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Autore: Betta_cha    04/07/2011    0 recensioni
Qualche foglia, qualche stranezza e un po' di palpitazioni nella vita di Thomas.
Genere: Demenziale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“ Davvero non capisci, eh?! Gli alberi non sono un posto per maschi! Gli alberi sono pieni di vita e intendo che sono ricoperti di vita!! ” - affermò sbottando la ragazza, tenendo saldamente la mano destra sul fianco e la sinistra all'altezza della fronte. Una posa bizzarra che mi avrebbe fatto ridere, se non fosse stato per il brillantino di oscurità folle che le si rifletteva negli occhi.
“ Cosa vorrebbe dire che gli alberi non sono posto per i maschi?! E scusa se non credo possibile che elfi e spiriti popolino boschi e foreste! ” - ribattei, per metà sospirando, per l'ennesima, e sapevo non ultima, volta.
Mi sorprese, non replicò; semplicemente aggrottò le sopracciglia e assunse un' espressione dispiaciuta, quasi si rammaricasse che io non accettassi la sua semplice verità.
Si voltò, percorse a passetti brevi ( rigorosamente dispari, ne sono certo) l'aula del laboratorio di analisi sperimentali e sparì.

Non mentirò dicendo che in quel momento capii subito che non l' avrei più rivista, almeno non come la ragazza stramba di cui mi ero innamorato; anzi mi sentii sollevato di non dover sostenere quella discussione inutile con l'aula che stava per riempirsi di altri studenti, accaldati e sull'orlo di una crisi ormonale estivo-primaverile.

Mi limitai a sedermi, ripensando a quando l' avevo conosciuta.

Nemmeno a dirlo, l' avevo incontrata per la prima volta vicino ad un bosco, quello del liceo stesso per la precisione. Un bosco piuttosto fitto e insolito per essere situato vicino ad una scuola, se si vuole essere pignoli; nonostante questo, l'unico commento esprimibile osservandolo è incredulità : tanto verde, cupo e brillante, ipnotico, in ogni foglia. Ogni singola dannatissima foglia. Dava una pessima sensazione.

Andrea era, per l' appunto, in osservazione di quelle foglie lucide, quasi avesse appena piovuto – ed è facile intuire che splendesse il sole- per la sua tesi d'esame, che avremmo sostenuto alla fine del semestre.

Io non ero, in effetti, che un ragazzo con la testa fra le nuvole, attratto da ogni stranezza; lei, d'altra parte, mi affascinò facilmente, come avrebbe fatto uno spicchio di luna seminascosto dalle fronde di un castagno solitario su di una collina, circondato da gelsomini pronti a schiudersi alla sua luce, inebriando i sensi con il loro profumo.

Me ne innamorai quasi subito, perso nell' assoluta magnificenza delle sue incongruenze e delle sue bizzarre convinzioni; soprattutto non notai, forse fortunatamente, abbastanza in fretta la sua maniacalità per l'esecuzione di certi rituali quotidiani.

Divennero evidenti quando, dopo appena sei mesi che ci frequentavamo e per assoluta pazzia giovanile, andammo a convivere.

Fui improvvisamente interrotto dal bisbigliare sommesso delle sedie che si muovevano e da quello un po' più consistente degli alunni che invadevano l' aula.

Mi spostai per sedermi al mio posto e mi concentrai sulla mia lezione, lanciando un ultimo sguardo sbieco al bosco di fronte alla finestra.

Per quell' ora riuscii a dimenticarla, come facevo sempre quando mi rifugiavo nel mondo razionale della chimica e ritrovare in un certo senso il mio equilibrio.

Finita la lezione, mi recai in biblioteca, il mio baluardo ogni volta che cercavo di evitarla; la bibliotecaria, la signora Lofrento, mi bloccò sulla porta: no, nessuno macabro avvenimento, solo un messaggio da Andrea, un post-it con poche righe.

“ Sapevo non saresti stato pronto ma voglio che tu sappia che saresti stato felice. Vado nel bosco e spero di non tornare. ”
Come sapevo che non era un macabro scherzo? Il bosco naturalmente.

Fu allora che mi gelai, subendo la sensazione che mi stessi in un qualche modo rompendo: temevo non sarebbe mai tornata davvero. Sarebbe sul serio sparita senza nemmeno salutare, solo un biglietto, non una riga di scuse, né qualche addio biascicato. Solo quel biglietto, davvero troppo giallo per le sue abitudini : la sua scrittura risaltava su quel colore in modo inquietante.

Tornai a casa col cuore che perdeva ritmicamente colpi, inondando le vene di flash-back, soprattutto dei nostri litigi. Tipica reazione da adolescente perso, quale d'altronde ero.

Evitai il bosco, seppure fossi solito accorciare la strada attraversandolo; lo evitai con accuratezza, timoroso di... beh, di nulla, timoroso e basta. Cosa poteva esserci in quel bosco, se non quella matta della mia ragazza?
Probabilmente non era solo codardia insensata, ma anche una sorta di questione d'orgoglio, cercando di dimostrare che quel bosco non centrava nulla, non era che un bosco.

Camminavo e non mi accorsi nemmeno di essere arrivato a casa, troppo immerso in ricordi, inezie del nostro vivere quotidiano che iniziarono a mancarmi senza motivo.

Non sarebbe tornata, oramai ne ero convinto; l'aspettai e non la rividi. Non quella notte, né quella successiva, né quella dopo ancora. Non la rividi più in effetti, come ho già detto. Ed era proprio tutta quell'attesa a logorarmi di più; perché la speranza di vederle varcare la soglia, magari non pentita – anzi sicuramente – era più distruttiva di qualunque notizia che mi dicesse che era morta.

Mi trascinai nella mia routine scuola-casa, passando molto tempo a fissare il bosco quando ero a scuola, aspettandomi di vederla spuntare trottando; quel bosco mi tormentava, continuavo a vederlo fisso nella testa quando ero a casa, la causa che non avrei mai ammesso.

Fui inconsciamente contagiato dalle sue manie, cogliendo quell' unica eredità per tenerla vicina, quando in effetti, ciascuna mi irritasse : iniziai a contare i passi e farne solo di dispari, evitare i cibi troppo gialli ( non saprei definirli, li sceglievo a sentimento) e mettere i calzini spaiati.

Nove mesi di follia consapevole.

Mentirei nuovamente se confessassi che ero diventato un ragazzo consunto: ero perfettamente sano, quasi sorridente. Passai facilmente la sessione d'esame di febbraio, con ottimi voti per altro; non dentro di me però continuavo a fissare quel bosco, a formulare un piano, forse per distruggerlo chissà.

Nove mesi di follia, sì, solo nove. Poi la rividi. Si presentò una notte – chissà perché certi incontri avvengono sempre di notte – in quella camera da letto che ancora mi illudevo di adibire a doppia e non a singola, quale era diventata.

Seduta tranquillamente sul letto, una bambina tra le braccia.

Arborea.

Perché mi venne in mente quel nome è ben immaginabile.

Alzò lo sguardo e sorrise; anche la bimba sembrò esprimere il proprio consenso alla mia entrata in scena.

Non seppi avvicinarmi, ma mi svegliai nel letto quindi posso dedurre che lo feci. Non era più lì. Nessuna delle due per la verità.

Di nuovo solo un biglietto, di nuovo troppo giallo : da quando le piaceva quel colore?
Mi resi conto che probabilmente non aveva altri mezzi.

“ È davvero Arborea, come avevi pensato! Ero incinta <---- il mio piccolo segreto che non ho voluto svelare! Sai come trovarci... ”
Sapevo come trovarle? No, davvero! Volevo trovarle? Ancora più assurdo!! ... e iniziai le ricerche quasi immediatamente.
Il bosco fu il secondo luogo in cui le cercai, perché la mia piccola mente da uomo non riusciva ad accettare che in quel posto fosse nata una bambina, magari tra i folletti! Il primo fu ovviamente la scuola, la mia ancora di salvezza.

Vi aspetterete una ricerca stoica, di intere settimane magari, un salvataggio eroico, un finale maestosamente allegro; ma non posso che dire di essere un po' troppo ordinario per Andrea.

L'amavo, ma non ero sicuro di poter sacrificare la mia semplicità per questo.

La mia resistenza in quel bosco durò tre giorni; riuscii a concedermi il lusso della disperazione per la perdita solo allo scadere del terzo giorno, ricordandomi che in effetti non avevo perso (e “perso” sembrava l'unica parola calzante) solo la mia fidanzata, ma anche una figlia.
Era fuggita per nascondermi la gravidanza. Come aveva detto? Ah, sì, non ero pronto... Accidenti, certo che non lo ero!

Non vennero le lacrime purtroppo, sarebbero state un sintomo di normalità e mi sarei sentito a casa.

Credo sia stato in quel momento che qualcosa in me “ mollò la presa ” e iniziai ad arrendermi : dovevo tornare nel bosco.

Seppure quelle tante piccole foglie, che sembravano emettere il pianto lamentoso di un animale morente, fossero come un cartello luminoso con una scritta cubitale “NON ENTRATE” - quasi l'entrata all'inferno!- qualcosa però mi attirava.

Sperai fossero loro e non qualche, beh , creatura strana.

Fu più per caso che per volontà che mi riavvicinai a quelle chiome, quello che ormai era l' incubo inconscio – che non avrei comunque ammesso – delle mie notti travagliate.

Notai due occhi sorridenti in mezzo alle foglie troppo lucide, troppo verdi. Due occhi familiari, due lanterne nel mio buio personale, ma immerse nell' oscurità a loro volta.

Perché ridevano quando era tutto così tetro? Oh, sì, era una trappola no?

Di chi fosse (non di Andrea, ne ero certo) proprio non avrei saputo dirlo, ma li segui : nessun pensiero logico, semplicemente mi erano simpatici.

Quel sorriso invisibile non era poi malvagio, quanto più derisorio e benevolo, una scherzosa presa in giro.
Ci inoltrammo per metri e metri di bosco che non esisteva; non mi sentivo più vicino alla meta, ma sicuramente ero a mio agio, più di quanto potessi mai credere possibile.

Mi resi conto di essere circondato da presenze non definibili, mi voltai solleticato da un qualche strano talco.

Udii ridere alle mie spalle, davanti a me, sopra di me; mi misi a correre, non tanto spaventato quanto curioso : dove ero finito? Non era più di certo il bosco!

Una stranissima luce violetta, tendente all' azzurro – o forse era solo il cielo – squarciò le fronde, piano, quasi timida ; le corsi incontro, nuova attrazione, le corsi attraverso.

Sbucai sul tetto della scuola. Che diavolo succedeva? Non ero in un bosco dalle tinte plumbee?

Mi voltai di nuovo, questa volta per uno sguardo fisso sulla nuca : ed eccole finalmente.

“ Thomas... ”

Un sussurro appena percepibile, ma riconoscibile : Andrea in tutto e per tutto.

Descrivere lo stato di euforia in cui mi stavo immergendo richiede l'uso di parole non ancora inventate e non posso essere io il primo ad usarle, ma cercherò di rendere un' idea piuttosto chiara, dicendo che credevo la mia anima rifugiata in una qualche parte non definita dell' universo, in cerca di vette che potessero paragonarsi in altezza con la mia gioia.

Mi avvicinai e …. mi svegliai.
Accidenti, mi svegliai!
Mi girai nel letto e lei era lì, non si era mai mossa o forse non avevamo mai litigato.
Che giorno era? Mphm , era esattamente il nulla della settimana!
D'istinto l'abbracciai, incapace di trattenermi ,non dopo il mio sogno travagliato; mugugnò, le baciai la nuca.
“ Guai a te se osi chiamare nostra figlia Arborea... Anzi guai a te se osi essere incinta!” - bisbigliai contro quei riccioli neri, mentre un sorriso li smuoveva dal loro stato statico.
E come potevo sapere, come?! Era davvero incinta!
Lo scoprii – riscoprii a quanto pare – la mattina successiva, durante la colazione quando candidamente mi chiese : “ Quindi... ti sei ripreso? Non ti spiace che sia incinta? ”.
Che razza di codardo! Ero svenuto!

   
 
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