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Autore: Carlos Olivera    29/06/2011    2 recensioni
Giappone. XVI Secolo.
La guerra civile consuma e distrugge tutto ciò che incontra. I signori della guerra si combattono l'un l'altro per il potere assoluto, i contadini soffrono e muoiono nelle campagne, i mercanti si arricchiscono, e le città bruciano.
Oda Nobunaga, presentatosi come il salvatore del Paese, si appresta a riunificare l'intero Giappone sotto il suo comando, e ben presto anche gli ultimi che ancora lo contrastano cadranno come fiori appassiti.
Ma qualcosa, qualcosa di terribile, cova al di sotto del caos che ovunque regna sovrano. Dall'occidente sono arrivate nuove armi, nuove conoscenze e una nuova fede, ma anche un'antica e sanguinosa battaglia segreta che dura da centinaia di anni, e che avrà in questo Paese uno dei suo maggiori teatri di scontro.
Dovere. Onore. Vendetta. Giustizia. Questo è ciò che mi guida, che mi spinge e proseguire lungo la strada che ho scelto, verso quel destino a cui non posso sottrarmi.
E' la mia maledizione.
Io sono Iguro Takemura.
Io sono... un Assassino.
Genere: Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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4

 

 

Iguro si svegliò di soprassalto, letteralmente affogato da un getto d’acqua fredda come se si fosse addormentato sotto una cascata.

Era così intontito e disorientato che, nonostante la doccia gelata, impiegò parecchi secondi a discernere sogno da realtà, mondo reale da allucinazioni.

Quello che aveva appena visto non aveva per lui alcun senso, e anche se aveva avuto l’impressione di assistere a quella specie di vivido sogno come ad una rappresentazione teatrale, seduto tra il pubblico, tutto gli appariva fuorché come una cosa chiara.

Ancora sconvolto, cercò di capire cosa fosse successo.

L’ultima cosa che ricordava era quell’odore d’incenso, e quella sensazione di impotenza.

Nei pochi secondi di raziocinio che riuscì a conquistare, si guardò attorno.

Doveva trovarsi in qualche capanna, poco più di una catapecchia a giudicare dallo stato dei muri e del soffitto e dai buchi nella carta delle porte e delle finestre. Il tatami era in uno stato pietoso, tutto sgualcito e secco, e puzzava da morire, come se ci avesse dormito una mandria di mucche, inoltre si vedevano segni evidenti del passaggio di topi e scarafaggi.

Persino il futon dove stava dormendo, ora fradicio come lui, rassomigliava più ad una coperta da cavallo, sporca e ruvida.

Dai buchi nella carta entravano raggi di un sole mattutino, uno dei quali gli arrivava dritto in faccia; con la mano cercò di farsi ombra, quel tanto che bastava per riuscire a riprendersi del tutto da quella specie di sbronza che rassomigliava incredibilmente all’unica ubriacatura della sua vita, durante la festa del raccolto dell’anno scorso.

Rapidamente le immagini si fecero più nitide, e quando poté dire di aver recuperato quasi completamente il controllo di sé vide la figura di Magoichi che lo sovrastava; aveva in mano un secchio vuoto, e gli sorrideva beffardo.

«In piedi, signorino. È l’ora dell’allenamento.» e gli tolse le coperte di dosso

«Ma che…» disse Iguro, finalmente sveglio al cento per cento «Dove sono i miei vestiti?»

«Parli di quegli stracci puzzolenti? Bruciati.

Erano incrostati di fango e sangue. Là ci sono dei vestiti di ricambio. C’è anche un tojiki all’umeboshi*. Fattelo bastare, perché non mangerai altro fino a domani.»

«Ma dove siamo?» domandò il ragazzo guardandosi attorno

«Mi sembra ovvio. Nella tua nuova casa.»

«Casa!? Persino una stalla sarebbe meglio?»

«Hai voluto entrare nell’ordine? Allora adeguati. Da questo momento sei un novizio come tutti gli altri, il che significa che comincerai dalla base della torre. Qui vige la regola del do ut des

«Del cosa?»

«Del dare per ricevere. Mostrati degno di restare qui, e vivrai in condizioni più dignitose. Deludi me o qualcun altro dei tuoi maestri, o vieni meno ai tuoi doveri, e finirai a litigarti la cena con i cani».

Iguro era senza parole.

La persona che stava davanti a lui non somigliava neanche lontanamente al Magoichi Saika che aveva conosciuto; persino i suoi occhi, di solito così vispi e ironici, sembravano diversi, pieni di fredda determinazione e severo giudizio.

«Ti do due minuti, per mangiare e renderti presentabile, poi voglio trovarti nella piazza del villaggio pronto a cominciare».

Rimasto solo, Iguro sentì come se il mondo gli fosse improvvisamente crollato addosso una seconda volta.

Era arrivato ad Hakuba nella speranza di trovare un luogo ospitale, dove sentirsi al sicuro, ma ora, nonostante l’iniziale impressione che si era fatto, sembrava proprio che quel posto di ospitale non avesse nulla.

Alzatosi, trangugiò quasi d’un fiato la palla di riso e indossò quelli che sarebbero stati i suoi nuovi vestiti, una sorta di kimono ed un hakama** entrambi di colore scuro, quindi uscì all’esterno.

Hakuba, illuminata dalla luce del primo mattino, e avvolta da una sottile nebbia di montagna, sembrava ora molto diversa da come Iguro l’aveva veduta la prima volta; ora rassomigliava davvero ad una città fantasma, ad uno di quei villaggi di shinobi pieni di tagliagole dai poteri sovrannaturali, con le sue case che emergevano pallidamente dalla bruma come un esercito di fantasmi, arroccate lungo le sponde del lago e le pendici della montagna.

La casa di Iguro, se di casa si poteva parlare, sorgeva molto defilata da tutte le altre, quasi al limitare della palizzata di legno, non lontano dal portone nord.

Il ragazzo arrivò nella piazza che la nebbia si era già in parte diradata. Magoichi lo aspettava ai piedi della scalinata che portava alla villa, ma la sua espressione, nonostante quel sorrisetto enigmatico, sembrava alquanto contrariata.

«Venti secondi di ritardo.» disse ordinando a Iguro di mettersi sull’attenti «Per stavolta passi, ma da domani un ritardo simile ti costerà metà della tua razione di cibo».

Iguro era ancora un po’ frastornato per il brusco risveglio, e il sole negli occhi certamente non aiutava; per un attimo ebbe un mancamento, barcollando leggermente, ma con un urlaccio degno di un padrone che richiama il proprio servo Magoichi lo costrinse a riprendere il controllo.

«D’ora in poi, arriverai qui tutte le mattine alla stessa ora, pronto ad iniziare l’allenamento. Eventuali ritardi non saranno più tollerati. Ogni mancanza sarà punita severamente, in base alla gravità della stessa.

Spero di essermi spiegato».

In quella, altri tre guerrieri raggiunsero il piazzale camminando in fila indiana, come in una marcia; silenziosi, senza produrre altro rumore che quello dei loro passi, entrarono nell’arena, posizionandosi al centro, e rivolgendo i loro sguardi verso i due monaci zen che sembravano aspettare il loro arrivo assieme a Keiji.

Abbassatisi il cappuccio, piegarono la testa in avanti; il monaco superiore li cosparse di una strana sostanza polverosa raccolta da un’urna dal colore biancastro, quindi il suo attendente agitò davanti a loro un aspersorio di acqua mistica. A quel punto fu il turno di Keiji, che sfoderato un pugnale incise la nuca sopra l’orecchio sinistro ad ognuno di loro; quello, avrebbe scoperto Iguro molto più avanti, era il segno distintivo degli Assassini del Paese, il marchio segreto attraverso il quale era possibile riconoscersi pur restando nel più assoluto anonimato.

«Gli uomini che vedi, sono diventati degli Assassini.» disse Magoichi vedendo che Iguro non riusciva a fare a meno di guardarli «Al momento, tu non sei degno neanche di baciargli le scarpe. E ora girati!».

Il ragazzo, spaventato da un tono tanto cattivo, obbedì, e a quel punto Magoichi prese a girargli attorno, come un lupo con un cerbiatto pronto ad essere sbranato.

«Prima di cominciare, è meglio che tu sappia questo.

Da quando mi è stata affidata la guida di questo posto, di media addestriamo dieci aspiranti Assassini all’anno. Alcuni vengono da noi spontaneamente, dopo aver sentito parlare del nostro operato o aver saputo in qualche modo della nostra esistenza. Altri li recuperiamo noi stessi, grazie ai nostri informatori e procacciatori di nuovi talenti. Altri ancora ci vengono raccomandati e spediti da potenti e signori che ci conoscono e ci sostengono, perché nemici dei Templari tanto quanto noi.

E tu lo sai, di questi dieci, quanti di media riescono davvero a entrare nella confraternita?

Due.

Dei restanti otto, quattro si arrendono e finiscono per rinunciare, tre sono costretti a ritirarsi per gravi ferite o infortuni invalidanti. E uno…» quindi si fermò, e disse sarcastico «Uno mediamente ci lascia la pelle».

Iguro di colpo sentì il latte alle ginocchia, e lo colse un’invisibile tremarella; in quale specie di inferno si era andato a cacciare?

«Ora, stammi bene a sentire. Il tuo addestramento si svolgerà in due fasi. La prima durerà diciotto mesi, durante i quali sarai affidato alle “cure” mie e di Keiji. Ti allenerai contemporaneamente nell’agilità e nel combattimento, cosicché tu possa imparare a combinare queste due abilità di modo che ognuna delle due tragga vantaggio dall’altra.

Se, e ripeto se, arriverai alla fine di questi diciotto mesi, allora inizierai la fase finale. Ti verrà assegnato un terzo maestro, da cui apprenderai le più efficaci e raffinate tecniche di omicidio. Nel corso degli anni, il nostro ordine è riuscito a creare uno stile di lotta e di assassinio diverso da quello dei tuoi antenati, che unisce la forza bruta della tecnica importata dall’occidente con la furtività e l’eleganza propria degli shinobi.

Padroneggiarlo non è cosa da tutti, e per il momento tu sei l’ultima persona di questo dannato Paese che possa riuscirci. Ragion per cui…».

Dopo essersi avvicinato al ragazzo, e con una scioltezza ed un’agilità incredibili, Magoichi gli sfilò il bracciale di cuoio recidendo i cordoncini che lo assicuravano al polso.

«Ehi!» gridò Iguro, non riuscendo stavolta a restare indifferente

«Questo per il momento dovrai scordartelo.»

«Era di mio padre!»

«E si vergognerebbe di vederlo al tuo polso. Parola mia. Dimostrami che sei davvero suo figlio, e che nelle tue vene c’è davvero il sangue di un Assassino, e allora se ne riparlerà.

Ora, cominciamo l’addestramento.

Comincia a correre.»

«Correre!?» ripeté il ragazzo incredulo

«Che c’è, non hai capito? Esci da questo villaggio e corri come se avessi alle spalle un esercito di oni

«E fino a dove devo correre?»

«Non sei nella posizione di poter fare domande. Muoviti!».

Iguro non poté fare altro che obbedire, e abbandonato il villaggio si inoltrò nella foresta, lungo lo stesso sentiero che solo il giorno prima aveva percorso all’incontrario. All’inizio la cosa non si presentò particolarmente difficile; essendo cresciuto nelle risaie, come un contadino, e abituato quindi a svolgere lavori faticosi, il suo fisico era temprato quanto bastava da permettergli di tenere una buona cadenza di corsa senza che questo gli costasse eccessiva fatica.

I contadini che lavoravano nelle risaie all’altro capo della foresta lo videro passare verso metà mattina lungo il sentiero principale; transitò anche per il loro villaggio, ripresosi senza grossi problemi dall’attacco di quei briganti, e qualcuno anche lo salutò, saluti ai quali lui rispondeva con un cenno del capo.

Tutto sembrava andare per il verso giusto, ma all’improvviso, mentre correva su di un sentiero che inerpicava su per la montagna, il ragazzo sentì qualcosa che non si aspettava: stanchezza.

Il fiato gli si stava accorciando, diventando faticoso, e la lingua si impastava, reclamando acqua.

Com’era possibile?

Aveva percorso solo un paio di miglia, tenendo un’andatura tranquilla, e il terreno non era poi così ripido.

Di solito ci voleva ben altro per fargli sentire il peso della fatica.

Come poteva essere che bastasse qualche ora di passeggiata veloce, perché poi corsa vera e propria non la si poteva neanche definire, per far boccheggiare uno come lui, abituato a fare avanti e indietro di corsa dal villaggio alle risaie portandosi appresso pesanti canestri o ingombranti attrezzi da lavoro più volte al giorno?

Riuscì a correre solo un altro paio di minuti, poi fu costretto a fermarsi, appoggiandosi ad una roccia a lato della strada con il fiato corto e il petto in fiamme.

«Che… che mi sta succedendo?» disse incredulo «Perché… sono già stanco?».

Improvvisamente, il rumore di uno sparo squarciò il silenzio tutto intorno, e il proiettile si conficcò a terra non lontano dal suo piede sinistro, facendolo sobbalzare incredulo e spaventato; voltatosi, con suo grande stupore vide Magoichi seduto sul ramo di un albero, con l’archibugio ancora fumante puntato nella sua direzione.

«Cosa c’è, sei già stanco? Non ti ho detto che potevi fermarti.»

«Ma cosa…»

«Che ti aspettavi?» disse beffardo Magoichi «Questa non è la ridente valle in cui sei cresciuto. Qui siamo in alta montagna. L’aria è rarefatta. È naturale che chi non ci è abituato si stanchi presto».

Ora si spiegava tutto!

La valle di Iguro, pur trovandosi tra le montagne, non era molto in alto sul livello del mare, e le particolari condizioni climatiche che vi si trovavano rendevano l’aria pura e molto respirabile, tutt’altra cosa rispetto ad Hakuba.

Iguro strinse i denti per la rabbia; sicuramente, Magoichi sapeva che sarebbe andata a finire così, ma non gli aveva detto niente così da vedere fino a che punto avrebbe resistito. E poi, come aveva fatto ad arrivare fino a lì così in fretta, senza mostrarsi né stanco né sudato?

«Hai deciso di arrenderti? Vuoi gettare la spugna?

Forse sarebbe meglio.

Mi risparmieresti di perdere il mio tempo con un ragazzino che non riesce neppure a correre mezza giornata senza stancarsi.»

«Ti piacerebbe!» sbottò Iguro, ferito nell’orgoglio «Ma non ci contare!» e rialzatosi riprese a correre.

Magoichi stette a guardarlo fino a che non scomparve dietro la curva, ridendo sommessamente, quasi con rassegnazione.

Purtroppo, ben presto, Iguro pagò cara quello scatto d’ira, così come l’eccessiva fiducia in sé stesso.

Incapace di ammettere la propria incapacità, soprattutto davanti ad una persona come Magoichi, rivelatosi essere ben diverso da come aveva voluto ipocritamente apparire all’inizio, il ragazzo continuò a correre nonostante le sue condizioni e i limiti che il suo fisico gli imponeva.

Dapprima furono annaspi, poi la lingua divenne carta vetrata, le narici si infiammarono, la vista si appannò sempre di più, le tempie si scavarono, riempiendosi di sudore, le gambe si fecero di piombo e tutti i muscoli sembravano sul punto di esplodere.

Alla fine, stremato, il ragazzo crollò sul sentiero, quasi incapace di trattenere i conati di vomito; era talmente disidratato ed esausto che tentò di trascinarsi fino ad una pozzanghera per berne l’acqua sporca e fangosa, ma le forze lo abbandonarono prima e rantolò esanime senza più un briciolo di energia.

Aveva appena perso i sensi, quando Magoichi comparve accanto a lui; stette a lungo a guardarlo, senza far nulla per cercare di aiutarlo, con una mano stretta attorno alla cintura e l’altra che reggeva il fucile, poggiato come al solito sulla spalla.

«Ne abbiamo di strada da fare.» commentò.

 

Castello di Kiyosu

Gennaio 1569

 

La fortezza di Kiyosu sorgeva nel mezzo della città di Nagoya, nel cuore della provincia di Owari***, patria e culla del clan degli Oda, ed era la residenza principale di Oda Nobunaga.

Meno appariscente e sfarzoso di altri castelli dell’epoca, non era costruito per essere una fortezza difensiva, con le sue basse mura e l’assenza di vari livelli difensivi a protezione dell’edificio principale; rassomigliava piuttosto ad una elegante dimora signorile, costruito sulle sponde di un fiume, con un pregiato ingresso principale, un elegante giardino, raffinato stagni e persino un piccolo teatro.

Nobunaga era forse un signore della guerra temuto e spietato, disposto a tutto pur di ottenere la vittoria nelle sue campagne, ma era anche un uomo raffinato, amante delle arti della cultura; praticava la danza col ventaglio, suonava vari strumenti e scriveva poesie. Era anche un erudito dal grande bagaglio culturale, e alla perenne ricerca di spunti con cui accrescere il proprio sapere; dai barbari occidentali aveva appreso varie lingue, tra le quali quella usata dai loro monaci, un po’ asettica ma bella da sentire, e anche la loro storia.

Non era raro che i suoi dignitari e generali, quando andavano a trovarlo o venivano da lui chiamati per discutere questioni politiche o militari, lo trovassero intento a leggere pergamene o volumi di cui i barbari stranieri gli avevano fatto dono nel tentativo di tirarlo dalla loro parte.

Ed era esattamente ciò che stava facendo quando, in un gelido pomeriggio d’inverno, mentre grandi fiocchi di neve coprivano la città e il castello di uno stupendo manto bianco, i suoi più eminenti generali vennero da lui per il rapporto giornaliero sulle ultime campagne di conquista, nell’immenso salone in cima al castello utilizzato come luogo dei ricevimenti.

Erano presenti, tra gli altri, Tokugawa Ieyasu, messosi di recente in buona luce con la presa dei castelli Rokkaku, Toyotomi Hideyoshi, un figlio di contadini divenuto chissà come uno degli uomini più capaci e fidati del Signore, Shibata Katsuie, un uomo possente e minaccioso, con una corporatura massiccia e una folta barba da Ainu, che alcuni ritenevano fosse, e Akechi Mitsuhide, la lealtà fatta persona, un samurai della vecchia scuola forte e devoto, pronto a morire per il suo signore.

Affianco a Nobunaga, seduto su di un umile scranno in legno dirimpetto all’ingresso, la sua nobile consorte, Nohime; Ieyasu ne incrociò lo sguardo quasi per caso, dopo aver sollevato un momento. Quella donna non gli era mai piaciuta; era bella, molto bella, ma non quella bellezza eterea e quasi sovrannaturale che albergava invece in lady Oichi, la sorella del suo signore; era più una bellezza misteriosa, per non dire inquietante, come una maschera indossata al solo scopo di celare ciò che c’è al di sotto; e quegli occhi poi, insolitamente azzurri, freddi e senza espressione, ma capaci, dal semplice posarsi sul proprio sposo, di caricarsi di un sentimento così forte da farsi quasi lucida follia.

Ieyasu era sicuro di non essere il solo a pensarla così; nei corridoi del castello c’era chi si azzardava a scherzare sulla “bellezza mostruosa” di Nohime, cautelandosi ovviamente che certe voci non arrivassero mai all’orecchio dell’interessata, gelosa oltremodo della sua bellezza e del fascino che riusciva ad esercitare sulla maggior parte degli uomini.

«Mio signore.» esordì Hideyoshi, che solitamente era sempre il primo a parlare «Come avevamo previsto, i Takeda e gli Hojo hanno iniziato a combattere tra di loro, e almeno per il momento hanno cessato di rappresentare una minaccia.»

 «Anche a oriente le cose vanno bene.» disse Ieyasu «Uesugi Kenshin è impegnato a sedare alcuni dissapori all’interno del proprio clan, e per questo è stato costretto a rimandare l’invasione ad ovest.»

«Mio signore.» disse Mitsuhide «Questo potrebbe costituire un momento propizio per stabilizzare la situazione all’interno dei nostri domini.»

«O forse per ampliarli.» disse Shibata «Ritengo che questa sia l’occasione buona per occuparci di una questione che da troppo tempo andiamo procrastinando.»

 «Sono d’accordo.» disse Hideyoshi «Ultimamente gli Asakura hanno alzato un po’ troppo la testa.»

«Credevamo che  mettere al potere uno shogun a noi fedele sarebbe bastato a calmare i bollenti spiriti di Yoshikage.» disse Ieyasu come tra sé «Ma a quanto pare quell’uomo ha la testaccia dura.»

«Le nostre spie riferiscono che molti superstiti del vecchio shogun si siano rifugiati nei territori degli Asakura, e che sia stato proprio Yoshikage ad offrire loro protezione.»

«Quel maledetto Yoshikage.» mugugnò Shibata «Prima razzia i nostri domini, poi attacca i nostri contingenti che transitavano nelle sue terre dopo aver loro permesso di entrarvi, e ora offre riparo ai nostri nemici.

Quella serpe malefica va’ schiacciata subito.»

«State dimenticando tutti una cosa importane.» intervenne Mitsuhide «Negli ultimi due anni non abbiamo fatto altro che combattere. I nostri eserciti sono più che dimezzati.»

«Per non parlare di una cosa molto più importante.» disse Ieyasu «Vi siete dimenticati di chi sono alleati gli Asakura?».

Hideyoshi a Shibata a quel punto spalancarono leggermente gli occhi, per poi abbassarli come contrariati.

«Gli Azai e gli Asakura sono legati da un’alleanza ventennale. È proprio per questo che Yoshikage è certo di poter fare quello che vuole. Finché la sua alleanza con Nagamasa resta salda, noi abbiamo le mani legate.

Yoshikage sarà pure uno stupido egocentrico con manie di grandezza, ma sa di non potere niente contro gli Oda. In compenso però, è abbastanza furbo da sapere che finché Nagamasa gli resta amico, lui potrà fare quello che vuole.»

«Secondo me stai sopravvalutando il problema.» disse Hideyoshi «È vero, gli Azai e gli Asakura sono alleati da vent’anni. Ma non devi dimenticare che il capo degli Azai è legato da vincoli di matrimonio al nostro signore, un legame assai più forte di qualsiasi alleanza.»

«Trattandosi di Nagamasa, mi dispiace dirlo, non ci metterei la mano sul fuoco.

Lo conoscete tutti. È un ragazzino, mite e caratterialmente fragile. Impossibile stabilire quale sarebbe la sua scelta, se messo con le spalle al muro.»

«Stai dicendo che dovremmo continuare a sopportare i colpi di testa degli Asakura per colpa di un maledetto ragazzino?» disse Shibata contrariato

«Voi lo vedete?» domandò provocatoriamente Ieyasu «È qui tra noi questo ragazzino?».

Di nuovo, Hieyoshi e Shibata si azzittirono.

«È evidente.» proseguì Ieyasu guardando Nobunaga «Che anche il mio signore è prevenuto nei confronti di Nagamasa. È il suo fratello di sangue, e probabilmente lo conosce meglio di chiunque altro.

Il mio umile suggerimento, prima di compiere una qualsiasi azione ai danni degli Asakura, è di comprendere appieno la psicologia e gli intenti del signore degli Azai, e cercare per quanto possibile di assicurarsi, se non la sua alleanza, quantomeno la sua neutralità.» quindi disse risoluto «Dal momento che puntiamo a riunificare il Paese, l’ultima cosa che possiamo permetterci è un tradimento dall’interno».

All’improvviso Nobunaga, che fino a quel momento era rimasto immerso in un irreale silenzio, chiuse il ventaglio che aveva in mano, e subito tutti tacquero, interpretando il gesto come un segnale del fatto che il loro signore si apprestava a parlare.

«Quello che dice Ieyasu è saggio, e riflette la sua natura astuta e calcolatrice.» disse guardando il diretto interessato, che non sapeva se sentirsi fiero o a disagio «Nagamasa è un giovane dall’animo bianco e candido come latte, e nel cui cuore battono sentimenti antichi, scomparsi dai cuori raggrinziti e marci di molti di noi.»

«Mio signore.» disse Hideyoshi «Dunque intendete rinunciare a dare battaglia agli Asakura?»

«No. Avete ragione. Abbiamo tollerato gli Asakura abbastanza a lungo, e questa è l’occasione buona per far pagare loro tutte le colpe di cui si sono macchiati. Degli sporchi malfattori senza onore come loro non troveranno mai posto nel nuovo mondo di pace e unità che vogliamo costruire.

D’altra parte però, di un cuore così puro e indomito mi dispiacerebbe immensamente fare a meno. È proprio per questo che ho voluto porvi una catena, destinata a tenerlo sotto controllo e al tempo stesso a preservarne la forza. Ed è su quella catena che intendo fare affidamento».

In quel momento, un servitore si palesò alla porta della stanza.

«Mio signore.» disse prostrandosi e rimanendo oltre l’uscio «La nobile signora è qui.»

«Fatela entrare».

Tutti restarono un momento interdetti, come se non si aspettassero una cosa del genere; poco dopo le porte si riaprirono, e la giovane più bella che cielo e terra avessero mai visto poggiare il piede in tutto il Paese si palesò nella stanza.

Aveva lunghissimi capelli neri, elegantemente raccolti in una coda come da sacerdotessa, occhi rosso sangue lucidi e scintillanti di vita, una pelle candida come di bambola e morbida come una distesa di fiori di pesco, labbra minute ma abbastanza carnose e un naso piccolo che pareva scolpito ad arte.

Se la dèa della bellezza avesse avuto una forma, sarebbe stata la sua.

Il kimono che indossava, con un lungo strascico e ricamato d’oro, era di purissima seta color del tramonto, ricamato con fiori bianchi di ciliegio simbolo del casato degli Oda; sotto di esso un altro kimono, bianco, come a testimoniare l’inarrivabile purezza di colei che lo indossata.

Nel suo sguardo vi era qualcosa di strano, come un che di silenziosa malinconia, un male di vivere da parte di uno spirito troppo puro per vivere in un epoca di sì fatto orrore.

A vederla così, a prima vista, si sarebbe detta quasi una bimba, ma a ben guardarla doveva avere tra i venti e i venticinque anni.

Tutti si prostrarono, toccando il tatami con la fronte, e rivolsero il loro saluto alla nuova arrivata.

«Venerabile signora.» dissero quasi all’unisono.

Lei avanzò, lentamente, come durante un rito sacro, e giunta ai piedi dello scranno del signore si inginocchiò a sua volta, chinando il volto verso terra.

Nohime, non vista, distolse lo sguardo, digrignando i denti e piegando gli occhi in un’espressione come di malcelata sopportazione, un gesto che non sfuggì ad alcuni del presenti, primo fra tutti il marito.

«Benvenuta, Oichi.» disse Nobunaga

 

* Il tojiki è il classico dolce di riso giapponese di forma triangolare. Può avere varie farciture, a seconda dei gusti e, in certi casi, del momento della giornata in cui si consuma; una di queste è l’umeboshi, un condimento a base di prugne

 

** Gli hakama sono quella sorta di gonne-pantaloni che vengono utilizzati nelle arti marziali; il loro scopo principale è quello di celare il movimento dei piedi, così da rendere difficile all’avversario anticipare un eventuale assalto.

 

*** L’antica provincia di Owari si trovava nella zona centro-meridionale del Giappone, nell’odierna Prefettura di Nagoya

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

In questi giorni, finalmente, ho un sacco di tempo libero, e così posso aggiornare con una certa frequenza e contemporaneamente stare dietro agli ultimi capitoli del mio primo romanzo, nella speranza che qualche editore si decida a farsi vivo.

Comunque, questo capitolo possiamo considerarlo di semplice intermezzo, e anticipo fin da ora che la parte relativa all’addestramento di Iguro occuperà ancora tre o quattro capitoli, per quanto cercherò di farla procedere il più speditamente possibile così da non sviare dalla storia vera e propria.

Ringrazio come sempre i miei recensori, Glaucopis e Skydragon.

Infine, una notizia, giusto per testimoniare la mia natura vanesia^_^

Tra due giorni, venerdì, si terrà la cerimonia di laurea in Piazza San Marco per i neolaureati dell’Università di Venezia. Sarà una cerimonia in stile americano (con consegna dei diplomi, cappello in aria etc), la prima di questo tipo in Italia, quindi potrà capitare che se ne interessi anche qualche tg nazionale. Se mai vi capitasse, dategli un’occhiata, anche perché vedete… tra tutti quei laureati ci sarò anch’io!

A presto!^_^

Carlos Olivera

  
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