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Autore: Ef and Lil    29/06/2011    3 recensioni
Due ragazze dal destino intrecciato, Oath e Kage. Oath, orfana alla Wammy's dal 2005. Kage, sedicenne giapponese a cui hanno tolto l'amore della sua vita. La vendetta di entrambe. La sfida per il Death Note continua.
Ma era già troppo tardi.
Ecco perché doveva provarci – non costava niente, in fin dei conti.
Ecco perché doveva scrivere quelle parole.
Aprì il quaderno.
Death Note
How to use it
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Altri personaggi, Near, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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OATH

 

Rinascita

Si erano fermati, finalmente. Dopo tre ore di viaggio e litigi, erano arrivati alla fine. La casetta di montagna si confondeva nel verde della foresta. La bambina corse dentro, spalancando la porta in legno di quercia. Si precipitò al secondo piano, dove stava la sua camera. Il giallo pastello dominava nella stanzetta. Giallo il letto, gialle le pareti, giallo l’armadio, giallo il soffitto, gialle la sedia e la scrivania. Il giallo era il suo colore preferito. Prese la sedia, e la trascinò di fronte al balcone, per sedersi mentre osservava i genitori scaricare le borse e le due valigie dalla macchina.

Pochi secondi, qualche passo e forse si sarebbero salvati. Ma la vita aveva in serbo un altro destino per loro. La bambina assistette impotente all’esplosione. Un rumore assordante le riempì le orecchie, mentre il vetro della finestra andava in frantumi, ferendole le mani e il viso. Un tripudio di fuoco giallo in tutte le sue sfumature inondò l’area intorno all’automobile, senza lasciare superstiti.

Una tragedia senza spiegazione alcuna, dissero dopo. La macchina era saltata in aria senza nessun motivo.

La bambina aveva sempre amato il giallo. Il giallo era vita. Il giallo era gioia. Il giallo era energia.

Ma da allora, la ragazza odiò quel giallo di morte.

***

9 Gennaio 2005

L’auto procedeva veloce, mentre la pioggia batteva leggera sulla carrozzeria scura.

Le dita col loro tiepido calore lasciavano tracce sui freddi vetri bagnati, mentre si spostavano sul finestrino, disegnando arabeschi incomprensibili. La ragazza abbassò lo sguardo sul proprio petto; dove fino a poco prima c’era stata una cascata di riccioli rossi, ora non v’era nulla a coprirle la felpa nera.

I capelli. Erano stati le prime vittime del suo triste furore. Aveva preso le lunghe forbici da cucina di sua madre e aveva tagliato malamente la sua capigliatura cremisi riducendola ad una zazzera crespa. Con quei morbidi boccoli, per terra erano caduti tutti i suoi vecchi sogni, e li aveva calpestati, nel tentativo di rimuovere dalla sua vita la sua infanzia distrutta.

Tornò ad osservare il paesaggio che sfuggiva al suo passaggio.  Guardava i luoghi scorrere, e con essi i suoi pensieri.

Stava per andarsene. Nello stesso squallidissimo orfanotrofio dove si trovava già suo cugino. Dicevano fosse un istituto per persone speciali, ma aveva capito che si trattava di pazzi, pazzi che dovevano essere allontanati dalla comunità. Ma lei non era matta. Solo, aveva smesso di parlare, chiusa in un triste mutismo, e aveva aggredito un altro bambino.

Nella stessa stanza, con lei c’era un altro bimbo. Lui si era ferito cadendo dalle scale, finendo nella porta finestra. I suoi genitori gli stavano vicini, sussurrandogli parole d’incoraggiamento piene d’amore. Per lei non c’era nessuno: non suo padre e sua madre, che erano preda del sonno eterno; non sua nonna, che stava troppo male anche solo per alzarsi dal letto; non i suoi zii, misteriosamente scomparsi; non suo cugino, chiuso in quel buco di orfanotrofio a marcire da cinque anni ormai;non la sua migliore amica, che l’aveva abbandonata. Quando i due adulti si furono allontanati, la ragazza si era alzata, e, con le mani che sanguinavano attraverso le fasciature, aveva premuto la gola dell’altro. Sapeva di non doverlo fare, era intelligente, dopotutto, ma non riusciva a fermarsi. Fu l’infermiera a strapparla via e chiuderla in una stanza, da sola, senza nessuno da soffocare, solo lei e i suoi fantasmi.

Eppure, lei non era preoccupata. Non le interessava più niente.  I suoi genitori erano morti, e non era riuscita ad impedirlo. Aveva fallito. Aveva solo nove anni, ma la sua vita era finita, la sua anima era cenere e il cuore era in pezzi. Lo sentiva in modo chiaro, mentre la morte prendeva piano possesso della sua mente.

***

L’auto si fermò bruscamente. Aprì gli occhi. Senza accorgersene si era addormentata sul sedile. Si sfregò le palpebre, e la mano destra sfiorò i punti sulla guancia. Li avrebbe tolti dopo tre settimane, ma non sarebbe mai tornata come prima. Le vennero le lacrime agli occhi. Era sempre stata l’orgoglio della madre grazie a quella sua bellezza ricercata, e ora non le restava nemmeno quella. Non era brava a scuola, le lezioni l’annoiavano. Si dilettava con i programmi più avanzati, senza prestare alcuna attenzione a quello che gli insegnanti spiegavano. Non le piaceva frequentare persone con le quali non fosse strettamente legata; osservava, invece, i comportamenti degli altri, indovinandone spesso il carattere e il passato. Amava analizzare i dettagli per avere una visione perfetta degli individui che la circondavano, prevedendone le mosse e intuendone i pensieri.

Si ricompose, mettendosi dritta. Guardò fuori dal finestrino. Sentiva le voci urlanti ed eccitate di tanti bambini, che giocavano nel cortile. Un uomo le venne ad aprire la portiera, per farla scendere, ma lei non voleva. Non disse niente, però strinse le dita pallide sul tessuto di pelle dei sedili, intenzionata a non lasciare la presa. Con uno strattone, l’uomo la tirò fuori, e si rimise in macchina, abbandonandola di fronte al palazzo, notevolmente più accogliente di quel che aveva immaginato. Forse non volevano rinchiuderla in manicomio. Dietro di lei un cancello nero come gli abissi si schiuse con un rumore metallico.

Mosse qualche passo in direzione della porta, ma si bloccò a pochi centimetri dal citofono. Stava per dire definitivamente addio alla sua vita, secondo la sua concezione; come se i suoi genitori non fossero morti, e che scappando via da lì potesse riaverli con sé.

Premette il dito sul bottone dorato, e la porta si dischiuse.  Di fronte a lei un enorme corridoio deserto, pieno di porte. In fondo, un ingresso con la targhetta “Direttore” impressa sopra le indicava quale varcare.

Camminò piano, ancora incerta. Arrivata alla soglia, prima di bussare si curò di studiare tutti i minimi dettagli. Osservando meglio, sulla targhetta era scritto anche, benché più in piccolo, “Roger Ruvie”.

Era una portafinestra, il cui vetro era zigrinato in verde. Il direttore doveva essere una persona molto amante della natura, poco incline ad aver relazioni sociali. Il legno d’ebano contrastava con la lastra. Una personalità conflittuale, dunque. Dopo aver carpito queste informazioni, entrò.

La stanza era come aveva immaginato: spaziosa, con due grandi finestre, che richiamava i toni delle paludi. Nella libreria di fianco allo scrittoio v’erano molti libri illustrati sugli insetti. La ragazza vi aveva visto giusto.

Alla scrivania era seduto un uomo sulla sessantina, dai capelli completamente bianchi, vagamente stempiato e dalle sopracciglia imponenti. Aveva un naso piuttosto grosso, su cui poggiavano degli occhialetti sottili con le lenti tonde.

La ragazza rimase ferma sulla soglia, benché quel che supponeva fosse Roger la invitasse a sedersi.

Solo dopo svariate insistenze di lui, si avvicinò alla scrivania e si accomodò sulla sedia.

«“Ophelia” è il tuo nome, vero? Non voglio sapere il tuo cognome, non dirmelo, è meglio per entrambi.» Le chiese Roger abbassando gli occhi su un plico di fogli riguardanti la ragazza, che si limitò ad annuire.

«Qui hai un cugino, Walter, qui chiamalo Wrong, di due anni più grande di te. E’ il figlio del fratello di tua madre, e non vi vedete da cinque anni. I suoi genitori sono scomparsi in circostanze misteriose. I tuoi parenti si sono rifiutati di prenderlo in cura a causa del pessimo carattere del ragazzo, benché voi due siate sempre andati d’accordo. Giusto?» Il direttore dell’orfanotrofio la guardava al di sopra delle lenti, quasi sfidandola a dire il contrario.

Ophelia annuì ancora una volta, osservando le proprie mani che stringeva a pugno.

«Qui si dice che non eri brava a scuola. Ma sappiamo che in realtà tu ti annoiavi. Il programma era troppo indietro per le tue capacità. Sei una grande osservatrice, Ophelia.» La ragazza alzò improvvisamente il viso, per cercare di capire come facessero a sapere quelle cose di lei: non le aveva mai rivelate a nessuno. «Dimmi, che cosa hai intuito di me venendo qui?»

«… I-io» Si bloccò. Non parlava da un mese, e le sue corde vocali erano come bloccate. La sua voce era metallica, irriconoscibile, però si sforzò di continuare. «Credo … che lei non ami le altre persone. Che non le piaccia quello che fa, ma che lo faccia comunque solo perché è suo dovere. Forse una promessa fatta a qualcuno, o un forte legame, tanto raro per lei da volerlo custodire gelosamente fino alla fine. Poi, lei ama la natura, in particolare gli insetti, come si può dedurre chiaramente dai libri illustrati come questi che ha nella libreria e persino sulla scrivania.»E indicò un paio di volumi poggiati sullo scrittoio.

Roger la scrutò ancora per un attimo, accigliato e vagamente sorpreso, ma poi distese la fronte e parlò nuovamente. «Mi fa piacere che i miei sospetti fossero giusti. Ophelia, sei è ufficialmente ammessa alla Wammy’s House. Ti presenteremo il tuo insegnante domani. Per ora puoi andare. Inizia a conoscere i tuoi compagni.» Ophelia fece per alzarsi.

«Oh, un’ultima cosa. Non devi mai rivelare il tuo nome a nessuno. Nessuno, chiaro? Trova un soprannome e usa sempre e soltanto quello, dimenticati il resto.»

«Oath.» Era un vaghissimo sussurro, quello di Ophelia.

«Prego?» Roger la guardò incuriosito.

«Oath.» La ragazza parlò convinta. « Oath come blasfemia. Ma Oath anche come giuramento, quello per cui troverò le cause della morte dei miei genitori. Io sono Oath.»

Si sollevò, diretta verso la porta. La sua vita da Ophelia era finita. Ma in quel momento nasceva Oath.

 

  
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