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Autore: Usa_chan 10    30/06/2011    5 recensioni
È il suo cuore il tamburo che misura
i passi lenti e costanti del mondo.
Il suo respiro arriccia e increspa
le onde di questa dorata marea d’amore.
Aggira i suoi occhi il fulgore di una stella che il mondo riesce a
vedere e per sempre, per sempre.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hinata Hyuuga, Sabaku no Gaara | Coppie: Kiba/Hanabi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
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Capitolo 1: Be my rescuer

 

Tra i suoi capelli la mia mano si perde

e io ritrovo me stessa.

Sulle sue labbra il freddo d’acciaio che m’acceca

si stempera e intiepidisce.

Attraverso il suo sguardo, il mio continua

a vedere e per sempre, per sempre.

 

Rotolai di lato quasi incosciente e un sasso appuntito mi si conficcò nel fianco, facendomi sussultare e costringendomi a svegliarmi. Era giorno? Attraverso le mie palpebre incollate una sull’altra non riuscivo a vedere altro che una spessa e densa cortina rossa e vaghe ombre che galleggiavano su quella superficie scarlatta, fluttuanti e indistinte. Come la mia attenzione si concentrò su quello che i miei occhi riuscivano a vedere ricordai dov’ero, perché me ne stavo stesa su un pavimento scabro e gelido, e un dolore tremendo, inimmaginabile, s’impossessò di me. Riuscii appena a lanciare un grido quasi disumano e già i miei sensi si perdevano di nuovo in mezzo a quella nebbia sanguigna.

 

Nei giorni successivi persi e riacquistai i sensi a intervalli irregolari. Mi svegliavo nel pieno del freddo notturno e svenivo di nuovo e quando riprendevo conoscenza scoprivo che il luogo in cui mi trovavo era inondato della luce calda del sole. Era passato molto tempo da quando ero arrivata dovunque mi trovassi a giudicare dai crampi di fame che mi rodevano lo stomaco e finalmente il dolore agli occhi sembrava affievolirsi. Ripresi confidenza con il movimento delle mie dita, costringendole a grattare pian piano il pavimento sul quale ero sdraiata. Roccia, sembrava. Alzai lentamente le braccia e mi portai le mani sugli occhi chiusi. I miei polpastrelli incerti si soffermarono sulle mie ciglia pungenti e indurite dalle incrostazioni di sangue e procedettero delicatamente sulla pelle tenera delle palpebre.

Gemetti disperatamente, provocando una pioggerellina salata giù da quelle due cavità vuote che erano rimaste al posto dei miei occhi. Ricordavo vagamente che mi avevano pugnalata al volto mentre ero in missione per il mio villaggio, il villaggio della Foglia, e che ero svenuta per il dolore. Sbuffai dolorosamente. Certo che mi avevano strappato gli occhi. Aveva pienamente senso.

Cercai di mettermi seduta, più per cambiare posizione e dare così sollievo alla mia schiena distrutta che per tentare di andare da qualche parte, e strisciai verso il luogo dal quale proveniva la luce del sole. Tastai attorno a me per tentare d’indovinare dove mi trovassi. Roccia a terra. Roccia sulle pareti. Una grotta. Sorrisi per farmi coraggio. Sarei morta di fame o di sete o uccisa da chiunque fosse abbastanza senza cuore da approfittarsi della mia cecità, ma almeno sapevo che sarei morta in una grotta.

Camminai carponi rimproverandomi per quei pensieri cupi fino a quando le mie mani non incontrarono la consistenza calda e granulosa della terra o della sabbia. Ero finita nel paese della Sabbia? Non era inverosimile: dopotutto stavo passando lì vicino per tornare a casa mia dalla missione. Il ricordo di casa mi fece stringere il cuore e provocò la caduta di altre lacrime dalle mie palpebre vuote e il pensiero che probabilmente non vi avrei più fatto ritorno mi fece disperare ancor di più. Affondai le dita nella sabbia rovente e per qualche minuto rimasi china a gocciolare, piegata e affranta sull’orlo della caverna. Mi riscossi quando mi ritrovai a pensare a come fossero le mie lacrime intrappolate tra i granelli dorati e mi ritrassi nell’interno ombroso della caverna.

 

Erano passati diversi altri giorni, credo, quando sentii dei passi leggerli all’imboccatura della grotta. Stavo dormicchiando appoggiata ad una roccia, così inizialmente credetti di aver solo sognato e non feci particolarmente caso a quel sabbioso scalpicciare.

Stavo sognando di essere nella mia stanza. Una piacevole penombra, colorata di tutti i colori del buio, grigio, blu, nero, azzurrino, mi cullava attraverso le mie palpebre socchiuse e la voce di mia sorella mi accompagnava verso il sonno. Ma perché adesso quel fastidioso rumore di passi s’intrometteva tra me e la mia malinconica fantasia? Avrei aperto gli occhi e scacciato l’intruso che non mi lasciava scivolare in quell’oblio senza via d’uscita, ma, ah!, non avrei visto che quell’insistente drappo rosso che m’impigliava lo sguardo e mi rendeva totalmente cieca. Il mio mezzo sogno si fece tormentato: mia sorella scivolava giù dall‘orlo della mia vista, sostituita dall’insistente passo di una donna altissima con capelli rossi, no, rosa, che faceva risuonare i suoi tacchi arroganti su un pavimento di pietra, sì ero sdraiata sulla pietra e con un sasso un bambino biondo mi picchiettava sulla fronte. Cercai di scacciarlo, ma una stretta ferrea mi fermò le braccia e cominciò a scuotermi con gentilezza e decisione allo stesso tempo. Emersi lentamente da quello stato d’incoscienza e afferrai il braccio della persona che mi stava toccando. Ero spaventata e confusa e stavo emettendo gridolini terrorizzati che mi facevano assomigliare ad un coniglio impaurito.

“Stai buona.” Disse una voce maschile pacata e quasi atona, appena sopra di me. “Non ti faccio niente.” Se anche non fosse stato vero non avrei saputo in che modo difendermi, dolorante, accecata e sfinita dalla fame com’ero. Mi acquietai tra quelle mani tiepide e come per un riflesso involontario alzai il viso verso la fonte della voce. I miei occhi rimasero serrati e la cortina rossa turbinò e si fece più spessa e frustrante.

“Riesci ad aprire gli occhi?” Mi chiese l’uomo, lui, allentando appena la stretta delle sue mani sui miei avambracci. Scossi la testa senza parlare perché avevo la gola chiusa. Non sarei mai riuscita a dirlo. Mi hanno strappato gli occhi. Rabbrividivo al solo pensiero. “È tutto questo sangue …” Lo sentii sussurrare prima di avvertire il fruscio dei suoi movimenti sulla stoffa dei vestiti. Allungai le mani per toccarlo e potermi rendere conto dei suoi movimenti e incontrai le sue dita affusolate. Il cuore mi batteva per l’imbarazzo, io che toccavo le mani di un ragazzo appena conosciuto?, ma lui non mi allontanò, anzi, continuò a muovere le mani con lentezza perché io riuscissi ad intuire quello che stava facendo e poi fece scivolare le mie sulla superficie di una borraccia. Dischiusi le labbra assetata, ma lui svitò il coperchio con le mie dita tra le sue e versò dell’acqua su un fazzoletto.

Confusa, sentii che riportava le nostre mani al mio viso e intuii quello che stava per fare, così mi ritirai spaventata e inorridita, incapace di pronunciare qualsiasi parola. “Voglio soltanto toglierti il sangue dal viso, così potrai aprire gli occhi.” Disse con gentilezza mentre io tentavo di allontanarlo, spingendo i palmi delle mani contro i suoi. “No …” Dissi con voce sottile, appena udibile.

Lui sospirò. “D’accordo. Hai sete? Vuoi bere?” Annuii senza togliere le mani dalle sue e finalmente sentii che mi avvicinava la borraccia alle labbra. Bevvi avidamente per diverso tempo e il mio corpo rispose con gratitudine a quell’acqua fresca, riprendendo lentamente coscienza dei propri movimenti e del proprio stato. Quando infine mi staccai da quel liquido miracoloso un sorriso involontario mi si aprì in viso come se avessi bevuto saké invece che acqua e anche la pressione delle mie mani sulle sue si allentò e mi accorsi che con dolcezza mi sfiorava le palpebre vuote con la stoffa umida per ripulirmi dal sangue. “Oh …” Soffiai pianissimo mentre le sue dita passavano e ripassavano sulla mia pelle dolorante. Sentii le ciglia che si staccavano una ad una dalle altre e le cavità che un tempo erano state i miei occhi che inesorabilmente si aprivano. Sgomenta mi accorsi di non riuscire a tenerle chiuse e mi lamentai sottovoce al pensiero che lui, chiunque fosse, avrebbe visto quelle due voragini e probabilmente ne sarebbe stato disgustato e mi avrebbe lasciata lì di nuovo. Sarei morta, lo sapevo.

Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi, sfinita dal dolore e dalla consapevolezza di aver perso l’unica cosa che mai, mai avrei dovuto perdere, ma lui continuò diligentemente a passarmi il fazzoletto sugli occhi fino a quando non ritenne che fossi pulita.

“Ah.” Disse infine, quasi dolcemente. “Sembra che ti serviranno degli occhi nuovi, vero?” La sua voce … ricordavo di averla già sentita da qualche parte, ma non riuscivo a capire dove o quando. Rimasi immobile mentre lui continuava ad armeggiare con le proprie tasche e infine lo sentii appoggiarmi qualcosa sul viso. Alzai le mani sugli zigomi e mi sorpresi. Bende. Diceva sul serio? Mi avrebbe dato degli occhi nuovi? Non sapeva che non esistevano occhi per chi aveva perduto il dono degli Hyuga? 

  
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