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Autore: _Shantel    02/07/2011    12 recensioni
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 5
Jealousy

Il pallone rotolava verso di me, come ipnotizzato dai miei passi calcolati e sicuri. Sembrava sapere che i miei piedi lo avrebbero accarezzato, accompagnato, lambito come si fa con il corpo di un’amante calorosa.
Ero fatto così, amavo due cose nella vita: il pallone e le donne.
«A Leonà! Passa un po’ ‘sta palla!» mi ordinò Daniele, affiancandomi al centrocampo e dirigendosi verso la porta.
Era soltanto una semplice partita d’allenamento sul campetto di Trigoria –titolari contro riserve– ma ogni partita per me era come una sfida che dovevo vincere a tutti i costi. Che si trattasse di match di campionato, di champions, di coppa, anche una stupita partita a Fifa.. persino stare con Celeste era diventata una sorta di sfida.
Leonardo Sogno era competitivo, su questo non c’erano dubbi.
Ignorai il suggerimento fattomi da ‘Capitan Futuro’ e proseguii verso l’area delle riserve, puntando dritto contro il portiere in seconda.
Dribblai Simone, poi evitai l’entrata in scivolata di un ragazzino della primavera di cui non avrei mai ricordato il nome. Alzai lo sguardo e davanti a me vidi soltanto la rete bianca e morbida della porta avversaria.
Ero pronto a caricare il tiro, a infossare i tacchetti degli scarpini nell’erba morbida del campetto e a concentrare tutta la mia attenzione all’incrocio dei pali, dove avrei piazzato il mio sinistro.
D’improvviso davanti ai miei occhi comparve una sorta di velo, come se la mia vista fosse stata improvvisamente offuscata, e al posto di Alex, apparve Celeste con la maglietta e i pantaloni bagnati, come quando l’avevo incontrata la prima volta, dopo averla inzuppata con la moto. L’unica differenza era che sul suo volto rotondo non c’era alcun cipiglio infuriato, né quel suo broncio alla Brontolo dei sette nani.
Se ne stava appoggiata al palo bianco della porta, con la maglietta bagnata che le aderiva quel seno teso, tanto che riuscivo a vederne i capezzoli turgidi che le tiravano la stoffa di cotone leggero e dannatamente trasparente.
Mi guardava con quegli occhi azzurrissimi, ma il mio sguardo era rapito dalle sue labbra rosse e piene che venivano assaggiate e morsicate, alternativamente, dai suoi denti bianchissimi.
Ehi, amico? Cosa diavolo ti prende? È possibile che la vera Celeste possa essere spalmata sul palo della porta di un campo di calcetto, manco fosse una lap-dance?!
E fu in quel momento, dopo che ascoltai il mio saggio ego, che compresi di aver avuto una maledettissima allucinazione. Nel giro di qualche secondo, Simone mi portò via la palla ed io rimasi inebetito e immobile davanti ad Alex che mi fissava allibito.
«Ma che cazzo fai?!» mi urlò Daniele infuriato.
«Te sei addormentato o cosa?!» sbraitò Aleandro.
Tentai di dare spiegazioni, ma dalla mia bocca uscì solamente aria e per la prima volta nella mia vita mi ritrovai senza parole per replicare.
«Fatti meno seghe la prossima volta» ridacchiò Simone, dandomi un colpetto sulla spalla.
Scrollai la testa nemmeno fossi una mucca, poi tornai a correre al centro del campo, meritandomi un’occhiataccia da parte del Mister.
Non appena passai vicino ai piccoli spalti che circondavano il campo d’allenamento di Trigoria, non potei fare a meno di rimanere accecato dalla capigliatura fulva e luminosa del migliore amico di Celeste.
«Pittore sei un mito!» gridò come un forsennato, con gli occhi verdi fuori dalle orbite. «Chissene fotte di quegli stronzi! Non ti curar di loro!».
Ma che s’era fumato prima di venire lì?
Innanzitutto da quando lo avevo coinvolto nella mia fitta rete di bugie, non passava un minuto che non ricevessi una sua telefonata in cui mi diceva per filo e per segno, tutto fomentato, che aveva trovato un nuovo modo per infittire meglio la trama della nostra ‘presunta’ amicizia.
Mannaggia a me e a quando gli avevo dato il mio numero di telefono privato..
«Grazie» mormorai con un sorriso stiracchiato, poi, appena dietro il roscio, vidi un Ruben particolarmente irritato all’idea della presenza di quell’intruso.
Avevo a mala pena avuto il tempo di parlargli di Romeo, che già ero dovuto scappare agli allenamenti e il mio vero migliore amico non l’aveva presa poi tanto bene.
Ruben Canilla era fatto così. Sin da quando avevamo frequentato l’istituto tecnico industriale –ma ‘frequentare’ per me, era una parola grossa– ci eravamo trovati subito sulla stessa lunghezza d’onda. Ovviamente lui non era un figo come il sottoscritto, perciò quando mi serviva una mano in algebra, lui era sempre disponibile e quando voleva uscire con qualche gnocca, io gli fornivo i numeri di telefono delle mie infinte spasimanti.
E così si era evoluta un’amicizia solida, rafforzata, poi, dalla passione per il calcio e alla sua bravura nel risultare simpatico alla gente. Nonostante fosse balbuziente, agli incontri di lavoro con i reclutatori dei club più importanti riusciva a superare la paura e gli usciva una parlantina talmente fluida che avrebbe fatto invidia ad un oratore.
Così era diventato il mio manager e da allora abbiamo continuato a vederci per diversi motivi, fino a condividere lo stesso appartamento.
«A’ Sogno, e movite!» mi esortò il Capitano in persona, stavolta.
Non avevo fatto una gran bella figura davanti alla porta, questo era certo, ma per fortuna si trattava di una partita d’allenamento. Chissà cosa sarebbe accaduto in campionato? Non volevo nemmeno immaginarlo.
Dovevo risolvere al più presto il problema-Celeste, quello era poco ma sicuro.
L’unica nota dolente stava nel fatto che non avevo la minima idea di come venire a capo di quella spinosa situazione!
Era cominciato tutto per un gioco, e su questo punto non ci pioveva, ma allora per quale motivo continuavo a sentire il bisogno smisurato di vederla di nuovo? Non era ricca, non era famosa, e nemmeno tutta ‘sta bellezza! Cosa ci guadagnavo con lei?
Vedi, Leo.. è ovvio che stare con una squinzia magra come un manico di scopa e acida come lo yogurt non ti porterebbe ad alcun giovamento, no?
Però mi fa ridere.
Capirai! Anche Ruben fa ridere, ma mica te lo immagini tutto eccitato che ti guarda da bordo-campo!
Rabbrividii al pensiero del mio migliore amico con solo il costume adamitico addosso, che mi fissava con uno sguardo sognante, poi mi stropicciai gli occhi, mi asciugai il sudore con il bordo della maglia e decisi che era venuto il momento di accantonare Celeste e concentrarmi su quello che più amavo fare al mondo: giocare a pallone.

«A-a-ami-amico s-sei sta-stato una f-forza!» esultò Ruben, abbracciandomi dopo che uscii dagli spogliatoi con la borsa a tracolla e un profumo di borotalco che emanavo.
«Grazie» gli risposi, stringendogli la mano e sbattendo ‘spalla contro spalla’, con il saluto tipico degli americani ganzi.
«A-.. a.. a.. a p-arte quel piccolo e-.. e… e-rrore!» sputò fuori, infuriato con se stesso per non riuscire a parlare correttamente. «C-che t-t-t-i è pr-pre-.. preso?» mi domandò, ma io tentai di evitare il suo sguardo per non entrare in argomento.
«In una parola: FANTASTICO!» gridò il roscio tutto eccitato.
Accorse camminando un po’ sbilenco, mentre continuava a fotografare tutto con la digitale, per immortalare quel mondo di cui avrebbe volentieri voluto far parte. Addirittura si mise a scattare istantanee dei fazzoletti utilizzati dai miei compagni di squadra, prendendone addirittura dei ‘campioni’ e imbustandoli nemmeno fossimo sulla scena di CSI.
«Capirai» risposi strafottente, abituato a ricevere complimenti ad ogni ora del giorno.
«No, no! Dico sul serio!» esultò in completa fibrillazione. «Ogni cosa qui è fantastica, cominciando dalle aiuole lì in fondo e finendo col mitico campo da calcio dove si allena la Magica!».
Roteai gli occhi verso l’alto, stufo di tutta quella esagerazione soltanto per uno stupido allenamento tra titolari e riserve. Avevo ben altri problemi per la testa, e quasi tutti iniziavano per C.. e finivano con –eleste!
«O-o-oggi h-hai l’.. l’..l’..» tentò di dirmi Ruben, controllando l’agenda che teneva tra le sue tremolanti mani.
Senza alcuna cattiveria gliel’afferrai e lessi l’appunto da solo. «Altrimenti ci facciamo notte!» gli risposi, ridacchiando e Ruben mi regalò un sorriso forzato, per poi sprofondare in quella sua timida vergogna.
«Oggi ho l’intervista con Studio Sport, dopodiché la ceretta da Renza e..».
«Momento, momento, momento!» se ne uscì Romeo, dopo aver origliato, ovviamente, tutto quello che ci eravamo detti. «T-ti fai davvero la ceretta?! Come una donna?».
Lo fulminai con lo sguardo, quasi desiderando che quella sua testa rossa prendesse fuoco come quella di un prospero. «Che hai detto, scusa?» lo minacciai.
Il rosso si sentì improvvisamente in colpa e avrebbe volentieri preferito prendersi a morsi la lingua invece di ripetere quello che il suo neurone solitario gli aveva fatto dire senza pensare.
«Niente?» tentennò, ma ormai c’era ben poco da fare.
Visto che la giornata era cominciata col piede sbagliato, c’era soltanto un modo per dimenticarmi di quell’episodio: buttarmi a capofitto negli impegni, senza avere un attimo di tempo per pensare a..
Celeste.. vogliamo smetterla?
«Hai impegni per oggi pomeriggio, Rosso?» chiesi in direzione del babbeo.
Quello deglutì a vuoto, terrorizzato. «N-no.. credo..».
Un sorriso furbo affiorò sul mio viso e pregustai una giornata all’insegna del divertimento, da soprannominare Don’t thinking to Cel-day.
«Prendi le chiavi, Ruben» ordinai al mio amico. «Credo che l’intervista possiamo rimandarla».
Quando raggiungemmo il parcheggio, il bianco scintillante della mia Audi TT spiccava tra le altre automobili sportive di proprietà dei miei compagni di squadra, tranne che per un pandino rosso tutto sgangherato, parcheggiato metà fuori e metà sopra il marciapiede, con il parafango tenuto insieme da un laccio per le scarpe e dello scotch da pacchi in quantità industriale.
«E quel cesso da dove è spuntato fuori?!» chiesi senza pensare.
«V-veramente q-quel ‘cesso’ è la mia m-macchina..» disse timidamente Robbeo, facendosi piccolo piccolo.
Non avevo intenzione di essere così sgarbato, ma per salire sul quel macinino dovevi farti prima l’antitetanica, dopodiché ci voleva un gran bel coraggio per chiamare quel rottame ‘macchina’. Mi sarei stupito se, una volta saliti, il rosso non avesse tirato fuori i piedi e avrebbe spinto il pandino come Fred Flinstone!
«Se non ti dispiace, prendiamo la mia» dissi tutto spavaldo, facendo trillare l’allarme e i fanali dell’Audi s’illuminarono tra la massa di bestioni ruggenti.
«F-figurati..» balbettò quasi con la bava alla bocca, e quando ci avvicinammo all’automobile toccò più volte la vernice bianca metallizzata per rendere concreto quello che, altrimenti, gli sarebbe sembrato un sogno.
«Vuoi sederti davanti?» gli domandai, più che altro per salvaguardare la tappezzeria nel caso quel babbeo soffrisse di mal d’auto.
Ruben mi fissò con gli occhi sgranati, aspettando con trepidazione la risposta di Romeo.
«Sarebbe un onore!» trillò come una scolaretta, e ci mancava poco che si mettesse a zompettare tutto intorno all’Audi, trotterellando sino al posto del passeggero.
Lo sguardo di Ruben era sgranato, tanto che pensai si stesse per strozzare. Gli restituii uno sguardo comprensivo, ma quando salì sui posti di dietro sembrò che stesse per andare al patibolo.
«Allora si parte!» dissi, girando le chiavi nel cruscotto e facendo rombare l’Audi.
«OSignoreSantissimissimo! Avrà un esercito di cavalli ‘sto gioiellino!».
Robbeo era eccitato come un bambino in un negozio di giocattoli, ma non appena ci saremmo mossi, ero sicuro che non sarebbe più stato in sé.
Pigiai sull’acceleratore e feci da zero a cento in meno di un minuto e mezzo, facendo spiaccicare il Rosso e Ruben sui rispettivi sedili di pelle nera. Così come sulla mia Ducati, anche viaggiando su quattro ruote adoravo sentire il motore rombare sotto il sedile e fremere come..
Celeste..
No! E a quel punto presi una curva con un po’ troppa velocità, rischiando quasi di farci cappottare, per poi riprendere il controllo del mezzo.
«C-che.. ch-che.. t-ti è sal-saltato in m-mente?!» sbottò Ruben terrorizzato.
«Amico, credo di essermela fatta addosso» confessò Romeo.
Lo fissai con gli occhi sgranati, ma lui mise le mani avanti. «Scherzo!».
Misi entrambe le mani sul volante e tornai a guardare la strada, ignorando le tentennanti proteste di Ruben. Nonostante fosse il Don’t thinking to Cel-day, avevo già sforato tirando fuori il suo nome prima del tempo.
Che diavolo ti sta succedendo, bello? Dov’è finito Leo il ‘trivellatore’? Sogno il ‘punitore’ di ragazze cattivelle e birichine? Quante ne hai massacrate da quando hai incominciato ad usare l’arnese?
Fin troppe. Della maggior parte non ricordavo nemmeno il colore degli occhi, visto che me l’ero scopate durante delle trasferte, e se dovevo essere sincero non ricordavo nemmeno l’ultima volta che mi ero innamorato. Effettivamente Leonardo Sogno non aveva tempo per l’amore, troppo impegnato dal successo e dalla fama che gli portavano via ogni minuto della sua meravigliosa vita.
Il resto del viaggio proseguì silenzioso, più che altro perché i miei due compagni avevano paura di distrarmi ancora e incorrere in un imminente incidente automobilistico. Ovviamente non sapevano la vera ragione delle mie continue distrazioni.
Arrivammo da ‘Renza’ alle 17.00 spaccate e riuscii a trovare parcheggio in poco tempo, facendo trillare ancora una volta l’allarme, mentre tutti i ‘mortali’ –come chiamavo io la gente normale– si voltavano stirandosi i muscoli del collo per vedere quale razza di figo usciva fuori da un portento di macchina del genere.
Per chiunque aveva la visuale dalla parte del guidatore, si beò del sottoscritto, con tanto di giacca di pelle semi-sbottonata e jeans a vita bassa che lasciavano intravedere una V pubica quasi al limite della decenza, mentre per chi si era voltato dalla parte del passeggero.. beh.. quello che uscì fuori era paragonabile al ‘The Rocky horror picture show’.
Romeo uscì dall’Audi con delle movenze in stile rallenty, seguito da Ruben che si tolse gli occhiali da vista scuotendosi i capelli selvaggi, manco fosse Kevin Kostner. La pelle lattea e lentigginosa del Rosso era più accecante di una luce al neon, per non parlare degli occhi da talpa che Ruben apriva e chiudeva, sbattendo le ciglia, quasi come Betty Boop.
Erano una coppia assortita meravigliosamente, e fungevano alla perfezione come paragone con la bellezza e la sensualità che emanava il sottoscritto.
«Sei in anticipo, Campione!» trillò Renza, venendomi in contro con la sua pelata lucente e quei pantaloni che nemmeno la checca più altolocata di Roma avrebbe mai indossato.
«Lo so, ma ho voluto portare un amico» sorrisi sghembo, aspettando l’entrata trionfale di Romeo.
Renza, o meglio Renzo, aveva il salone estetico più inn della Capitale, ma un posto per il suo Campione riusciva sempre a trovarlo. Stravedeva per il sottoscritto, sia perché era un fan sfegatato della Magica, sia perché era follemente innamorato dei calciatori e del loro modo perverso –parole sue– di fare la doccia tutti insieme.
I suoi occhi s’illuminarono quando pronunciai la parola ‘amico’ e la sua testolina senza nemmeno un capello sicuramente si stava figurando il peggio attaccante/strafigo-sexy.
Ovviamente quado Romeo fece la sua comparsa lo accecò, certo, ma non per la sua bellezza, bensì grazie a quella chioma di un rosso fiamma.
«Ioui» disse disgustato, tentando di non dare troppo a vedere la sua delusione.
«Qualcosa che non va, Renza?» gli chiesi soffocando una risata.
«No, no, ci mancherebbe fiorellino mio» sospirò. «Cosa posso fare per un Dio greco come te e per la tua.. ehm.. bertuccia?».
«Ehi, modera i termini!» si offese Romeo, ma io lo zittii subito.
Non eravamo venuti lì per litigare, ma soltanto per un rilassante trattamento che mi avrebbe tolto per sempre lo stress da Celeste.
«Volevamo un trattamento completo per me e per.. ehm.. lui» dissi perentorio, cercando di non scoppiare a ridere di fronte al modo in cui Robbeo stava fulminando Renza.
Il pelato sospirò, poi sbatté due volte le mani. «Ragazze! Ragazze! Forza! Abbiamo due clienti, sbrigatevi! Trattamento speciale!».
Dalla tenda di velluto rossa alle sue spalle uscirono una decina di ragazze, dei più svariati tipi. Ce n’erano di rosse, di more, di brune.. italiane, svedesi, giapponesi.. alte, basse, piatte o formose, ma tutte indossavano la divisa ufficiale del centro estetico: una misera gonnellina inguinale e un top striminzito.
«OSignoreSantissimo!» esclamò Romeo, e per poco non gli uscì il sangue dal naso.
Era la seconda volta in un giorno che gli sentivo dire quell’esclamazione, ma dopo questa visione ci stava tutta. Ruben salutò timidamente le signorine che gli rivolgevano occhiate languide e risolini al limite dell’udibile, ma da gentiluomo qual era, non si faceva mai prendere troppo la mano.
Ci accompagnarono su dei lettini, dopodiché ci lasciarono un po’ d’intimità per liberarci dei vestiti e indossare soltanto un micro-asciugamano per coprire giusto le parti intime.
«E cosa dovremmo farci con questo?» mi chiese Romeo, fissando dubbioso quel misero pezzo di stoffa.
«Metterlo in bocca per non urlare dopo quello che ti faranno le signorine dall’altra parte» ridacchiai godendomi tutte le espressioni che mostrò la faccia del Rosso.
Prima ci fu la volta dello sconcerto totale, poi cambiò in un sorriso soddisfacente, fino a che non gli apparve un’aria del tutto persa nella beatitudine.
«Stavo scherzando, Rosso, non ti scaldare!» gli confessai infine, vedendo apparire la delusione come espressione finale di quel cangiante arcobaleno che era la sua faccia lentigginosa.
Appena finii di parlare, apparvero le massaggiatrici che ci fecero stendere sul lettino e dedicarono a noi tutta la loro attenzione. Mentre le mani sapienti di una giapponese mi andarono a sciogliere la tensione accumulata sui deltoidi, un’altra ragazza preparò la cera calda da applicare sulle gambe.
Okay, non vi venga in mente che lo facessi per una questione estetica, è ovvio! Ma i fisioterapisti chiedevano espressamente che per facilitare i massaggi ci fossero meno ‘ostacoli’ possibili, così mi facevo la ceretta ogni tanto.
«Ora potrei anche essere morto» commentò Romeo, sospirando quando la massaggiatrice cominciò a rilassargli le spalle.
«D-doma.. d-domani hai l-la gio-giornata p-piena di imp-.. impegni!» s’inserì Ruben, sovrastando la voce del Rosso e piazzandosi davanti alla mia visuale, quasi come se non lo considerassi più.
«Ruben, levati» gli intimai. «Stai coprendo il culo stratosferico di quella lì» mormorai, riferendomi ad una rossa di spalle che ancheggiava con un mp3 nelle orecchie.
«I-in q-qualità.. d-di t-tuo.. m-manag-manager.. h-ho..».
«Ha ragione il Pittore, leva quelle quattro ossa secche che ti ritrovi e facci godere il panorama!» si aggiunse Romeo, e per quell’intervento guadagnò qualche altro punto ai miei occhi.
«T-tu.. t-tu..tu-tu..» tentò di intimargli, puntandogli il dito contro.
«TU-TU-TU» ridacchiò Romeo. «Che sei ‘occupato’ come il telefono?».
E a quella battuta seguì uno scroscio di risa anche da parte delle ragazze di Renza, ma tutto quel chiacchiericcio attirò l’attenzione di ‘Chiappe d’oro’ che si voltò e quando i miei occhi incontrarono il suo viso, per poco non rotolai giù dal lettino.
«Cos’è questa cosa calda sulle gambe?» domandò Romeo, ma io tentavo in tutti i modi di nascondermi dallo sguardo cristallino di lei.
«OGesùSantissimoNell’AltodeiCieli!!!!!!» gridò poco dopo, quando Katiusha strappò la prima striscia e si portò dietro un quantitativo di peli rossicci riccioluti e folti come la foresta amazzonica.
«Male?» ridacchiò, seguita dalle altre ragazze di Renza.
«Ma guarda chi abbiamo qui?» sospirò la rossa, avvicinandosi con passo deciso sulle sue Chanel tacco dodici e spostando Lin-Su con pochissima gentilezza. «Leonardo Sogno in persona!».
Annalisa Cavalli non era una ragazza qualunque, era una dannata piattola! L’unica ragazza che mi fossi sbattuto e di cui mi ricordavo stranamente ancora il nome, più che altro perché il giorno dopo me l’ero trovata sotto casa con impermeabile e occhiali da sole, manco fosse una spia assoldata dalla CIA.
Un rifiuto per lei era inaccettabile e non so chi me l’avesse tirata, ma s’era fissata col sottoscritto tanto che ci mancava poco progettasse il matrimonio del secolo. Il fatto è che non potevo nemmeno dirle ‘addio’ da un momento all’altro, perché come se non bastasse, era anche figlia di uno dei maggiori azionisti della società A.S. Roma e il presidente era stato chiaro: chiunque avesse fatto soffrire la sua bambina, sarebbe finito ad allenare la squadra dei pulcini.
«È da tanto che non ci vediamo, eh, pittore?» disse sorridendo e guardandomi maliziosa.
In quel preciso istante, Romeo resuscitò dal suo dolore mistico e si fiondò con la mano tesa in direzione di Annalisa.
«Tanto piacere, io so’ Romeo, er più figo der Colosseo!» si presentò il Rosso e pregai tutti i Santi che non usasse davvero quella squallida battuta per rimorchiare in giro.
Annalisa lo fissò con disgusto, mentre ritraeva le mani il più lontano possibile da Romeo, quasi avesse la lebbra.
«Chi è questa mozzarella?» mi domandò schifata, offendendo il poveretto senza curarsi che potesse sentire ogni sua parola.
«Annalisa è un vero piacere vederti!» esclamai, con un sorriso finto come la moneta da tre euro. «Che ci fai da queste parti?».
Lei si scostò una ciocca fulva dal viso e sospirò. In quel preciso istante mi accorsi di quanto il colore dei capelli di Annalisa fosse accecante tanto quanto quello di Robbeo. Almeno quei due avevano qualcosa in comune.
«Sabato darò un party e ho invitato un po’ di gente, ti va di venire? Ci sarà anche tutta la squadra» mi propose e l’idea di una festa piena di alcol e ragazze mi allettava, ma la presenza di Annalisa era urticante e non sapevo cosa rispondere.
«Io ci sarò!» annunciò Romeo, ma la ragazza non era poi così d’accordo con lui.
«Vorrei che tu ci fossi!» mi chiese, quasi sull’orlo di una crisi isterica.
Adesso ci voleva il lampo di genio. Non potevo declinare l’invito della figlia del presidente della squadra per cui giocavo, ma non potevo nemmeno gettarmi direttamente tra le sue braccia.
Ti servirebbe un escamotage..
Certo, qualcosa o qualcuno che mi protegga dalla sanguisuga..
Magari più ‘qualcuno’ oppure.. qualcuna..
Certo! Una tizia che faccia finta di essere la mia ragazza!
E chi meglio di una biondina di nostra conoscenza?
Chi? Celeste?
Era un’idea davvero folle, ma l’unica cui il mio cervello dalle limitate possibilità potesse arrivare. Sapevo che convincere Celeste sarebbe stata un’impresa titanica, quasi più di quella di far fidanzare un prospero come Robbeo, ma tanto valeva tentare.
«Può venire anche la mia ragazza?» chiesi e dopo quelle mie parole, sia Ruben, Robbeo e Annalisa si strozzarono all’unisono.
«R-ragazza?» ripeté incredula la rossa. «N-non l’ho letto su n-nessuna rivista!».
«È nuova!» intervenne Robbeo, a mia difesa. «Ma io sono disponibile!».
E così, dopo uno sguardo sconfitto di Ruben, cercai di prepararmi un discorso per sembrare convincente con Celeste, anche se ormai mi risultava più facile mentire che respirare.



Afferrai il mio vassoio e mi voltai per scrutare da cima a fondo la mensa dell'Università alla ricerca di un posto appartato per me e il mio subconscio. I tavoli, ovviamente, erano tutti occupati e, come se non bastasse, dei cafoni maleducati mi spingevano senza ritegno e senza premurarsi, nemmeno, di chiedermi scusa. Più di una volta rischiai di rimanere senza la mia insalatona che era in bilico sul vassoio, indecisa se schiantarsi al suolo o essere pappata dalla sottoscritta.
Presi un respiro profondo, più che altro per reprimere la voglia di prendere a calci quei maleducati e mi aggirai tra i tavoli come un'anima in pena.
«Possibile che non ci sia UN posto libero? Ah, io di certo in piedi non mangio, con tutti quei cafoni pronti ad urtarti e a farti perdere il pranzo! E non hanno nemmeno la decenza di scusarsi! Dovrebbero fare un corso accelerato di educazione quei trogloditi» borbottai tra me e me, attirando gli sguardi dubbiosi degli studenti che mi osservavano come se fossi appena uscita da un manicomio.
Non mi curai di loro, ma continuai la mia ricerca. Trovare un posto in quella mensa era più difficile di un'impresa di Indiana Jones. Mi armai di pazienza, la mia nemica con la quale ero in conflitto da quando avevo emesso il primo vagito e percorsi in lungo e in largo quel posto, nemmeno stessi cercando un indizio per incastrare un assassino.
Rimasi all'incirca dieci minuti a vagare senza meta, con la pazienza che ormai era scappata, impaurita dal mio nervosismo crescente e dando ulteriori prove della mia poca sanità mentale, fino a quando delle dolci anime pie si alzarono da un tavolo, lasciandolo libero. Mi si illuminarono gli occhi e mi fiondai verso l'oggetto del mio desiderio, lanciandovi sopra il vassoio prima che qualche furbone me lo rubasse da sotto il naso. Finalmente potevo sedermi e dare cibo al mio povero stomaco che reclamava da più di un'ora. Condii l'insalata, fulminando con lo sguardo chiunque si avvicinasse al mio amato tavolo con l'intenzione di chiedermi se i posti erano liberi. Non volevo estranei casinisti seduti accanto a me mentre mangiavo, avevo bisogno della mia tranquilla solitudine.
Mescolai quell'arcobaleno di ortaggi, prima di inforchettare un pomodoro e gustarmelo. Quando alzai lo sguardo dal mio pranzo, non potevo credere ai miei occhi. Ruben era lì, nella mensa dell'Università e si stava avvicinando a me con un vassoio in mano e il suo immancabile sorriso di sbieco. Camminava quasi a rallentatore, senza staccare il suo sguardo magnetico da me. Indossava una camicia bianca sbottonata che svolazzava leggiadra e che lasciava scoperto il suo fisico mozzafiato. Sotto, un paio di jeans talmente a vita bassa che, per poco, non mostrava la sua bandana. Spalancai la bocca e per poco la mascella non sfiorò il terreno, mentre la forchetta di plastica mi era caduta dalle mani.
Celeste, svegliati! Ti pare possibile che quel decerebrato di Ruben frequenti un posto cervellotico come questo?! Non sa nemmeno pronunciare correttamente la parola Università, ancora un po'! E per di più non verrebbe mai qui conciato da bad sexy guy, non credi?!
Scossi la testa, risvegliandomi da quello strano sogno ad occhi aperti, facendo sfumare l'immagine accattivante di Ruben. Al suo posto, però, apparve un J sorridente che raggiunse il mio tavolo, sedendosi di fronte a me.
Cavoli, sei messa male se vedi J come se fosse Ruben! Ti stai proprio rimbambendo! Dovresti smettere di studiare tutte quelle ore, il tuo cervello si sta fondendo.
«Mangi tutta sola?» mi domandò con un sorriso.
«In verità sono in compagnia dell'uomo invisibile» risposi ironica.
«Ah! E dove è seduto?» chiese sarcastico.
«Proprio sotto il tuo deretano!» ridacchiai.
J si alzò di scatto e si portò una mano sul cuore, assumendo un'espressione di rammarico.
«Mi scusi uomo invisibile, non l'avevo proprio vista!» si scusò con la sedia, prima di trafiggermi con i suoi occhi azzurri come il cielo estivo e scoppiare a ridere.
Oltre ad essere bello ed intelligente è anche simpatico!
La sua stupenda risata mi mandò completamente in visibilio e, piano piano, sentii le guance prendere fuoco. Quasi nessuno riusciva a farmi arrossire, a farmi rincitrullire completamente e farmi perdere qualsiasi mia lucidità. J era uno dei pochi ad avere quello strano effetto su di me. Ogni volta che incontravo i suoi occhi cristallini, perdevo il mio autocontrollo e la mia amata acidità, trasformandomi in un'altra ed irriconoscibile Celeste. Come avevo solo potuto immaginare che J si fosse trasformato in Ruben tutto d'un tratto? Jean Philippe era di un altro pianeta rispetto a quel cavernicolo tutto muscoli e niente cervello.
Però i muscoli di quel troglodita ti sono piaciuti, ammettilo Cel! Non gli hai staccato gli occhi di dosso un attimo durante il servizio per Vogue! E non mentire dicendo che eri schifata, in realtà, perché saresti più bugiarda di Pinocchio.
Sì, ok. Forse Ruben aveva un fisico migliore rispetto a quello di J, anche se quest'ultimo non lo avevo mai visto senza maglietta e forse il cavernicolo, fisicamente parlando, non mi era indifferente, ma cerebralmente era paragonabile ad un'alga galleggiante.
«Scusami se stamattina non sono venuto in prima fila» disse mortificato, tornando a sedersi «I miei amici mi hanno trattenuto»
«Ma no, figurati» risposi, stringendomi nelle spalle «Stai tranquillo»
J mi sorrise, facendomi avvampare nuovamente e cominciò a mangiare il piatto di pasta che era il suo pranzo. Le sue labbra erano così carnose e rosee e si muovevano sinuose, sensuali, lungo la forchetta di plastica. I suoi occhi verdi si alzarono dal piatto di pasta e mi guardarono maliziosi, mentre la punta della lingua gli solleticava l'angolo bella bocca.
No, fermi tutti! Facciamo un passo indietro.
Occhi verdi?! J li aveva azzurri! E quegli occhi color smeraldo intenso li aveva solo Ruben. Davanti a me, ancora una volta, mi era apparso il viso malizioso di quel bell'imbusto.
«Vuoi vedere il mio amico?» ammiccò, lanciando un'occhiata fugace verso il basso.
Sgranai gli occhi e per poco non mi soffocai con la mia stessa saliva.
«Co-cosa hai de-detto?!» balbettai incredula, paonazza.
«Dov'è finito il tuo amico?»
Chiusi gli occhi e scossi la testa per allontanare dalla mia mente l'immagine seducente di Ruben. Oddio, cominciavo ad avere delle orribili allucinazioni e la cosa era preoccupante, anche perché mi immaginavo Chicco che mi faceva delle proposte indecenti.
«Ehm...Ro-Romeo?» domandai.
«Il tizio buffo con i capelli rossi» spiegò J, sorridendo.
«Ro-Romeo è all'ospedale. Sua nonna è stata male e lui è andato a trovarla» risposi, ancora scossa per l'immagine di Ruben-stile-attore-porno.
«Oh mi dispiace» soffiò «Comunque, c'è qualcosa che non va, Cel?» domandò preoccupato, guardandomi con un sopracciglio abbassato.
Sì, c'è qualcosa che non va e quel qualcosa ha pure un nome orribile, ossia Ruben.
«No tranquillo. Sto bene» risposi e J annuì poco convinto, scrollando le spalle.
Non riuscivo a capire il perché quel pallone gonfiato continuava a tormentarmi, apparendo malizioso e mezzo nudo nei miei pensieri.
Secondo me è colpa della bandana. Tu è tanto che non ne vedi una e quella di Ruben ha delle GRAN belle proporzioni.
Oddio! Ancora la storia della bandana! Solo a ripensarci avvampavo come una scolaretta.
Ma la bandana non è tutto Celeste. È dotato di sotto, ma non ai piani alti. A differenza di J, che riesce almeno a pensare una frase di senso compiuto.
Già! Gli si era sviluppato di più il Walter che il cervello, per cui uno così poteva ragionare solamente con l'organo sbagliato. Fra un po' non era nemmeno in grado di articolare una frase con soggetto, verbo e complemento oggetto! Uno così era buono sotto le coperte, non per farci un discorso intelligente. Invece con J ci poteva essere uno scambio di opinioni, un dialogo che non vertesse solo sul sesso.
Chissà, però, come è messo il francesino a bandana? Non credo che batta Ruben, su questo fronte. Magari lì sotto ha solo una puntina! Vorresti mai stare con uno che non ti soddisfi sessualmente parlando?
Dio, no! Mi stavo trasformando in una pervertita! E tutto questo solo per aver visto un ragazzo come un altro in mutande.
È anche vero, però, che il sesso, in un rapporto di coppia, non è tutto. Quello che conta è il feeling intellettuale che c'è tra due persone. E con J direi che è ai massimi livelli.
«Si può sapere da che parte stai?!» sbottai, rivolta al mio confuso subconscio, che oscillava tra l'intelligenza di J e la bandana di Ruben.
«In che senso da che parte sto?» domandò Jean Philippe, guardandomi dubbioso e allo stesso tempo impaurito dal mio scatto d'ira insensato.
«Nel senso che» annaspai, senza trovare nulla di sensato da dire. Non potevo di certo rivelargli del mio subconscio che aveva una vita proprio dentro di me «Che...che squadra tifi?» sorrisi sorniona, anche se avrei voluto sotterrarmi con le mie stesse mani per aver tirato fuori l'argomento calcio. Quando si aveva un uomo di fronte, mai parlare di pallone! La discussione sarebbe stato solo un noiosissimo monologo maschile di ore ed ore.
«Non seguo il calcio» scrollò le spalle «Siamo proprio su due pianeti diversi!»
«Nemmeno a me piace!» trillai «Detesto quello sport e, soprattutto, odio i calciatori!»
«Prendono un sacco di soldi, anche più di persone che danno un vero contributo alla società, all'umanità, solo per correre dietro ad una palla!»
Spalancai gli occhi, stupita da quella rivelazione, e lo indicai goffamente con entrambe le mani, annuendo con talmente tanto vigore che mi si scompigliarono i capelli.
«Mi hai rubato le parole di bocca!» esclamai «E non capisco nemmeno quelli che vedono il calcio come una religione! Quelli che si infuriano quando la squadra del cuore perde! Cosa ci trovano di così esaltante in 22 bufali decerebrati?!»
«Adesso sei stata tu a rubarmi le parole di bocca» ridacchiò «Sei davvero divertente, sai?! E quando ti arrabbi sei anche più carina»
Sorrisi imbarazzata e le mie guance si imporporarono. Da quanto le mie orecchie non sentivano un complimento? Troppo, non mi ricordavo nemmeno l'ultima volta che era successo. Per di più quell'apprezzamento era uscito dalle labbra del ragazzo che mi aveva stregata, di Jean Philippe Rossi. Avevamo anche la stessa opinione sul calcio e sui calciatori e questo lo faceva apparire ancora più attraente ai miei occhi. Tra di noi c'era sintonia, c'era feeling ed era quasi come se lo conoscessi da anni, anche se si era accorto di me solo da due giorni. Ma stavo bene con lui, mi sentivo serena, mi sentivo diversa.
Altro che bandana!

Infilai velocemente e disordinatamente i libri nella borsa. Ero in ritardo e non avevo tempo da perdere per sistemare la mia roba. Dovevo correre in gelateria se non volevo sorbirmi la ramanzina del mio capo. Svelta, uscii dall'Università, zigzagando tra gli studenti che bighellonavano lungo tutto il viale e che ostruivano al rinoceronte impazzito che ero diventata. Non avevo tempo nemmeno di borbottare tra me e me, non mi fermai nemmeno a pensare all'acido lattico che bruciava nei polpacci, avevo in mente solo la gelateria e la voce stridula di Ugo che mi strigliava.
«Celeste!» mi chiamarono, ma non mi voltai «Celeste, fermati un attimo!» mi pregò la stessa persona.
Decelerai il passo e in un attimo mi ritrovai affiancata da un J sorridente.
«Non c'è tempo, è tardi!» esclamai, sembrando in quel momento il bianconiglio di Alice.
«Hai un appuntamento galante?!» ridacchiò.
«Sì» sbuffai «Con stracciatella e cioccolato!»
«Sono i tuoi gatti?» chiese dubbioso, con la voce incrinata dal fiatone crescente.
«No! Sono gusti di gelato» spiegai, scocciata.
J mi guardò dubbioso, con entrambe le sopracciglia abbassate e la fronte aggrottata.
«Lavoro in una gelateria!» sbuffai.
Gli occhi celesti di J si spalancarono e il suo viso si illuminò, quasi avesse d'un tratta visto Megan Fox apparirgli davanti.
«Lavori in paradiso, allora!» sogghignò «Amo il gelato. Lo mangerei perfino d'inverno!» aggiunse.
Un'altra cosa in comune Celeste.
Più passavo il tempo con J, più mi rendevo conto che noi due eravamo più simili di quanto credessi. Prima l'odio per il calcio, poi l'amore per il gelato. Dentro di me si rafforzava l'idea che J fosse il ragazzo perfetto per me, quello che avevo sognato e cercato per tanto tempo e che, finalmente, dopo anni di delusione dai possessori del Walter, si era fatto trovare.
«Vuoi che ti accompagni?» mi chiese, fermandosi d'un tratto «Sono venuto in macchina!» disse, tirando fuori dalla tasca dei jeans le chiavi della sua auto e facendole tintinnare soddisfatto.
«Se non ti è di disturbo» risposi, imbarazzata da quella sua spiazzante gentilezza.
Era raro trovare un ragazzo che fosse cordiale dopo poco tempo. Solitamente quando ti ricoprivano di zucchero, avevano sempre un doppio fine in mente. Magari mi stavo illudendo, magari anche lui, possedendo un Walter che ciondolava bellamente tra le sue gambe, aveva ben altri progetti.
No, J non è così! Ti vuole solo accompagnare in gelateria!
Lo guardai negli occhi, in quella pozza d'acqua cristallina e non ci vidi nemmeno un misero accenno di malizia, solo dolcezza. Normalmente, lo sguardo dei ragazzi era solo ed esclusivamente allupato, avendo sempre come chiodo fisso la Iolanda.
«Ma quale disturbo!» esclamò, sventolando una mano a mezz'aria.
Gli sorrisi e lo seguii verso il parcheggio. Sotto ad un albero verdeggiante, c'era una luccicante Renault Clio grigio metallizzato. Con un tintinnio, l'auto si aprì e J mi spalancò la portiera, facendo un mezzo inchino.
«Mademoiselles» soffiò e in quel momento, sentendolo parlare in francese, il mio cervello si disconnesse.
«Allora, dove la devo portare, signorina?» chiese allacciandosi la cintura.
«La Dolce Idea» risposi.
J annuii, facendo rombare il  motore e mi sorrise.
«Saremo lì prima che tu riesca a dire stracciatella!» esclamò.
Perplessa, osservai il ghigno di Jean Philippe farsi sempre più sadico. In un attimo, fece retromarcia ed uscì dal parcheggio a tutta velocità, facendomi spalmare contro lo schienale del sedile. Se c'era una cosa che accomunava tutti gli uomini, anche quello dei tuoi sogni, era l'alta velocità. Quando si sedevano in macchina o si mettevano cavalcioni sulla moto, impazzivano tutto d'un tratto e pigiavano l'acceleratore con foga, manco dovessero prendere il volo e bucare l'atmosfera terrestre.
La Clio zigzagò con velocità ed agilità tra le macchine, sballottandomi da una parte all'altra dell'abitacolo e cominciavo a sentire l'insalata del pranzo risalire dallo stomaco. Davanti a noi si parò un semaforo arancione e J non si preoccupò che quello potesse diventare d'un tratto rosso. Invece di fermarsi, accelerò, superando la macchina che aveva davanti e scattare prima che scattasse il rosso. Dopo nemmeno cinque minuti la macchina si fermò, parcheggiando in un piccolo viale che costeggiava la gelateria.
«Visto?! Abbiamo fatto presto!» esclamò entusiasta J, scendendo dalla macchina.
Io attesi qualche secondo, il tempo di realizzare di non essere morta e di essere ancora sul pianeta terra. Mai più avrei accettato un passaggio da un ragazzo, piuttosto avrei percorso anche miglia e miglia a piedi.
«Grazie» dissi scocciata «La prossima volta sarebbe gradito che tu andassi un pochino più piano!»
J si infilò le mani nelle tasche dei jeans e ridacchiò divertito.
«Comunque, ci vediamo domani» gli dissi, sistemandomi la borsa sulla spalla e dirigendomi verso la gelateria.
«Ehm, Celeste» mi fermò, esitante «Potrei, chessò, farti compagnia?» mi chiese, calciando un sassolino capitato tra le sue gambe.
«Perché?» domandai dubbiosa.
«Non ho impegni per questo pomeriggio e a casa mi annoierei» spiegò.
«Guarda che nemmeno qui ti divertirai molto. È una gelateria, non il paese dei balocchi»
«Dove ci sei tu, ci sono risate!» esclamò, scrollando le spalle ed entrando nel locale prima di me.
Appena misi piede alla Dolce Idea, Ugo Bombolo, il mio titolare, alzò gli occhi al cielo, sospirando. Mai nome e posto di lavoro fu più azzeccato per lui. Era più largo che alto, con una pancia che lo faceva sembrare un bombolone ripieno di crema. Il viso ero paffuto, risultato di anni interi di vita sprecati a mangiare dolci e aveva due piccoli occhi vispi e grigi e dei corti e radi capelli biondi. Lui mi aveva sempre detto che era stato scritto nel destino che lui avrebbe lavorato nel campo dei dolciumi, forse per il cognome che si ritrovava, oppure per la passione spasmodica che aveva per lo zucchero.
«Finalmente Celeste sei arrivata!» esclamò, togliendosi il grembiule e uscendo da dietro il bancone.
«Scusa il ritardo. È che la lezione è durata più del dovuto!» mi giustificai, andando nel retro ad appoggiare la borsa e indossare il grembiule bordeaux della Dolce Idea.
«Beh, per farti perdonare, farai il turno serale!» annunciò Ugo.
Uscii da quello stanzino, legandomi i capelli in una semplice coda di cavallo e mi fermai davanti a lui, con le mani sui fianchi e lo sguardo corrucciato.
«Prego?!» trillai stizzita.
«Ormai ti ho assegnato quel turno, Celeste. E quando Ugo decide una cosa, non cambia idea» disse, sorridendo sornione.
«E io dovrei restare chiusa in questa specie di sgabuzzino con il rischio di farmi stuprare dal primo maniaco che passa?!» urlai, al limite della pazienza «Non puoi chiedere a Cesare? Oppure non puoi starci tu?»
«Ma chi vuoi che ti tocchi Fiore!» sghignazzò Ugo, grattandosi la pancia da bombolone «Cesare non è disponibile e io non posso. E poi tu sei giovane e attiri i tuoi coetanei!»
Incrociai le braccia al petto, irritata perché aveva preso una decisione senza consultarmi e perché aveva appena insinuato che ero una scorfana. Aprii la bocca per replicare, puntando l'indice contestatore, quando lui mi zittì puntandomi una manona cicciona davanti al volto.
«No, no, no! Non dire nulla! Così è e così rimarrà!» disse perentorio «Ed ora scusa, ma ho una commissione da fare»
Guardò rapido l'orologio appeso alla parete, poi mi salutò con un gesto rapido della mano e mi indicò J, come a ricordarmi di servire il cliente.
«Incredibile» mormorai incredula, guardando la porta a vetri.
«E così dovrai fare il turno di sera» mi ricordò Jean Philippe.
«Fantastico!» commentai sarcastica «Non solo mi lascia in balia di pervertiti, ma mi ha anche dato della cozza! Ma si è visto?! Invece di camminare, rotola»
J si morse un labbro, per poi coprirsi la bocca con una mano e soffocare una risata che, aveva paura, potesse farmi uscire maggiormente fuori dai gangheri. Ma non riuscì a contenere la sua ilarità e scoppiò a ridere. Inizialmente lo fulminai con lo sguardo, ma venni immediatamente contagiata dalla sua allegria.
«Lo ammetto, a volte sono un po' esagerata!»
«Sei una forza della natura, Cel!» esclamò «Davvero, sei così naturale! Sono rare le ragazze come te»
Sprofondai nell'imbarazzo più totale e le guance s'infiammarono. Solitamente a nessuno piaceva il mio sarcasmo, anzi la maggior parte della gente mi trovava cinica e antipatica, solo Robbeo non si era allontanato da me. Invece J era rimasto impressionato dalla mia ironia, la mia compagna di vita da ventidue anni, oramai e mi apprezzava così com'ero.
«Cosa fai tu, di solito, quando attendi qualche cliente?» mi chiese, leggermente annoiato dalla monotonia di quel posto.
«Ripasso» risposi, scrollando le spalle «In questo periodo dell'anno non ci sono molti consumatori di gelato, per cui qui è abbastanza tranquillo per rileggere gli appunti»
J arricciò le labbra e si grattò la nuca, poi mi sorriso sornione.
«Di studiare non ne ho la benché minima voglia!» ridacchiò «Credi che a bombolone dispiaccia se ci mangiamo un po' di gelato?»
«Non è corretto nei confronti dei clienti che devono pagare e nemmeno nei confronti di Bombolo» risposi contrariata.
«Suvvia, non fare la moralista! È un po' di gelato, non ti ho mica chiesto di rapinare una banca» ridacchiò e mi guardò con quegli occhi azzurri e furbi ai quali non sapevo resistere. Deglutii a vuoto, poi gli puntai il mio caro amico indice, riducendo gli occhi a due fessure.
«Un cono da un gusto, prendere o lasciare» gli proposi.
«Ok!» sospirò «Sempre meglio che niente»
Afferrai due coni piccoli e fissavo incessantemente l'ingresso, timorosa di vedere entrare un cliente che ci beccasse mentre mangiavamo gelato gratis e che poi avrebbe spifferato tutto ad Ugo, così bye bye lavoro!
«Che gusto vuoi?» gli chiesi infastidita.
«Gustoso cioccolato, grazie» rispose con tono sexy, scoppiando poi a ridere.
Preparai i due coni, uno come lo aveva richiesto J, l'altro allo yogurt variegato ai frutti di bosco, il mio gusto preferito.
«Mangiamolo in fretta!  Non vorrei essere beccata!» quasi gli ordinai, tendendogli il gelato.
Lui mi sorrise e assaggiò con la punta della lingua il cioccolato, leccandosi poi le labbra e assumendo un'espressione estasiata, nemmeno stesse facendo sesso con qualche bonazza. Diamine, era così sexy mentre mangiava il suo gelato e non potei far a meno di continuare a fissarlo, immaginando di essere quel cono. Nemmeno il freezer gigante che c'era sul retro avrebbe sedato i miei bollenti spiriti, dopo una visione del genere.
Calma Celeste!
Scossi la testa e concentrai tutta la mia attenzione sul mio gelato. Se avessi continuato a fissare J, non avrei più risposto delle mie azioni. Ad un tratto, lui si avvicinò felino a me, fermandosi a pochi centimetri di distanza. I nostri occhi si fusero in un istante, il suo fiato mi solleticava la pelle e le sue labbra erano dannatamente vicine alle mie.
Ti vuole baciare! Il gelato era solo una scusa! Cavoli, Celeste, hai fatto colpo!
Deglutii a vuoto e chiusi gli occhi, pronta a ricevere quel primo bacio da parte di J. Aspettai come una deficiente di sentire le sue labbra sulle mie, ma quello che sentii fu solo un lieve tocco sul naso che mi fece aprire gli occhi.
«Avevi un po' di gelato» sorrise, mostrandomi il suo dito sporco di gelato.
Sorrisi ebetamente, sentendomi sempre più stupida per avere immaginato che mi volesse baciare.
Lui è un gentiluomo!  Avrebbe potuto approfittarsi della situazione e baciarti, invece si è frenato. Non come quel troglodita di Ruben che alla prima occasione ti ha infilato la lingua in gola.
Infatti! Quel cavernicolo aveva approfittato di quella stupida scommessa solo per baciarmi e chissà quali strani film erotici mentali si stava facendo sulla sottoscritta. J, invece, era un gentleman, un ragazzo di altri tempi, che non pretendeva tutto e subito, che aveva come unico obiettivo la Iolanda e che la pensava notte e giorno, come un certo Ruben. E allora perché, se pensavo che J fosse il ragazzo perfetto per me, ora mi ritrovavo davanti, ancora una volta, l’immagine di quel troglodita che leccava sensualmente il gelato?



Dopo il salone di bellezza, riaccompagnai Robbeo a Trigoria, per recuperare il ‘bolide’ rosso fiammante. Sapevo che avrei dovuto lasciarlo andare, magari risalendo sulla mia Audi TT bianca e facendo il punto della situazione sui miei impegni con Ruben, ma non appena vidi il Rosso montare su quel vecchio macinino, non potei fare a meno di pensare a Celeste.
Erano quasi ventiquattro ore che non la vedevo e non la sentivo, ovviamente perché non le avevo minimamente chiesto il numero di telefono.
Non che non ne avessi il coraggio, s’intende, ma se per un timido e innocente bacetto aveva fatto tutta quella storia, non volevo nemmeno immaginare cosa sarebbe successo una volta che la relazione fosse diventata seria.
Ma ti senti quando pensi?!
Scossi la testa violentemente e bloccai la portiera del pandino rosso. «Aspetta!» dissi a Romeo, e quello mi rifilò un’occhiata dubbiosa.
«L-l-leon-ardo.. ab-ab-abbiamo d-da f-fare q-q-ues-ta s-sera!» mi ricordò Ruben, fulminando il roscio con gli occhi da talpa che si ritrovava dietro le spesse lenti degli occhiali.
«Ci vorranno cinque minuti» risposi io, montando sul trabiccolo. «Tu seguici con l’Audi e quando ho finito ritorniamo a casa in un batter d’occhio» gli sorrisi, con l’aria innocente.
«M-m-ma s-si p-p.. p-uò s-sapere cosa d-devi f-fa-fare?» mi chiese il mio migliore amico, afferrando le chiavi della macchina e guardandomi ancora poco convinto.
Abbassai il finestrino girando la manovella e appoggiai il gomito facendo la faccia da ganzo, manco fossi su di una spider. «Niente di che.. devo vedere una persona» la buttai lì, rimanendo sul vago.
Ovviamente Robbeo mi fissava con quei suoi occhietti verdi e vispi, con un sorrisino complice dipinto sul volto lentigginoso. Girò la chiave nel cruscotto e gli ci vollero tre tentativi per far partire il motore ante-guerra di quel pericolo pubblico.
«Si parte!» annunciò fiero, ingranando la retromarcia che, immancabilmente, grattò con un rumore assordante e immettendosi nella strada principale. Infine pigiò il piede sull’acceleratore e impiegammo una mezz’oretta per arrivare a 90 chilometri orari, mentre dietro Ruben ci seguiva quasi a passo d’uomo con l’Audi.
«Insomma ti sei fissato con Celeste, eh?» mi domandò ridacchiando.
«Fissato? Io?» sghignazzai, battendomi un pugno sulla coscia. «Ma cosa stai dicendo?! Lo sai chi sono, vero, Rosso?».
Romeo mi lanciò uno sguardo smeraldino con la coda dell’occhio, poi tornò a guardare la strada.
Leonardo tu non ti stai rincitrullendo, hai capito?! Stai andando da quella pazza inferocita solamente perché ti serve come capro espiatorio per la festa di Sabato.. nient’altro! Non c’è niente, non c’è stato niente, e mai ci sarà un emerito nulla tra di voi!
«Lo sai che non acconsentirà mai a quello che vuoi proporle?» osservò Robbeo, diventando man mano più irritante ai miei occhi.
«Fino ad ora non mi ha mai detto di no» asserii, convinto delle mie possibilità.
«Da quant’è che la conosci? Due giorni?» mi domandò, lasciando per un attimo lo sguardo dalla strada e puntando le iridi nelle mie. Nonostante l’avessi sempre visto come un buono a nulla e una palla al piede, questo Romeo Ciuccio dimostrava più di quanto volesse far credere. «Celeste non è come le altre, spero te ne sia accorto. Anche se sapesse la verità su di te, non gliene importerebbe un fico secco di chi tu sia e di quanti soldi guadagni».
Ma è il suo migliore amico o qualcos’altro?
«Sei innamorato di lei?» gli chiesi a bruciapelo, mentre il pandino fece una curva che mi spiaccicò contro lo sportello di metallo, per nulla rivestito dalla tappezzeria.
«Siamo arrivati» comunicò il Rosso, ignorando completamente la mia domanda e accostando nelle vicinanze dell’immancabile portone.
Fu in quel preciso istante che notai, proprio davanti all’entrata del palazzo, la capigliatura bionda di Celeste, ma al suo fianco non potei fare a meno di constatare la presenza di un bell’imbusto con un sorriso ammaliante e uno sguardo di ghiaccio.
Leonardo, cerca di ragionare. Non farti prendere dall’impulsività.. anche perché Celeste non è né tua sorella, né la tua migliore amica, né, tantomeno, la tua ragazza!
«Chi è quel broccolo?» domandai, ignorando completamente i suggerimenti del mio ego.
Spalancai la portiera del pandino con un calcio, quasi alla Chuck Norris, e mi alzai in piedi con il petto in fuori, i jeans giro-bandana e un’espressione sul viso che avrebbe fatto paura anche a quel cesso di Pattinson.
«Quello è Jean Philippe Rossi, frequenta la nostra stessa facoltà» commentò Robbeo, chiudendo lo sportello del pandino che cigolò come le porte di una casa piena di fantasmi. «Si fa chiamare J. perché fa più ganzo, ma è soltanto una checca mezza francese dagli occhioni blu e la bandana poco presente».
Quel commento del rosso mi lasciò un po’ perplesso, ma decisi di ignorarlo e guardare dritto negli occhi quel mangia-lumache!
«T’oh, guarda un po’ chi ce sta!» me ne uscii, raggiungendo Celeste al portone e posando una mano sul muro vicino a lei, intrappolandola tra i miei addominali d’acciaio e il calcestruzzo.
«Che cavolo ci fai qui?» mi chiese acida, fissandomi con l’aria corrucciata e stringendo i libri con tanta forza che immaginai volesse ci fossi io al loro posto. «E tu?!» ringhiò in direzione di Robbeo. «Non dovevi andare a trovare tua nonna all’ospedale?».
Evidentemente il Rosso aveva raccontato un po’ di balle alla mia biondina, ma non fu la Brontolo-posa di Celeste a pietrificarmi, bensì lo sguardo spalancato del famigerato J.
Accecato com’ero dall’averli visti insieme, non avevo minimamente pensato alla fitta rete di bugie che avevo creato attorno alla mia identità e a quanti secondi sarebbero bastati per far crollare tutto.
E se quel mangia-lumache ti ha riconosciuto?
Vidi l’espressione sul suo viso mutare, quasi come quella di Romeo. Mi fissò dall’alto in basso con quei suoi occhi di ghiaccio, si inumidì le labbra quasi come un finocchio, poi mi porse gentilmente la mano.
«Jean Philippe Pierre Montague Rossi» sorrise malizioso, fissandomi intensamente con uno sguardo furbo.
Ora ti chiederà un autografo, babbeo!
Ehi, vacci piano con gli insulti, siamo la stessa persona!
«E tu chi saresti?» mi chiese sorridendo, mentre Celeste pendeva letteralmente dalle sue labbra.
Rimasi completamente di sasso e per poco non scivolai con la mano posata sul muro.
Possibile che questo broccolo non avesse idea di chi fossi?!
Beh, almeno ti ha parato il culo..
«Questo troglodita è Ruben» sospirò Celeste, scostandomi poco delicatamente da lei. «Non farci caso se parla a monosillabi, conosce a mala pena la coniugazione del verbo avere!».
«La che?» chiesi confuso.
Celeste roteò gli occhi e li puntò al cielo, mentre J. tese ancor più la mano, attendendo che io gliela stringessi.
Lo fissai con un sopracciglio alzato, poi ridussi gli occhi a fessure. «Ruben Canilla» risposi a mezza bocca, lanciandogli le saette dagli occhi.
«Sì, vabbé» mi scansò Celeste, spostandomi ancora più lontano. «Tizio-Caio, Caio-Tizio, vogliamo salire?» chiese, spalancando il portone e facendo cenno anche al Rosso di muoversi.
A quel punto J. mi regalò uno sguardo di sfida con quelle sue iridi glaciali, poi salì il gradino ed entrò nell’androne, seguito da Romeo.
Senza pensarci due volte lo seguii, deciso ad essere la sua ombra fino in fondo, ma mi ritrovai Celeste a sbarrarmi l’ingresso col suo corpo e con la Brontolo-posa più esplicativa che potesse utilizzare.
«Dove credi di andare, Ruben?» mi chiese, fissandomi in cagnesco.
«Secondo te?» le risposi sgarbato, troppo concentrato a fissare le spalle da rugbista di quel belloccio francese.
«Non sei invitato! Ogni giorno non puoi presentarti qui come se fosse casa tua o se ti bastasse la scusa di Romeo come tuo migliore amico! Sparisci!» mi intimò, cercando di chiudermi il portone in faccia.
«E perché il mangia-lumache può salire?!» domandai infervorato, quasi al limite della pazienza. «Cos’è, il tuo ragazzo?!» ringhiai.
A quella parola Celeste arrossì violentemente ed io sgranai gli occhi sorpreso.
Le piace.. dannazione..
«C-che dici!» mi rimproverò poco dopo, ritornando sé stessa. «Mi ha chiesto in prestito un libro per l’università, tutto qui!».
«A-anch’io ho bisogno di un libro!» m’impuntai, facendo la figura di un emerito cretino.
Era la prima volta che qualcuno mi negava qualcosa. Avevo avuto sempre tutto dalla vita, ogni mia richiesta veniva esaudita, sia dall’allenatore che dai membri della mia famiglia, ma questa volta mi ritrovai la porta sbattuta letteralmente in faccia.
«Ruben, fammi un favore» sospirò Celeste, fissandomi seria. «Tornatene a casa».
Il mondo intero mi crollò addosso in un istante, lasciandomi immobile davanti al portone guardando oltre la vetrata mentre lei si allontanava.
I rifiuti fanno male, eh, Leo?


La parola d'ordine in questo capitolo di oggi è proprio: gelosia!
Il nostro bel calciatore per la prima volta, in tutta la sua meravigliosa vita fatta di successi e conquiste, si è visto rivolgere davanti agli occhi un bel rifiuto.
Celeste, in un modo che né lui né il suo Ego si spiegano, è riuscita a colpirlo, a stregarlo con quella sua particolarità e quel suo apparente disdegno nei suoi confronti. E ovviamente, cos'è che si desidera di più di qualcosa che non si può avere?!
Ma passiamo ai veri protagonisti di questo capitolo: Ruben e Romeo. Quei due sono spisciosissimi e mi diverto troppo ad inserirli nelle gag di Leonardo, almeno smorzano un pochino i toni 'drammatici' (passatemi il termine) di questa storia.
E poi è comparsa finalmente sulla scena la cara Annalisa! Dolce come un calcio lì dove non batte il sole e per il nostro povero Leonardo, lei è una specie di stalker [ps. chi ti ricorda Wife?!].
Dal canto suo, Celeste, è sempre più presa dal dolcissimo J. che, oltre ad essere bello e intelligente, è anche gentiluomo. Tutto il contrario di Leo/Ruben, insomma. Anche se il nostro amico calciatore ha 'stregato' Celeste. Infatti, ha cominciato a vederlo ovunque, per giunta sempre in modalità sexy.
Abbiamo anche conosciuto il suo titolare, Ugo Bombolo, e abbiamo avuto un piccolo assaggio della sua vita lavorativa. Anche in gelateria, la sua acidità non si risparmia. Sembra proprio che solo J. riesca a placare la 'furia bionda'.
Dunque, dunque.. chissà cosa accadrà nel prossimo capitolo?! Leonardo ce la farà a convincere Celeste ad essere la sua ragazza per la festa, oppure dovrà andare dalla 'piattola' da solo?! E se ci andranno.. cosa accadrà al party del secolo?!


Renza                                    Annalisa Cavalli        Ugo Bombolo                  Il pandino di Robbeo


TRAILER di presentazione di 'Come in un Sogno'

Pubblicità:
Clithia, pagina Facebook.         IoNarrante, pagina Facebook.

e, infine, MA NON PER ULTIMA, la nostra nuovissima 'chicca' a 4 mani!

Stavolta facciamo felice Leonardo...
Leo mode-on
'Ti credo che sbaglio un goal davanti alla porta!' è.é
Leo mode-off

   
 
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