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Iguro si svegliò di soprassalto,
letteralmente affogato da un getto d’acqua fredda come se si fosse addormentato
sotto una cascata.
Era così intontito
e disorientato che, nonostante la doccia gelata, impiegò parecchi secondi a
discernere sogno da realtà, mondo reale da allucinazioni.
Quello che aveva
appena visto non aveva per lui alcun senso, e anche se aveva avuto
l’impressione di assistere a quella specie di vivido sogno come ad una
rappresentazione teatrale, seduto tra il pubblico, tutto gli appariva fuorché
come una cosa chiara.
Ancora sconvolto,
cercò di capire cosa fosse successo.
L’ultima cosa che
ricordava era quell’odore d’incenso, e quella sensazione di impotenza.
Nei pochi secondi
di raziocinio che riuscì a conquistare, si guardò attorno.
Doveva trovarsi in
qualche capanna, poco più di una catapecchia a giudicare dallo stato dei muri e
del soffitto e dai buchi nella carta delle porte e delle finestre. Il tatami
era in uno stato pietoso, tutto sgualcito e secco, e puzzava da morire, come se
ci avesse dormito una mandria di mucche, inoltre si vedevano segni evidenti del
passaggio di topi e scarafaggi.
Persino il futon
dove stava dormendo, ora fradicio come lui, rassomigliava più ad una coperta da
cavallo, sporca e ruvida.
Dai buchi nella
carta entravano raggi di un sole mattutino, uno dei quali gli arrivava dritto
in faccia; con la mano cercò di farsi ombra, quel tanto che bastava per riuscire
a riprendersi del tutto da quella specie di sbronza che rassomigliava
incredibilmente all’unica ubriacatura della sua vita, durante la festa del
raccolto dell’anno scorso.
Rapidamente le
immagini si fecero più nitide, e quando poté dire di aver recuperato quasi
completamente il controllo di sé vide la figura di Magoichi
che lo sovrastava; aveva in mano un secchio vuoto, e gli sorrideva beffardo.
«In piedi,
signorino. È l’ora dell’allenamento.» e gli tolse le coperte di dosso
«Ma che…» disse Iguro, finalmente sveglio al cento per cento
«Dove sono i miei vestiti?»
«Parli di quegli
stracci puzzolenti? Bruciati.
Erano incrostati di
fango e sangue. Là ci sono dei vestiti di ricambio. C’è anche un tojiki all’umeboshi*. Fattelo bastare,
perché non mangerai altro fino a domani.»
«Ma dove siamo?»
domandò il ragazzo guardandosi attorno
«Mi sembra ovvio.
Nella tua nuova casa.»
«Casa!? Persino una
stalla sarebbe meglio?»
«Hai voluto entrare
nell’ordine? Allora adeguati. Da questo momento sei un novizio come tutti gli
altri, il che significa che comincerai dalla base della torre. Qui vige la
regola del do ut des.»
«Del cosa?»
«Del dare per
ricevere. Mostrati degno di restare qui, e vivrai in condizioni più dignitose.
Deludi me o qualcun altro dei tuoi maestri, o vieni meno ai tuoi doveri, e
finirai a litigarti la cena con i cani».
Iguro era senza
parole.
La persona che
stava davanti a lui non somigliava neanche lontanamente al Magoichi
Saika che aveva conosciuto; persino i suoi occhi, di
solito così vispi e ironici, sembravano diversi, pieni di fredda determinazione
e severo giudizio.
«Ti do due minuti, per
mangiare e renderti presentabile, poi voglio trovarti nella piazza del
villaggio pronto a cominciare».
Rimasto solo, Iguro
sentì come se il mondo gli fosse improvvisamente crollato addosso una seconda
volta.
Era arrivato ad Hakuba nella speranza di trovare un luogo ospitale, dove
sentirsi al sicuro, ma ora, nonostante l’iniziale impressione che si era fatto,
sembrava proprio che quel posto di ospitale non avesse nulla.
Alzatosi, trangugiò
quasi d’un fiato la palla di riso e indossò quelli che sarebbero stati i suoi
nuovi vestiti, una sorta di kimono ed un hakama** entrambi di colore scuro,
quindi uscì all’esterno.
Hakuba, illuminata dalla luce
del primo mattino, e avvolta da una sottile nebbia di montagna, sembrava ora
molto diversa da come Iguro l’aveva veduta la prima volta; ora rassomigliava
davvero ad una città fantasma, ad uno di quei villaggi di shinobi
pieni di tagliagole dai poteri sovrannaturali, con le sue case che emergevano
pallidamente dalla bruma come un esercito di fantasmi, arroccate lungo le
sponde del lago e le pendici della montagna.
La casa di Iguro,
se di casa si poteva parlare, sorgeva molto defilata da tutte le altre, quasi
al limitare della palizzata di legno, non lontano dal portone nord.
Il ragazzo arrivò
nella piazza che la nebbia si era già in parte diradata. Magoichi
lo aspettava ai piedi della scalinata che portava alla villa, ma la sua
espressione, nonostante quel sorrisetto enigmatico, sembrava alquanto
contrariata.
«Venti secondi di
ritardo.» disse ordinando a Iguro di mettersi sull’attenti «Per stavolta passi,
ma da domani un ritardo simile ti costerà metà della tua razione di cibo».
Iguro era ancora un
po’ frastornato per il brusco risveglio, e il sole negli occhi certamente non
aiutava; per un attimo ebbe un mancamento, barcollando leggermente, ma con un
urlaccio degno di un padrone che richiama il proprio servo Magoichi
lo costrinse a riprendere il controllo.
«D’ora in poi,
arriverai qui tutte le mattine alla stessa ora, pronto ad iniziare
l’allenamento. Eventuali ritardi non saranno più tollerati. Ogni mancanza sarà
punita severamente, in base alla gravità della stessa.
Spero di essermi
spiegato».
In quella, altri
tre guerrieri raggiunsero il piazzale camminando in fila indiana, come in una
marcia; silenziosi, senza produrre altro rumore che quello dei loro passi,
entrarono nell’arena, posizionandosi al centro, e rivolgendo i loro sguardi
verso i due monaci zen che sembravano aspettare il loro arrivo assieme a Keiji.
Abbassatisi il
cappuccio, piegarono la testa in avanti; il monaco superiore li cosparse di una
strana sostanza polverosa raccolta da un’urna dal colore biancastro, quindi il
suo attendente agitò davanti a loro un aspersorio di acqua mistica. A quel
punto fu il turno di Keiji, che sfoderato un pugnale
incise la nuca sopra l’orecchio sinistro ad ognuno di loro; quello, avrebbe
scoperto Iguro molto più avanti, era il segno distintivo degli Assassini del
Paese, il marchio segreto attraverso il quale era possibile riconoscersi pur
restando nel più assoluto anonimato.
«Gli uomini che
vedi, sono diventati degli Assassini.» disse Magoichi
vedendo che Iguro non riusciva a fare a meno di guardarli «Al momento, tu non
sei degno neanche di baciargli le scarpe. E ora girati!».
Il ragazzo,
spaventato da un tono tanto cattivo, obbedì, e a quel punto Magoichi
prese a girargli attorno, come un lupo con un cerbiatto pronto ad essere
sbranato.
«Prima di
cominciare, è meglio che tu sappia questo.
Da quando mi è
stata affidata la guida di questo posto, di media addestriamo dieci aspiranti
Assassini all’anno. Alcuni vengono da noi spontaneamente, dopo aver sentito
parlare del nostro operato o aver saputo in qualche modo della nostra
esistenza. Altri li recuperiamo noi stessi, grazie ai nostri informatori e
procacciatori di nuovi talenti. Altri ancora ci vengono raccomandati e spediti
da potenti e signori che ci conoscono e ci sostengono, perché nemici dei
Templari tanto quanto noi.
E tu lo sai, di
questi dieci, quanti di media riescono davvero a entrare nella confraternita?
Due.
Dei restanti otto,
quattro si arrendono e finiscono per rinunciare, tre sono costretti a ritirarsi
per gravi ferite o infortuni invalidanti. E uno…»
quindi si fermò, e disse sarcastico «Uno mediamente ci lascia la pelle».
Iguro di colpo
sentì il latte alle ginocchia, e lo colse un’invisibile tremarella; in quale
specie di inferno si era andato a cacciare?
«Ora, stammi bene a
sentire. Il tuo addestramento si svolgerà in due fasi. La prima durerà diciotto
mesi, durante i quali sarai affidato alle “cure” mie e di Keiji.
Ti allenerai contemporaneamente nell’agilità e nel combattimento, cosicché tu
possa imparare a combinare queste due abilità di modo che ognuna delle due
tragga vantaggio dall’altra.
Se, e ripeto se,
arriverai alla fine di questi diciotto mesi, allora inizierai la fase finale.
Ti verrà assegnato un terzo maestro, da cui apprenderai le più efficaci e
raffinate tecniche di omicidio. Nel corso degli anni, il nostro ordine è
riuscito a creare uno stile di lotta e di assassinio diverso da quello dei tuoi
antenati, che unisce la forza bruta della tecnica importata dall’occidente con
la furtività e l’eleganza propria degli shinobi.
Padroneggiarlo non
è cosa da tutti, e per il momento tu sei l’ultima persona di questo dannato
Paese che possa riuscirci. Ragion per cui…».
Dopo essersi
avvicinato al ragazzo, e con una scioltezza ed un’agilità incredibili, Magoichi gli sfilò il bracciale di cuoio recidendo i
cordoncini che lo assicuravano al polso.
«Ehi!» gridò Iguro,
non riuscendo stavolta a restare indifferente
«Questo per il
momento dovrai scordartelo.»
«Era di mio padre!»
«E si vergognerebbe
di vederlo al tuo polso. Parola mia. Dimostrami che sei davvero suo figlio, e
che nelle tue vene c’è davvero il sangue di un Assassino, e allora se ne
riparlerà.
Ora, cominciamo
l’addestramento.
Comincia a
correre.»
«Correre!?» ripeté
il ragazzo incredulo
«Che c’è, non hai
capito? Esci da questo villaggio e corri come se avessi alle spalle un esercito
di oni!»
«E fino a dove devo
correre?»
«Non sei nella
posizione di poter fare domande. Muoviti!».
Iguro non poté fare
altro che obbedire, e abbandonato il villaggio si inoltrò nella foresta, lungo
lo stesso sentiero che solo il giorno prima aveva percorso all’incontrario.
All’inizio la cosa non si presentò particolarmente difficile; essendo cresciuto
nelle risaie, come un contadino, e abituato quindi a svolgere lavori faticosi,
il suo fisico era temprato quanto bastava da permettergli di tenere una buona
cadenza di corsa senza che questo gli costasse eccessiva fatica.
I contadini che
lavoravano nelle risaie all’altro capo della foresta lo videro passare verso
metà mattina lungo il sentiero principale; transitò anche per il loro
villaggio, ripresosi senza grossi problemi dall’attacco di quei briganti, e
qualcuno anche lo salutò, saluti ai quali lui rispondeva con un cenno del capo.
Tutto sembrava
andare per il verso giusto, ma all’improvviso, mentre correva su di un sentiero
che inerpicava su per la montagna, il ragazzo sentì qualcosa che non si
aspettava: stanchezza.
Il fiato gli si
stava accorciando, diventando faticoso, e la lingua si impastava, reclamando
acqua.
Com’era possibile?
Aveva percorso solo
un paio di miglia, tenendo un’andatura tranquilla, e il terreno non era poi
così ripido.
Di solito ci voleva
ben altro per fargli sentire il peso della fatica.
Come poteva essere
che bastasse qualche ora di passeggiata veloce, perché poi corsa vera e propria
non la si poteva neanche definire, per far boccheggiare uno come lui, abituato
a fare avanti e indietro di corsa dal villaggio alle risaie portandosi appresso
pesanti canestri o ingombranti attrezzi da lavoro più volte al giorno?
Riuscì a correre
solo un altro paio di minuti, poi fu costretto a fermarsi, appoggiandosi ad una
roccia a lato della strada con il fiato corto e il petto in fiamme.
«Che… che mi sta succedendo?» disse incredulo «Perché… sono già stanco?».
Improvvisamente, il
rumore di uno sparo squarciò il silenzio tutto intorno, e il proiettile si
conficcò a terra non lontano dal suo piede sinistro, facendolo sobbalzare
incredulo e spaventato; voltatosi, con suo grande stupore vide Magoichi seduto sul ramo di un albero, con l’archibugio
ancora fumante puntato nella sua direzione.
«Cosa c’è, sei già
stanco? Non ti ho detto che potevi fermarti.»
«Ma cosa…»
«Che ti aspettavi?»
disse beffardo Magoichi «Questa non è la ridente
valle in cui sei cresciuto. Qui siamo in alta montagna. L’aria è rarefatta. È naturale
che chi non ci è abituato si stanchi presto».
Ora si spiegava
tutto!
La valle di Iguro,
pur trovandosi tra le montagne, non era molto in alto sul livello del mare, e
le particolari condizioni climatiche che vi si trovavano rendevano l’aria pura
e molto respirabile, tutt’altra cosa rispetto ad Hakuba.
Iguro strinse i
denti per la rabbia; sicuramente, Magoichi sapeva che
sarebbe andata a finire così, ma non gli aveva detto niente così da vedere fino
a che punto avrebbe resistito. E poi, come aveva fatto ad arrivare fino a lì
così in fretta, senza mostrarsi né stanco né sudato?
«Hai deciso di
arrenderti? Vuoi gettare la spugna?
Forse sarebbe
meglio.
Mi risparmieresti
di perdere il mio tempo con un ragazzino che non riesce neppure a correre mezza
giornata senza stancarsi.»
«Ti piacerebbe!»
sbottò Iguro, ferito nell’orgoglio «Ma non ci contare!» e rialzatosi riprese a
correre.
Magoichi stette a guardarlo
fino a che non scomparve dietro la curva, ridendo sommessamente, quasi con
rassegnazione.
Purtroppo, ben
presto, Iguro pagò cara quello scatto d’ira, così come l’eccessiva fiducia in sé
stesso.
Incapace di
ammettere la propria incapacità, soprattutto davanti ad una persona come Magoichi, rivelatosi essere ben diverso da come aveva
voluto ipocritamente apparire all’inizio, il ragazzo continuò a correre
nonostante le sue condizioni e i limiti che il suo fisico gli imponeva.
Dapprima furono
annaspi, poi la lingua divenne carta vetrata, le narici si infiammarono, la vista
si appannò sempre di più, le tempie si scavarono, riempiendosi di sudore, le
gambe si fecero di piombo e tutti i muscoli sembravano sul punto di esplodere.
Alla fine,
stremato, il ragazzo crollò sul sentiero, quasi incapace di trattenere i conati
di vomito; era talmente disidratato ed esausto che tentò di trascinarsi fino ad
una pozzanghera per berne l’acqua sporca e fangosa, ma le forze lo
abbandonarono prima e rantolò esanime senza più un briciolo di energia.
Aveva appena perso
i sensi, quando Magoichi comparve accanto a lui;
stette a lungo a guardarlo, senza far nulla per cercare di aiutarlo, con una
mano stretta attorno alla cintura e l’altra che reggeva il fucile, poggiato
come al solito sulla spalla.
«Ne abbiamo di
strada da fare.» commentò.
Castello
di Kiyosu
Gennaio
1569
La fortezza di Kiyosu
sorgeva nel mezzo della città di Nagoya, nel cuore della provincia di Owari***,
patria e culla del clan degli Oda, ed era la residenza principale di Oda
Nobunaga.
Meno appariscente e
sfarzoso di altri castelli dell’epoca, non era costruito per essere una
fortezza difensiva, con le sue basse mura e l’assenza di vari livelli difensivi
a protezione dell’edificio principale; rassomigliava piuttosto ad una elegante
dimora signorile, costruito sulle sponde di un fiume, con un pregiato ingresso
principale, un elegante giardino, raffinato stagni e persino un piccolo teatro.
Nobunaga era forse
un signore della guerra temuto e spietato, disposto a tutto pur di ottenere la
vittoria nelle sue campagne, ma era anche un uomo raffinato, amante delle arti
della cultura; praticava la danza col ventaglio, suonava vari strumenti e
scriveva poesie. Era anche un erudito dal grande bagaglio culturale, e alla
perenne ricerca di spunti con cui accrescere il proprio sapere; dai barbari
occidentali aveva appreso varie lingue, tra le quali quella usata dai loro
monaci, un po’ asettica ma bella da sentire, e anche la loro storia.
Non era raro che i
suoi dignitari e generali, quando andavano a trovarlo o venivano da lui
chiamati per discutere questioni politiche o militari, lo trovassero intento a
leggere pergamene o volumi di cui i barbari stranieri gli avevano fatto dono
nel tentativo di tirarlo dalla loro parte.
Ed era esattamente
ciò che stava facendo quando, in un gelido pomeriggio d’inverno, mentre grandi
fiocchi di neve coprivano la città e il castello di uno stupendo manto bianco,
i suoi più eminenti generali vennero da lui per il rapporto giornaliero sulle
ultime campagne di conquista, nell’immenso salone in cima al castello
utilizzato come luogo dei ricevimenti.
Erano presenti, tra
gli altri, Tokugawa Ieyasu, messosi di recente in
buona luce con la presa dei castelli Rokkaku, Toyotomi Hideyoshi, un figlio di contadini divenuto chissà
come uno degli uomini più capaci e fidati del Signore, Shibata Katsuie, un uomo possente e minaccioso, con una corporatura
massiccia e una folta barba da Ainu, che alcuni
ritenevano fosse, e Akechi Mitsuhide, la lealtà fatta
persona, un samurai della vecchia scuola forte e devoto, pronto a morire per il
suo signore.
Affianco a
Nobunaga, seduto su di un umile scranno in legno dirimpetto all’ingresso, la
sua nobile consorte, Nohime; Ieyasu ne incrociò lo
sguardo quasi per caso, dopo aver sollevato un momento. Quella donna non gli
era mai piaciuta; era bella, molto bella, ma non quella bellezza eterea e quasi
sovrannaturale che albergava invece in lady Oichi, la sorella del suo signore;
era più una bellezza misteriosa, per non dire inquietante, come una maschera
indossata al solo scopo di celare ciò che c’è al di sotto; e quegli occhi poi,
insolitamente azzurri, freddi e senza espressione, ma capaci, dal semplice
posarsi sul proprio sposo, di caricarsi di un sentimento così forte da farsi
quasi lucida follia.
Ieyasu era sicuro
di non essere il solo a pensarla così; nei corridoi del castello c’era chi si
azzardava a scherzare sulla “bellezza mostruosa” di Nohime,
cautelandosi ovviamente che certe voci non arrivassero mai all’orecchio dell’interessata,
gelosa oltremodo della sua bellezza e del fascino che riusciva ad esercitare
sulla maggior parte degli uomini.
«Mio signore.»
esordì Hideyoshi, che solitamente era sempre il primo a parlare «Come avevamo
previsto, i Takeda e gli Hojo
hanno iniziato a combattere tra di loro, e almeno per il momento hanno cessato
di rappresentare una minaccia.»
«Anche a oriente le cose vanno bene.» disse
Ieyasu «Uesugi Kenshin è
impegnato a sedare alcuni dissapori all’interno del proprio clan, e per questo
è stato costretto a rimandare l’invasione ad ovest.»
«Mio signore.»
disse Mitsuhide «Questo potrebbe costituire un momento propizio per
stabilizzare la situazione all’interno dei nostri domini.»
«O forse per ampliarli.»
disse Shibata «Ritengo che questa sia l’occasione buona per occuparci di una
questione che da troppo tempo andiamo procrastinando.»
«Sono d’accordo.» disse Hideyoshi «Ultimamente
gli Asakura hanno alzato un po’ troppo la testa.»
«Credevamo che mettere al potere uno shogun a noi fedele
sarebbe bastato a calmare i bollenti spiriti di Yoshikage.»
disse Ieyasu come tra sé «Ma a quanto pare quell’uomo ha la testaccia dura.»
«Le nostre spie
riferiscono che molti superstiti del vecchio shogun si siano rifugiati nei territori
degli Asakura, e che sia stato proprio Yoshikage ad
offrire loro protezione.»
«Quel maledetto Yoshikage.» mugugnò Shibata «Prima razzia i nostri domini,
poi attacca i nostri contingenti che transitavano nelle sue terre dopo aver
loro permesso di entrarvi, e ora offre riparo ai nostri nemici.
Quella serpe
malefica va’ schiacciata subito.»
«State dimenticando
tutti una cosa importane.» intervenne Mitsuhide «Negli ultimi due anni non
abbiamo fatto altro che combattere. I nostri eserciti sono più che dimezzati.»
«Per non parlare di
una cosa molto più importante.» disse Ieyasu «Vi siete dimenticati di chi sono
alleati gli Asakura?».
Hideyoshi a Shibata
a quel punto spalancarono leggermente gli occhi, per poi abbassarli come
contrariati.
«Gli Azai e gli
Asakura sono legati da un’alleanza ventennale. È proprio per questo che Yoshikage è certo di poter fare quello che vuole. Finché la
sua alleanza con Nagamasa resta salda, noi abbiamo le mani legate.
Yoshikage sarà pure uno
stupido egocentrico con manie di grandezza, ma sa di non potere niente contro
gli Oda. In compenso però, è abbastanza furbo da sapere che finché Nagamasa gli
resta amico, lui potrà fare quello che vuole.»
«Secondo me stai
sopravvalutando il problema.» disse Hideyoshi «È vero, gli Azai e gli Asakura
sono alleati da vent’anni. Ma non devi dimenticare che il capo degli Azai è
legato da vincoli di matrimonio al nostro signore, un legame assai più forte di
qualsiasi alleanza.»
«Trattandosi di
Nagamasa, mi dispiace dirlo, non ci metterei la mano sul fuoco.
Lo conoscete tutti.
È un ragazzino, mite e caratterialmente fragile. Impossibile stabilire quale
sarebbe la sua scelta, se messo con le spalle al muro.»
«Stai dicendo che
dovremmo continuare a sopportare i colpi di testa degli Asakura per colpa di un
maledetto ragazzino?» disse Shibata contrariato
«Voi lo vedete?»
domandò provocatoriamente Ieyasu «È qui tra noi questo ragazzino?».
Di nuovo, Hieyoshi e Shibata si azzittirono.
«È evidente.»
proseguì Ieyasu guardando Nobunaga «Che anche il mio signore è prevenuto nei
confronti di Nagamasa. È il suo fratello di sangue, e probabilmente lo conosce
meglio di chiunque altro.
Il mio umile
suggerimento, prima di compiere una qualsiasi azione ai danni degli Asakura, è
di comprendere appieno la psicologia e gli intenti del signore degli Azai, e
cercare per quanto possibile di assicurarsi, se non la sua alleanza, quantomeno
la sua neutralità.» quindi disse risoluto «Dal momento che puntiamo a
riunificare il Paese, l’ultima cosa che possiamo permetterci è un tradimento
dall’interno».
All’improvviso
Nobunaga, che fino a quel momento era rimasto immerso in un irreale silenzio,
chiuse il ventaglio che aveva in mano, e subito tutti tacquero, interpretando
il gesto come un segnale del fatto che il loro signore si apprestava a parlare.
«Quello che dice
Ieyasu è saggio, e riflette la sua natura astuta e calcolatrice.» disse
guardando il diretto interessato, che non sapeva se sentirsi fiero o a disagio
«Nagamasa è un giovane dall’animo bianco e candido come latte, e nel cui cuore
battono sentimenti antichi, scomparsi dai cuori raggrinziti e marci di molti di
noi.»
«Mio signore.»
disse Hideyoshi «Dunque intendete rinunciare a dare battaglia agli Asakura?»
«No. Avete ragione.
Abbiamo tollerato gli Asakura abbastanza a lungo, e questa è l’occasione buona
per far pagare loro tutte le colpe di cui si sono macchiati. Degli sporchi
malfattori senza onore come loro non troveranno mai posto nel nuovo mondo di
pace e unità che vogliamo costruire.
D’altra parte però,
di un cuore così puro e indomito mi dispiacerebbe immensamente fare a meno. È
proprio per questo che ho voluto porvi una catena, destinata a tenerlo sotto
controllo e al tempo stesso a preservarne la forza. Ed è su quella catena che
intendo fare affidamento».
In quel momento, un
servitore si palesò alla porta della stanza.
«Mio signore.»
disse prostrandosi e rimanendo oltre l’uscio «La nobile signora è qui.»
«Fatela entrare».
Tutti restarono un
momento interdetti, come se non si aspettassero una cosa del genere; poco dopo
le porte si riaprirono, e la giovane più bella che cielo e terra avessero mai
visto poggiare il piede in tutto il Paese si palesò nella stanza.
Aveva lunghissimi
capelli neri, elegantemente raccolti in una coda come da sacerdotessa, occhi
rosso sangue lucidi e scintillanti di vita, una pelle candida come di bambola e
morbida come una distesa di fiori di pesco, labbra minute ma abbastanza carnose
e un naso piccolo che pareva scolpito ad arte.
Se la dèa della
bellezza avesse avuto una forma, sarebbe stata la sua.
Il kimono che
indossava, con un lungo strascico e ricamato d’oro, era di purissima seta color
del tramonto, ricamato con fiori bianchi di ciliegio simbolo del casato degli
Oda; sotto di esso un altro kimono, bianco, come a testimoniare l’inarrivabile
purezza di colei che lo indossata.
Nel suo sguardo vi
era qualcosa di strano, come un che di silenziosa malinconia, un male di vivere
da parte di uno spirito troppo puro per vivere in un epoca di sì fatto orrore.
A vederla così, a
prima vista, si sarebbe detta quasi una bimba, ma a ben guardarla doveva avere
tra i venti e i venticinque anni.
Tutti si
prostrarono, toccando il tatami con la fronte, e rivolsero il loro saluto alla
nuova arrivata.
«Venerabile
signora.» dissero quasi all’unisono.
Lei avanzò,
lentamente, come durante un rito sacro, e giunta ai piedi dello scranno del
signore si inginocchiò a sua volta, chinando il volto verso terra.
Nohime, non vista,
distolse lo sguardo, digrignando i denti e piegando gli occhi in un’espressione
come di malcelata sopportazione, un gesto che non sfuggì ad alcuni del presenti,
primo fra tutti il marito.
«Benvenuta, Oichi.»
disse Nobunaga
* Il tojiki è il
classico dolce di riso giapponese di forma triangolare. Può avere varie
farciture, a seconda dei gusti e, in certi casi, del momento della giornata in
cui si consuma; una di queste è l’umeboshi, un
condimento a base di prugne
** Gli hakama
sono quella sorta di gonne-pantaloni che vengono utilizzati nelle arti
marziali; il loro scopo principale è quello di celare il movimento dei piedi,
così da rendere difficile all’avversario anticipare un eventuale assalto.
*** L’antica provincia di Owari si trovava nella zona centro-meridionale del
Giappone, nell’odierna Prefettura di Nagoya
Nota dell’Autore
Salve
a tutti!^_^
In
questi giorni, finalmente, ho un sacco di tempo libero, e così posso aggiornare
con una certa frequenza e contemporaneamente stare dietro agli ultimi capitoli
del mio primo romanzo, nella speranza che qualche editore si decida a farsi
vivo.
Comunque,
questo capitolo possiamo considerarlo di semplice intermezzo, e anticipo fin da
ora che la parte relativa all’addestramento di Iguro occuperà ancora tre o
quattro capitoli, per quanto cercherò di farla procedere il più speditamente
possibile così da non sviare dalla storia vera e propria.
Ringrazio
come sempre i miei recensori, Glaucopis e Skydragon.
Infine,
una notizia, giusto per testimoniare la mia natura vanesia^_^
Tra due
giorni, venerdì, si terrà la cerimonia di laurea in Piazza San Marco per i
neolaureati dell’Università di Venezia. Sarà una cerimonia in stile americano
(con consegna dei diplomi, cappello in aria etc), la
prima di questo tipo in Italia, quindi potrà capitare che se ne interessi anche
qualche tg nazionale. Se mai vi capitasse, dategli un’occhiata,
anche perché vedete… tra tutti quei laureati ci sarò
anch’io!
A
presto!^_^
Carlos
Olivera