancello nero come gli abissi si schiuse
con un
rumore metallico.
Mosse
qualche passo in direzione della porta, ma si
bloccò a pochi centimetri dal citofono. Stava per dire
definitivamente addio
alla sua vita, secondo la sua concezione; come se i suoi genitori non
fossero
morti, e che scappando via da lì potesse riaverli con
sé.
Premette
il dito sul bottone dorato, e la porta si
dischiuse. Di fronte a lei un enorme corridoio deserto, pieno
di porte.
In fondo, un ingresso con la targhetta “Direttore”
impressa sopra le indicava
quale varcare.
Camminò
piano, ancora incerta. Arrivata alla
soglia, prima di bussare si curò di studiare tutti i minimi
dettagli.
Osservando meglio, sulla targhetta era scritto anche, benché
più in piccolo,
“Roger Ruvie”.
Era
una portafinestra, il cui vetro era zigrinato
in verde. Il direttore doveva essere una persona molto amante della
natura,
poco incline ad aver relazioni sociali. Il legno d’ebano
contrastava con la
lastra. Una personalità conflittuale, dunque. Dopo aver
carpito queste
informazioni, entrò.
La
stanza era come aveva immaginato: spaziosa, con
due grandi finestre, che richiamava i toni delle paludi. Nella libreria
di
fianco allo scrittoio v’erano molti libri illustrati sugli
insetti. La ragazza
vi aveva visto giusto.
Alla
scrivania era seduto un uomo sulla sessantina,
dai capelli completamente bianchi, vagamente stempiato e dalle
sopracciglia
imponenti. Aveva un naso piuttosto grosso, su cui poggiavano degli
occhialetti
sottili con le lenti tonde.
La
ragazza rimase ferma sulla soglia, benché quel che
supponeva fosse Roger la invitasse a sedersi.
Solo
dopo svariate insistenze di lui, si avvicinò
alla scrivania e si accomodò sulla sedia.
«“Ophelia”
è il tuo nome, vero? Non voglio sapere
il tuo cognome, non dirmelo, è meglio per
entrambi.» Le chiese Roger abbassando
gli occhi su un plico di fogli riguardanti la ragazza, che si
limitò ad
annuire.
«Qui
hai un cugino, Walter, qui chiamalo Wrong, di
due anni più grande di te. E’ il figlio del
fratello di tua madre, e non vi
vedete da cinque anni. I suoi genitori sono scomparsi in circostanze
misteriose. I tuoi parenti si sono rifiutati di prenderlo in cura a
causa del
pessimo carattere del ragazzo, benché voi due siate sempre
andati d’accordo.
Giusto?» Il direttore dell’orfanotrofio la guardava
al di sopra delle lenti,
quasi sfidandola a dire il contrario.
Ophelia
annuì ancora una volta, osservando le
proprie mani che stringeva a pugno.
«Qui
si dice che non eri brava a scuola. Ma
sappiamo che in realtà tu ti annoiavi. Il programma era
troppo indietro per le
tue capacità. Sei una grande osservatrice,
Ophelia.» La ragazza alzò
improvvisamente il viso, per cercare di capire come facessero a sapere
quelle
cose di lei: non le aveva mai rivelate a nessuno. «Dimmi, che
cosa hai intuito
di me venendo qui?»
«…
I-io» Si bloccò. Non parlava da un mese, e le
sue corde vocali erano come bloccate. La sua voce era metallica,
irriconoscibile, però si sforzò di continuare.
«Credo … che lei non ami le
altre persone. Che non le piaccia quello che fa, ma che lo faccia
comunque solo
perché è suo dovere. Forse una promessa fatta a
qualcuno, o un forte legame,
tanto raro per lei da volerlo custodire gelosamente fino alla fine.
Poi, lei
ama la natura, in particolare gli insetti, come si può
dedurre chiaramente dai
libri illustrati come questi che ha nella libreria e persino sulla
scrivania.»E
indicò un paio di volumi poggiati sullo scrittoio.
Roger
la scrutò ancora per un attimo, accigliato e
vagamente sorpreso, ma poi distese la fronte e parlò
nuovamente. «Mi fa piacere
che i miei sospetti fossero giusti. Ophelia, sei è
ufficialmente ammessa alla
Wammy’s House. Ti presenteremo il tuo insegnante domani. Per
ora puoi andare.
Inizia a conoscere i tuoi compagni.» Ophelia fece per alzarsi.
«Oh,
un’ultima cosa. Non devi mai rivelare il tuo
nome a nessuno. Nessuno, chiaro? Trova un soprannome e usa sempre e
soltanto
quello, dimenticati il resto.»
«Oath.»
Era un vaghissimo sussurro, quello di
Ophelia.
«Prego?»
Roger la guardò incuriosito.
«Oath.»
La ragazza parlò convinta. « Oath come
blasfemia. Ma Oath anche come giuramento, quello per cui
troverò le cause della
morte dei miei genitori. Io sono Oath.»
Si
sollevò, diretta verso la porta. La sua vita da
Ophelia era finita. Ma in quel momento nasceva Oath.