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Autore: hiccup    01/07/2011    2 recensioni
Nonostante fossi partita già da due ore, stentavo ancora a realizzare di essere seduta veramente accanto al finestrino dell'aereo che mi avrebbe portato finalmente in Giappone.
[...] Il rumore crebbe all’improvviso, un senso di vertigine alla bocca dello stomaco, le gambe mi tremarono terribilmente e vaccilai cadendo a terra.
Urla, pianti, il terremoto.
Solo un incubo.
***
Riveduta e corretta :3
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Banale Normalità.

 

 

A mio nonno, perchè finalmente sono riuscita a finire qualcosa;

Alla mia ex professoressa di italiano perchè sì;

A Lucy per Mozart, l'arpa celtica e la meticolosa correzione;

A tutta la popolazione giapponese che continua a resistere. 

 

 

Cara Anna,

Sono tornata ieri notte, ma non riesco ad aspettare domani, a scuola, per raccontarti tutto... così ho deciso di scriverti.

Quando ti dirò dove sono stata, non mi crederai mai, non dopo che ti ho fatta diventare pazza con tutti i miei sogni e le mie fantasie! Io, la nonna e papà siamo andati nel paese del Sol Levante. Sì, proprio in Giappone!

[...]

Visitammo Kyoto, famosa per i suoi numerosi giardini zen.

[...]

Il più noto è quello del tempio Ryoan-Jin, dove in uno spazio di trecento metri quadrati è racchiuso un incantevole paesaggio: un giardino di ghiaia nel quale si trovano quindici pietre di varie forme, posizionate in modo che da qualsiasi angolo si guardi il giardino, non si possano vedere tutte le pietre, cioè qualcuna resti celata, a simboleggiare il fatto che la realtà per quanto la si scruti, rimane sempre in parte nascosta.

[...]

Il giorno dopo ci siamo recati a Hiroshima, non so come descriverti quello che ho provato pensando che decenni prima la città fosse stata rasa al suolo dalla bomba atomica.

[..]

 

Rilessi quelle righe piene di errori grammaticali, dalla calligrafia grande, rotonda e piuttosto infantile, con un sorrisetto divertito sulle labbra; le frasi appartenevano ad un tema di terza media, scritto sotto la consegna:

Sei appena tornato/a da un viaggio meraviglioso all’estero.

Scrivi una lettera a un amico per parlargli delle città, dei musei visitati, delle curiosità locali e dei strani cibi che hai avuto occasione di mangiare.

Quando la professoressa aveva finito di dettare, avevo subito iniziato a scrivere il mio personale e completamente inventato viaggio in Giappone; non essendoci mai stata, avevo raccolto tutte le informazioni dalla rete aggiustandole con espressioni che – allora per lo meno - ritenevo d’effetto.

Quel vecchio tema era rimasto nel mio quaderno fino alla fine del quadrimestre, poi nella mia agendina personale per anni, senza essere mai letto da occhi che non fossero i miei. Quelle pagine avevano rappresentato, negli anni delle scuole superiori e in seguito anche nei primi tre anni di università, la mia promessa e il mio obbiettivo da raggiungere: studiare la lingua giapponese per poi recarmi in Giappone.

In principio la mia decisione era stata frutto della scoperta dell’immenso e splendido mondo dei manga - i fumetti giapponesi -, in seguito però quella passione era maturata lentamente, passo passo con la curiosità verace per quella cultura talmente diversa dalla nostra occidentale e la fermezza del volerne imparare la lingua.

Fu proprio quell'interesse a condurmi alla facoltà di lingue orientali di Venezia - dopo i cinque anni di liceo -, per studiare cinese e giapponese.

Arrivata al mio terzo anno di università, - dopo un’estate passata a lavorare in una modesta pizzeria come cameriera - avevo finalmente raggiunto la possibilità economica di prenotare un viaggio verso il paese delle mie fantasie di ragazzina. Superfluo dire che non stavo nella pelle.

-

L'aereo era completamente fullNonostante fossi partita già da due ore, stentavo ancora a realizzare di essere seduta davvero accanto al finestrino dell'aereo che mi avrebbe portato finalmente in Giappone.

Ero intenta a sfogliare le pagine dell’agenda dai fogli azzurri e di quel tema, pensando elettrizzata che tra qualche ora avrei realizzato sul serio quel sogno scritto sulle pagine a righe del mio quaderno.

«Che cos’è?» fece una voce, mentre una mano mi toglieva dalle mani il tema. Mi voltai di scatto alla mia destra, lasciandomi sfuggire un’esclamazione di sorpresa mista a indignazione.

«L’hai scritto tu? Certo che scrivevi piuttosto male, eh?» ridacchiò un ragazzo con gli occhi a mandorla sui ventitré anni e dai capelli spettinati, tinti di un blu elettrico e striati di bianco.

«Togliere le cose dalle mani della gente è considerata maleducazione.» ribattei riprendendomi bruscamente il foglio e infilandolo in una pagina a caso dell’agenda.

«Suvvia Impe, volevo vedere cosa stavi leggendo di così divertente.» si giustificò lui, togliendosi un’auricolare dell'Ipod e sorridendo alla mia occhiata truce.

«Nulla d’interessante, solo una cosa scritta tempo fa.»

«Cioè?»

«Nulla.» tagliai corto, scribacchiando qualcosa a caso sulla data del quindici settembre.  

«Come vuoi.» si arrese lui, continuando comunque a fissarmi con un sorriso sornione stampato in faccia.

«Se non ti conoscessi bene, Impe, direi che sei nervosa.»

Alzai lo sguardo su di lui, fissandolo perplessa.

«Si vede così tanto?» chiesi con voce piccola. «È che sono un po’ tesa, temo di sbagliare a comportarmi, senza contare che sono anni che progetto questo viag-»

Non finii ché lui scoppiò a ridere, togliendosi anche l’altro auricolare.

«P-perché ridi?» balbettai colta alla sprovvista.

«Avresti dovuto vedere la tua faccia.» riuscì a dire tra una risata e l’altra, prima che la mia agenda calasse violentemente sul suo capo per due volte consecutive.

«Ahi ahi! Va bene, va bene, scusa.» disse cercando di tornare serio e massaggiandosi la testa dolorante con una mano. «La pubblica sicurezza dovrebbe toglierti quella benedetta agenda dalle mani, sei pericolosa quando vuoi, sai?» si lamentò riavvolgendo gli auricolari attorno all'Ipod e cacciandolo in tasca.

«La colpa è solo tua, razza di maleducato» scandii a mezza voce, guardandomi intorno per assicurarmi di non aver disturbato nessuno degli altri viaggiatori.

«Ti preoccupi troppo, Impe, invece di goderti il viaggio ti stai facendo solo paturnie inutili. Come dice il detto, non fasciarti la testa, prima di essertela rotta» disse lui severo, puntandomi l’indice contro.

«Sei tu quello che non si fa problemi e che al check-in è stato fermato perché aveva superato il peso concesso» gli ricordai.

«Sono solo dettagli insignificanti. Piuttosto, ecco che arriva l’hostess con il carrello; spero ci siano dei panini, perché davvero ho una fame pazzesca.»  

«Ma se hai sempre fame» borbottai tra me e me, rimettendo l’agendina nella borsa e guardando l’orologio al polso: segnava le 11.45.

«Di questo passo non mangeremo mai» sbuffò lui poco dopo, sporgendosi verso il corridoio. Alzandomi appena vidi che la giovane hostess col carrello era stata fermata da un signore di mezz’età, indeciso se prendere l’acqua naturale o quella minerale.

«Le bevande gassate fanno male allo stomaco» affermai facendo alzare gli occhi al cielo al ragazzo seduto di fianco a me.

«Risparmiami le tue perle di saggezza sulla salute, Impe.»

-

L'essere umano - meglio identificato come "Strambo Alfa" - seduto di fianco a me aveva reso del tutto possibile e concreto il mio viaggio in Giappone.

Avevo conosciuto Masaki Homura circa due anni prima, quando me l’ero ritrovato in casa come ospite a causa degli scambi culturali dell’università. Era per metà giapponese e per metà francese da parte di madre, ma aveva sempre vissuto a Tokyo in casa della nonna paterna, sua unica parente rimastagli dopo la morte dei genitori in un incidente stradale.

Masaki aveva studiato lingue straniere ed essendo riuscito a classificarsi in uno dei primi posti in graduatoria, aveva vinto una borsa di studio che l’aveva portato direttamente in scambio culturale con l’università di Venezia insieme ad altri studenti. In seguito alla necessità di trovare qualcuno che li ospitasse per qualche settimana, era finito  del tutto inaspettatamente – l’arrivo degli studenti stranieri era previsto per la settimana successiva - davanti alla mia porta d’ingresso in un pomeriggio di giugno, rischiando tra le altre cose di venire azzannato dal cane da guardia.

La divina provvidenza volle che quel pomeriggio, io e i miei genitori avessimo appena finito di pranzare insieme ai vari parenti quando Masaki suonò il campanello ed entrò nella mia vita, facendo svenire mia nonna con i suoi capelli, allora verde bottiglia, e gli occhi cerchiati di nero. Ne conseguì una folle corsa in ospedale, conclutasi con la rassicurazione del medico che la nonna aveva avuto solo un calo di zuccheri improvviso e che non era nulla di grave.

Demmo a Masaki la stanza degli ospiti e durante i primi giorni fu un trauma per tutta la famiglia averlo in giro per casa, tanto che le mie sorelle si rinchiusero nella loro camera, terrorizzate dal suo aspetto bizzarro.

Se loro erano terrorizzate, io ero nel panico più totale.  Era appena da nove mesi che studiavo il giapponese e di certo non ero in grado di sostenere una conversazione con un madrelingua; fu davvero un sollievo scoprire che Masaki conosceva e parlava molto bene l’italiano, inutile il dettaglio che ne venni a conoscenza solo dopo un’intera settimana di brutte figure correlate da una sfilza di situazioni imbarazzanti.

La nostra amicizia non era iniziata immediatamente, come c’era da aspettarsi: eravamo agli antipodi. Io di natura ero timida e taciturna, lui probabilmente non sapeva cosa significasse “rimanere in silenzio”; senza contare che avevamo gusti completamente differenti, io amavo leggere qualsiasi cosa, disegnare, la fotografia, ascoltare musica classica e lirica, Masaki invece, provava una venerazione sviscerata per le commedie cinematografiche, per i libri di Stephen King e per la musica metal, o “rumore di porcellana infranta” che dir si voglia.

La prima pietra dell’amicizia la posò lui quando, una sera, a Venezia dopo una giornata passata a visitare la città, perdemmo l’ultimo treno di ritorno e perciò ci vedemmo costretti ad aspettare l’autobus delle 20.30, Masaki se ne uscì con una delle sue trovate portandomi a mangiare in uno dei ristoranti più raffinati della città, dove ci guadagnammo una serie di occhiatacce tutt'altro che amichevoli, ma in compenso trascorremmo tutta la serata a parlare solo ed esclusivamente di manga.

Rimase in Italia fin quasi alla fine delle vacanze estive, e quando partì, se ne andò particolarmente soddisfatto – a suo dire - per avermi trasmesso un po’ della sua passione per l’eccentrico (dove l’avesse vista rimane un mistero).

Tornò da noi l’anno successivo con i capelli tinti di arancione e poi di nuovo, dopo quasi diciotto mesi dall'ultima volta, ce lo ritrovammo sull’uscio di casa tinto di blu e bianco. Non feci in tempo a salutarlo che lui m’invitò ad andare con lui a Tokyo, per ricambiare l’ospitalità di quei due anni.

Mia nonna ebbe un altro svenimento sentendo che a febbraio sarei andata in Giappone. I miei la presero molto meglio, anche se dovetti promettere loro di telefonare a casa ogni giorno, ma non era nulla: avrei fatto qualsiasi cosa per un viaggio in Giappone.

La mattina del dieci febbraio io e Masaki partimmo di buon’ora dall’aeroporto di Venezia, e tutto mi sembrava un bellissimo sogno.

 -

«Questi panini sono veramente squisiti, il tuo è buono Impe?» mi domandò lui, addentando l’ultimo boccone del suo terzo panino farcito.

Annuii, ero ancora a metà del mio sandwich. Masaki infilò il tovagliolo nella tasca dei jeans slavati, si posò meglio allo schienale del sedile e portò le braccia dietro la testa, sbadigliando sonoramente.

«Non dovrebbe mancare ancora molto» mormorò. «Non vedo l’ora di dormire sul mio letto, questi sedili sono troppo rigidi» aggiunse.

«Avresti dovuto dormire di più ieri, invece di rimanere sveglio tutta la notte» ribattei guardando oltre il finestrino: non si vedeva nulla eccetto nuvole candide e soffici.

«E tu come lo sai?»

«Verso le tre di notte mi sono alzata perché avevo sete, e ho visto che avevi ancora la luce accesa in camera» spiegai.

«Ah, pensavo mi avessi spiato Impe-chan» disse con una punta di malizia nella voce.

«Non dire sciocchezze. Piuttosto cosa stavi facendo?»

«Partecipavo al mio gioco di ruolo online preferito.»

«Terre oscure

«No, quello mi ha stancato; ora ne ho scoperto un altro sensazionale, si chiama Kalik World ed è un gioco innovativo, pensa che se rimani collegato un tot di ore continue, accumuli una marea di punti bonus» disse con grande enfasi.

Sorrisi tra me e me, guardandolo.

 -

Pazzesco, mormorai tra me e me guardando oltre il vetro del taxi; Tokyo era ancora più bella di come mi fossi aspettata: i grattacieli enormi, una fiumana di persone che camminavano per le strade, negozi dalle vetrine variopinte... e un traffico terribile.

L'autovettura si fermò all’inizio di una via in un quartiere periferico della capitale: fine della corsa. Masaki pagò il tassista, mentre io smontavo e prendevo le nostre valigie dal bagagliaio. Una volta che il taxi fu ripartito, Masaki prese il suo trolley e s’incamminò nella stradina, lo seguii.

La via era molto stretta, tanto che tre persone l’una di fianco all’altra ci passavano a stento; ai lati s’innalzavano muri alti dei quali non si vedeva la sommità.

Arrancavo dietro a Masaki che camminava speditamente. Uscimmo dalla viuzza e ne imboccammo altre due leggermente più grandi, fino ad arrivare in un viale alberato e deserto, tranne che per una coppia di anziani seduti in una panchina.

Quando io e Masaki li superammo, i due vecchietti mi guardarono con mera curiosità; abbassai il capo in imbarazzo.

«Eccoci arrivati. Home sweet home.» canticchiò Masaki, premendo il campanello. Kawashi, diceva il cartellino.

Guardai la casa con tanto d’occhi: era un edificio di modeste dimensioni, ma circondato da un elegante e curato giardino, con tanto di sentiero ciottolato per raggiungere l’uscio.

«Si?» rispose una voce educata dal citofono.

«Sono Masaki, obaa-chan. Siamo arrivati.» rispose lui allegramente.

Il cancello si aprì all’istante, ed entrammo. Avvertii la normale sensazione di nausea e di stritolamento dello stomaco, a causa dell’agitazione, e dovetti tenere a bada la tentazione di girare i tacchi e di tornarmene velocemente indietro.

Masaki avanzò tranquillo verso la porta, che si aprì all’improvviso, rischiando di centrarlo in pieno volto.

«Masa-kun.» una signora bassa e robusta lo abbracciò, stritolandolo; non doveva avere più di sessant’anni, aveva i capelli grigi raccolti in una severa crocchia, gli occhi dal taglio orientale nerissimi e indossava una tuta da jogging bluette.

Masaki si sottrasse con difficoltà alla stretta ferrea della donna, e lei volse subito il suo sguardo verso di me, m’inchinai profondamente presentandomi.

«Il piacere è tutto mio Imperia-chan» sorrise prendendomi le mani tra le sue, «spero ti troverai bene qui, a Tokyo, e ti prego fa’ come se fossi a casa tua.»

Annuii ricambiando il sorriso sollevata.

«La ringrazio per avermi dato la possibilità di venire in Giappone, signora Kawashi.»

«Grazie a te e alla tua famiglia per aver sopportato per sue anni mio nipote. Avete fame?» ci domandò. «Sono le quattro del pomeriggio, potrei prepararvi una tazza di tè.»

«Altroché obaa-chan, e magari oltre al tè anche i tuoi biscotti.» disse Masaki entrando il casa.

La signora Kawashi borbottò un quel ragazzo è senza speranza esasperato, per poi guardarmi e invitarmi a entrare.

 -

La signora Kawashi era davvero una donnina arzilla e mise tutta se stessa nel non farmi sentire fuori luogo: servì una cena con i fiocchi e con dozzine di pietanze tipiche locali, mi preparò una stanza al secondo piano della casa con tanto di lenzuola profumate e una piantina bonsai sul davanzale della finestra, e mi mostrò la sua immane collezione di enciclopedie sui rimedi naturali, che poi non usava mai perché andare dal medico - mi disse - era molto più comodo e veloce, ma li conservava in ricordo di sua madre, che era stata infermiera durante la guerra.

Parlammo a lungo del viaggio e dei miei studi e delle mie passioni, spostando in seguito la conversazione dalla cucina nell’accogliente salotto. Verso le ventidue e un quarto ero talmente stanca e desiderosa di una bella dormita che parlavo senza sapere bene quel che dicevo.

«Obaa-chan, non vedi che si sta addormentando? Lasciala andare a dormire» le fece notare Masaki, intromettendosi nella discussione circa il tempo meteorologico italiano.

«Oh, hai ragione! Mi dispiace di averti trattenuto fino a quest’ora Imperia-chan, sarai molto stanca, dico bene?» fece la signora Kawashi accorata.

«Non si preoccupi signora, l’ascolto molto volentieri.» ribattei con un sorrisino, il quale nonostante tutto non convinse del tutto la donna. Così dopo mezz’ora, durante la quale chiamai miei genitori ed infilai il pigiama, mi ritrovai sotto le coperte morbide e calde del mio letto; non passarono più di due minuti che io fossi già sprofondata in un sonno pesante.

 

 ***


I primi giorni, per quanto splendidi, ebbero una sfumatura traumatica a causa delle diverse abitudini con le quali mi scontrai al mio arrivo nel paese del Sol Levante: la formalità delle persone e il grande traffico in primis.

Durante la prima settimana mi rifiutai categoricamente di andare in giro senza Masaki, certa che mi sarei persa se avessi osato varcare la soglia della casa da sola. Non occorreva molto tempo per raggiungere il centro di Tokyo - giusto una trentina di minuti usufruendo di una serie di scorciatoie –

Le prime volte, tuttavia, dovetti fermarmi in un cafè e bere subito qualcosa di zuccherato, altrimenti avrei rischiato di svenire sul serio per il mal di testa, con tutti quei tentativi di districarsi e uscire viva, mormorando decine di mi scusi a destra e a manca, dalla fiumana di persone che percorreva sempre e in qualsiasi momento le strade della città.

Chiudendo un occhio su queste piccolezze, Tokyo era e rimaneva comunque meravigliosa.

Quando Masaki e la signora Kawashi mi convinsero finalmente a uscire senza nessun supporto ero a Tokyo già da tre settimane e dovetti imparare ad orientarmi volente o nolente, in quanto Masaki non poteva di certo accompagnarmi per negozi tutti i giorni, aveva anche lui una vita privata: lavorava part-time in un negozio di strumenti musicali e contemporaneamente eseguiva piccoli lavori di traduzione da casa, tanto per non perdere la sua eccellente destrezza linguistica.

Davanti ai suoi impegni mi sentivo sempre più fuori luogo: dopotutto oltre a camminare, comprare di tutto e di più e passare giornate intere in biblioteca per preparare la tesi, non facevo molto, perciò mi proposi di fare il possibile per non far pesare la mia presenza in casa Kawashi, e contro il volere della signora Kawashi, che faceva di tutto per non essere aiutata, iniziai ad aiutare nei lavori domestici scoprendo, tra le altre cose, di avere un'abilità innata per il giardinaggio e la potatura delle siepi in specifico.

 -

Era pomeriggio inoltrato quando entrai nel negozio Shizuka’s instruments. Era un negozio piuttosto grande, ordinato ma zeppo di chitarre, bassi, batterie, strumenti a fiato, e chi più ne ha più ne metta.

La signora Kawashi mi aveva incaricato di portare a Masaki una lettera che era appena arrivata, e di dirgli di pagare le imposte entro quel giorno, con il chiaro intento di allontanarmi dal giardino e dalle faccende domestiche.

Avanzai tra gli scomparti di strumenti musicali, guardandoli tutti con curiosità e provando ammirazione per quelle persone che sapevano suonarli; io amavo la musica, ma per quanto riguardava il suonare, evidentemente non era nei miei geni.

«Posso fare qualcosa per lei signorina?»

Mi voltai e vidi Masaki intento a sistemare dei libri di teoria musicale su alcuni scaffali.

«Tua nonna mi ha spedito qui dicendomi di darti questa» gli porsi la lettera affrancata, «e dirti che devi pagare le imposte entro oggi» riferii.

«Le ho pagate questa mattina: deve essersi dimenticata che glielo avevo detto» mormorò scorrendo velocemente la lettera per poi alzare lo sguardo su di me accigliato.

«È una semplice lettera di una campagna pubblicitaria.»

«Credo che la signora Kawashi non voglia che l’aiuti.» confessai leggermente affranta.

«Certo che no; non lascia nemmeno a me aiutarla, figurarsi se lo permette a te che sei nostra ospite.» rise.

«Lo capisco, ma mi sento un po’ un peso per lei... ehi!» esclamai vedendolo allontanarsi, ignorandomi bellamente.  Masaki tornò indietro guardandomi con esasperazione. «Quando la smetterai di farti complessi mentali assurdi?»

Borbottai una mezza risposta, risentita.

«Se attendi cinque minuti, finisco il mio turno così dopo possiamo andare a fare quattro passi» disse lui cambiando discorso.

 «Va bene, intanto mi guardo intorno» sorrisi indicando la sezione dei strumenti a corda.

«A patto di non combinare un guaio» disse sarcastico, per poi ritornare a sistemare i nuovi libri di teoria musicale appena arrivati.

Come se non facessi altro che combinare danni ovunque vada, pensai, inoltrandomi nella parte degli strumenti cordofoni. Tra chitarre, violini, viole e violoncelli trovai all’istante qualcosa che catturò all’improvviso la mia attenzione: una piccola arpa celtica color mogano con le corde di budello. Non riuscii a trattenermi e quando sfiorai appena le corde tese nell’aria si librò un suono dolcissimo e delicato. Avevo sempre avuto un debole per quel genere di strumento musicale, complice la musica tradizionale irlandese e una mia cara amica che ne possedeva una e che era riuscita a diventare un’ottima arpista.

Mi aggirai con curiosità tra gli altri strumenti fino a quando non raggiunsi la cassa e  notai un volantino colorato tra gli altri:

 

Concerto di musica classica

terza serata: 

esecuzione brani di W. A. Mozart

con lettura straordinaria delle lettere.

 

Lo presi di scatto e lo lessi nuovamente, sorpresa.

«Cosa stai leggendo?» Masaki fece la sua comparsa di fianco a me e fissò curioso il volantino.

«Mhm... Mozart? E chi è?»

«Che cosa? Non sai chi è Mozart?» sibilai indignata.

«Certo che lo conosco! Ascolterò generi di musica differenti dai tuoi, ma non sono ancora preso così male» alzò le mani a mo’ di scusa e aggiunse con mezzo ghigno ironico:

«Certo che tu non hai proprio il minimo senso dell’umorismo.»

Non lo stavo nemmeno a sentire, ero fin troppo elettrizzata: avrebbero letto delle sue lettere, un caso più unico che raro.

«Quando lo fanno il concerto?» mi chiese.

«Questa sera, alle venti e trenta.»

«Devono essere pazzi: a quell’ora la gente normale pensa a mangiare e a riposarsi, e non certo ad andare ad ascoltare un concerto di musica classica, con il rischio di addormentarsi» si lamentò Masaki mentre uscivamo dal negozio.

«Ci andiamo?» gli chiesi a bruciapelo. Lui si fermò strabuzzando gli occhi.

«Stai scherzando vero? Se ci tieni tanto ad andare a un concerto, ti posso portare ben volentieri ad ascoltare i Tigkill, la loro musica è da urlo.»

«Ma leggono anche delle lettere» scandii bene le parole, così da sottolineare l’eccezionalità del caso.

«Lettere di chi?»

«Di chi secondo te? Si tratta di un concerto dedicato a Mozart, dove suonano opere di Mozart, e si leggeranno lettere di Mozart

«Vedi? Non hai nessun senso dell’umorismo» decretò lui.

 -

La musica dell’ Adagio per Glasharmonika k 326 era qualcosa di stupendo: i suoni vibravano nell’auditorium simili ad una cascata di acqua fresca, delicata e leggera per poi spegnersi, sostituite all’istante da altre note. La melodia dapprima melanconica e triste divenne più cristallina e incalzante.

Ascoltavo ad occhi chiusi, seduta in una delle tante comode poltroncine rivestite di velluto rosso, dietro le palpebre serrate scorgevo le note danzare su se stesse, muoversi, creare centinaia di arabeschi colorati.

Il brano - l'ultimo di quella sera - si concluse scatenando uno scroscio di applausi; aprii gli occhi applaudendo con entusiasmo il pianista, che s'inchinò ripetutamente.

«È stato meraviglioso vero?» domandai a Masaki. Stupita dalla mancanza di una sua risposta mi voltai verso il posto accanto a me: il ragazzo dormiva beatamente, le braccia incrociate al petto, la testa reclinata all’indietro.

Lo scrollai malamente, afferrandolo per la spalla.

«Masaki!» lo chiamai alzando leggermente la voce per sovrastare il vociare degli spettatori entusiasti. Il giovane si riscosse appena e, finalmente, al secondo scrollone si svegliò di soprassalto.

«È finito?» domandò con voce impastata spettinandosi i capelli con una mano.

«Perché mi guardi così?» chiese vedendo la mia espressione truce.

«Ti sei addormentato ad un concerto di uno dei compositori migliori del mondo, te ne rendi conto?» esclamai alzandomi e infilandomi il giubbetto. Lui mi imitò soffocando uno sbadiglio e guardò il palco con occhi assonnati.

«Non erano brani da far sentire di sera, soprattutto dopo una giornata di lavoro duro ed estenuante. Prenditela con gli organizzatori, Impe» disse  raccogliendo la sua giacca e indossandola.

«Nessun’altro si è addormentato» ribattei seguendo la fiumana di persone, accalcate all’uscita dell’auditorium.

«La maggior parte è gente che non ha mai sentito parlare di vera musica.»

«Come i Tigkill?» sbuffai sarcastica.

«Esatto. Non puoi nemmeno immaginarti che musica siano in grado di fare, sono una band pazzesca» disse con enfasi.

Una volta che riuscimmo ad uscire dalla calca, l’aria fredda di fine febbraio mi punse il viso, costringendomi a sollevare la sciarpa multicolore fin sotto il naso.

«Chissà cos’avrà pensato la signora seduta accanto a te, quando a metà concerto ti ha sentito russare» borbottai.

«Io non russo» mi fece notare piccato.

«Ah no? Allora immagino che quella che sento russare oltre il muro della mia stanza sia tua nonna» ridacchiai portandomi una mano al mento con fare pensoso.

«Tu invece sei sonnambula.»

«Non è vero» esclamai arrossendo imbarazzata.

Ci guardammo di sottecchi e scoppiammo a ridere, noncuranti degli sguardi straniti che la gente in strada ci rivolgeva.


 ***

11 Marzo 2011

«Sei sicura?» mi chiese Masaki perplesso.

«Certo.» affermai con convinzione.

Ci trovavamo nella stazione della metropolitana, dove un via vai continuo di persone rendeva difficoltoso pure il semplice atto di stare a sentire un Masaki in felpa viola e pantaloni verde bottiglia.

«Dov’è che vai?» domandò, chinandosi appena verso di me cosicché sentissi. Sbuffai; era la terza volta che glielo ripetevo, ed io odiavo ripetere le cose. Ma non poteva di certo essere biasimato, Masaki, se dopo un piuttosto brusco risveglio da parte della signora Kawashi - la quale l’aveva spedito senza tanti complimenti al minimarket vicino perché il latte era finito - fosse in grado di rimanere in piedi e non appisolarsi su qualche panchina.

«Vado fuori Tokyo» ripetei con un profondo sospiro.

«Questo l’avevo capito, ma dove fuori Tokyo?»

«Oh, non ne ho la più pallida idea» dissi tranquillamente, estraendo poi la mia macchinetta fotografica dalla borsa.

«Voglio scattare qualche foto della periferia della capitale. Una volta tornata a casa voglio ricordare tutto di questo soggiorno, sia la Tokyo moderna e bellissima sia le campagne che la circondano» spiegai con un sorriso raggiante.

«Per trovare campagne, qui, devi allontanarti parecchio dalla città» mi avvertì.

«Sarà un’ottima esperienza.»

«Ti perderai.»

Masaki schivò per un soffio un calcio negli stinchi.

«Sono qui già da un mese e oramai credo di aver imparato come funzionano le cose» dissi decisa, «e poi cosa credi? Ho comprato le cartine dei dintorni, e non dimenticarti che ho il navigatore satellitare incorporato nel cellulare, ergo non devi preoccuparti perché non mi perderò, e purtroppo questa sera a cena sarai costretto ad ascoltare tutto il resoconto della mia splendida avventura» conclusi con soddisfazione.

«Considerato il livello della tua sbadataggine perderai mappe e cellulare» disse lui, portandosi una mano alla bocca per nascondere uno sbadiglio.

«Poco male, chiederò informazioni» ribattei.

«Sarei potuto venire con te se solo non avessi un doppio turno al negozio oggi» borbottò.

«Se riesci a lavorare e non ti addormenti prima ovviamente» lo corressi divertita.

«La nonna quando vuole è un’arpia» brontolò, poi frugò nelle tasche e mi porse un portachiavi con un panda. Lo presi interrogativa. Aveva un piccolo pulsante sulla pancia che, se premuto, faceva ruotare la testa del panda facendogli cambiare espressione.

«Perché me lo dai?» chiesi schiacciando più e più volte il pulsante.

«Ci deve essere per forza un perché per tutte le cose?» esclamò esasperato. «Se continui così lo rompi, baka

«Perché mi esce solo la faccina triste?» mi lamentai.

Click. Faccia triste.

Click. La boccuccia del panda piegata in giù.

Click. Gli occhioni grandi e lacrimanti.

«Deve essere un segno» ridacchiò lui.

Borbottando un gentile e ottimista come sempre, assicurai il portachiavi alla borsa a tracolla.

«Ci vediamo questa sera» dissi controllando l’orologio appeso al muro. «Il mio treno parte tra quattro minuti, sarà meglio che vada se non voglio perderlo.»

«Non sarebbe una novità.»

«Io mi rifiuto di parlare con te!» sentenziai voltandomi e allontanandomi a passo di marcia.

«Vedi di non perderti baka, non ho voglia di venire a ripescarti in campagna» mi urlò dietro.

Mi voltai facendogli una linguaccia.


Ore 13.15

Mi ero fermata a mangiare qualcosa in un piccolo bar di un paesino alla periferia di Tokyo, dove, secondo il mio parere, l’ambiente era ancora troppo simile alla capitale, seppur ci fosse meno gente.

Estrassi di tasca il cellulare. Nessuna chiamata. Finii il mio panino e bevvi tutto d’un fiato la mia lattina di cola. Pagai e uscii dal cafè, decisa a fare comunque qualche fotografia alla città, prima di arrivare in stazione, riprendere il treno e allontanarmi ulteriormente.

 


Ore 13.35

Presi posto accanto ad una giovane donna intenta a rimproverare i suoi due bambini troppo esagitati. Il treno non era molto affollato così potei tranquillamente godermi quel breve viaggio senza sentirmi una sardina in scatola.

 


Ore 14.15

Dopo un breve tratto percorso in autobus avevo trovato – finalmente - il mio soggetto fotografico: un paesino immerso nel verde e nella campagna, semplici case, pochi ma allegri negozi e gente dall’espressione bonaria e cordiale, lontana dalla frenetica vita degli abitanti di Tokyo, estranea al suo traffico ed inquinamento.  

 

 

Ore 14.40

Camminavo sovrappensiero per le stradine semi-deserte del paese, avevo gli occhi incollati allo schermo della macchinetta fotografica: duecentoquattro scatti che con qualche modifica sarebbero stati perfetti per essere inserite in un album o meglio ancora  spediti via mail a casa.

Mi arrestai alla foto di uno scorcio, e lo scrutai critica. È venuta storta ed è pure sfocata, pensai, peccato era bella. Feci per schiacciare il tasto delete per cestinarla quando sentii un rombo lieve, come di una motocicletta in lontananza; mi guardai alle spalle ma non c’era nulla.

Il rumore crebbe all’improvviso, un senso di vertigine alla bocca dello stomaco, le gambe mi tremarono terribilmente e vacillai cadendo a terra.

Vedendo persone che uscivano di corsa dalle case urlando e trascinandosi presso bambini e anziani, realizzai con orrore che il rombo proveniva da sotto di me, dai meandri della terra.

Terremoto. La parola mi balenò accecante nella mente, poi tutto divenne bianco e sfocato. Serrai gli occhi, il cuore in gola.

La terra sussultò violentemente una, due, tre, quattro volte prima che tutto si placasse, che la gente smettesse di urlare.

«Ohi! Ohi!» sentii delle voci chiamare all’ordine. Aprii gli occhi; ero a terra, in ginocchio. Non riuscii ad alzarmi: ero scossa da tremiti. Riuscii a malapena a portarmi una mano al viso, mi accorsi che era bagnato di lacrime.

Oh Dio!

  

Ciò che accadde dopo fu confuso e ovattato: volti preoccupati, folle terrorizzate, pianti di neonati, poliziotti che mi chiesero chi fossi, da dove venissi e se mi sentivo bene.

Mi sentivo bene?

Non ne ero sicura, le gambe ancora faticavano a sostenermi.

Mi venne messa in mano una barretta di cioccolato – fondente, ne ero sicura - che mi riportò lentamente alla realtà: mi trovavo in una palestra – c’erano i canestri -, seduta a terra tra centinaia di persone nello mio stesso stato di choc. Rimasi fastidiosamente turbata dal loro comportamento: i bambini piangevano tra le braccia delle madri, ma lo facevano sommessamente, quasi non volessero disturbare; gli adulti indossavano maschere di formalità e di compostezza; gli anziani impartivano lezioni ai più piccoli o narravano episodi di vita passata e favole. Tutto era avvolto in una cappa invisibile che sapeva di normalità e di calma pacatezza, come se un attacco sismico di quella portata non fosse che uno dei tanti inceppi che possono capitare nella vita di tutti i giorni.

Mi venne spontaneo confrontarmi con loro: io ero lì, seduta, tremavo ancora un po' ed ero psicologicamente scossa; loro sedevano composti, parlavano piano con i propri vicini, non facevano nulla che turbasse l'ambiente e lo stato di stasi. Ammirai una volta in più quel popolo strano - strano era forse l'aggettivo sbagliato -, che persino in situazioni come quella manteneva la calma.

Mi chiesi cosa stessero pensando, se stessero versando bollenti lacrime amare dentro sé stessi, se stessero pregando qualche dio. Alcuni notavano il mio sguardo che indugiava curioso e indagatore su di loro, e sorridevano. Non spostavano lo sguardo né mi maledicevano seccati, mi sorridevano semplicemente. Arrossivo vergognosa e mi  sentivo già più tranquilla.

Dovette passare qualche mezz’ora – perché finii tutta la cioccolata dopo averla mangiata lentamente, pezzetto dopo pezzetto - prima che un poliziotto mi raggiungesse e mi chiedesse, con un tono rassicurante, di mostragli un documento.

Presi dalla borsa il passaporto e il documento dell’università che attestava la mia permanenza in Giappone per un soggiorno studio, estraendoli mi capitò sotto gli occhi il portachiavi di Masaki: l'espressione del panda era triste.

Deve essere un segno, aveva detto Masaki quella mattina. Mi morsi lingua per non piangere.

«Venga signorina, la riaccompagneremo a casa presto. Deve solo pazientare ancora un po’» così dicendo mi prese delicatamente per un braccio e mi aiutò ad alzarmi.

-

Infiniti controlli e altrettante spiegazioni dopo, raggiunsi la centrale della polizia di Tokyo attorno alle 22.00, insieme ad altre trenta persone che avevano parenti nella capitale.

Capii dall’aria tesa e agitata, dalle parole secche e bisbigliate delle persone che la scossa doveva essersi sentita anche lì.

Si parlava di una scossa di 9.5 della scala Richter, di città rase al suolo, di allerta nucleare, di onde alte dieci metri, di stato di emergenza.

Ascoltavo distrattamente i brandelli dei discorsi che arrivavano alle mie orecchie; desideravo solamente tornare dalla signora Kawashi e da Masaki, mangiare e andare a letto per chiudere gli occhi e riposare, per dimenticare tutto. Mi sentivo stanca, sfinita.

Venni accompagnata a casa Kawashi solo verso mezzanotte, dopo aver parlato con un esponente dell'ambasciata italiana. Le luci della cucina erano ancora accese, e mentre l’agente di polizia mi faceva scendere dalla macchina, mi accompagnava alla porta e suonava il campanello, mi sentii in colpa per non aver nemmeno provato a chiamarli, non ci avevo nemmeno pensato.

La porta si spalancò subito e la signora Kawashi comparve sulla soglia, vestita di tutto punto, i capelli in ordine ma con il volto stravolto dalla preoccupazione. Mi prese il viso tra le mani rugose e mi chiese se mi sentissi bene.

Perché tutti con questa domanda? pensai sfibrata.

«Entra, entra mia cara, ti preparo una bella zuppa calda, che ne dici?»

Mi spinse gentilmente dentro casa, iniziando a parlare con l’agente.

Oltrepassai l’uscio avvertendo il nodo alla gola sciogliersi, raggiunsi il salotto e mi ritrovai tra le braccia di Masaki.

«Impe! Grazie al cielo stai bene! Ci sono stati un sacco di feriti e dispersi e il tuo cellulare non era raggiungibile» esclamò e disse molto altro che però non sentii. Scoppiai in lacrime, riversando tutta la paura, la stanchezza e la tensione nella sua felpa viola.

 

Urla, pianti, il terremoto.

Solo un incubo.

 

Un piatto di zuppa, Masaki, una bella dormita.

Banale normalità.

 

 

Cosa chiedere di più?

 

hiccup's corner:

Questa one-shot ha visto luce dopo quasi quattro mesi di incubazione, rincipalmente perchè sapevo di voler affrontare il tema del terremoto in Giappone, ma non sapevo comeaffrontarlo. Ho iniziato a scrivere pensando con timore al finale, non volevo fosse nulla di fantasmagorico o di particolarmente crudo e scarno... e inevitabilmente è soppraggiunto il blocco d'autore. Sono riuscita a riprendere in mano la situazione solo dopo tre mesi e -finalmente- ho scritto il mio finale. Sono cosciente del fatto non sia quel granchè. Mi dispiace.
Per quanto riguarda la lunghezza ho preferito non suddividere il racconto, in quanto -a mio parere- avrebbe perso omogeneità. Mi scuso pertanto se la lettura fosse risultata tediosa e noiosa. 
Mi preme dire, inoltre, che ho scritto questo racconto perchè mi sentivo di scriverlo; non ci sono altri fini.
Uhm... mi pare di aver finito ^^''
Perciò ringrazio di cuore chi leggerà e chi nel bene e nel male (sì voglio delle critiche :3 perchè ho ancora tanta strada da fare, e probabilmente qualche errore di ortografia e /o battitura mi sarà scappato ç.ç) commenterà.
Oh e perdonate anche queste note di ben poca dignità letteraria!

E grazie ancora. 

See ya =3

 

 

  
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