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Fidati di me
Naminè guardò quelle
scarpe da tennis calpestare esitanti il tappeto e dirigersi lentamente verso di
lei. Poi le due gambe che muovevano quei piedi si abbandonarono sul letto al
suo fianco, e nella stanza risuonò un sospiro.
La ragazza alzò
il viso. «Ce l’hai fatta davvero, Roxas.»
L’amico le rispose
soltanto con un sorriso imbarazzato.
Anche se la notizia
della riabilitazione fisica di Roxas era ormai
pubblica, c’era stato un lungo periodo in cui nessuno ne aveva saputo nulla.
Solo cinque minuti prima, lo stesso Roxas le aveva
raccontato tra le risate della faccia che Sora aveva fatto il giorno che era
rientrato da scuola e lo aveva trovato in piedi davanti al frigo aperto, mentre
lui masticava un panino farcito e gli sorrideva beato.
Naminè si era commossa nel
sapere che ormai il ragazzo riusciva ad attraversare la sua stanza praticamente
senza appigli. Le lacrime, però, avevano rischiato di cadere soltanto
quando lo aveva guardato negli occhi e lo aveva sentito ridere in quel modo.
«Non so ancora se
ce l’ho fatta.» Roxas si strinse nelle
spalle. «Quel che è certo è che non è per niente
merito mio.»
Naminè lo fissò,
sorpresa. «Stai scherzando, vero? Sei stato tu a decidere di riprendere
in mano la tua vita.»
Roxas distolse lo sguardo.
Per quel poco che poteva vedere del suo viso, le sembrò che fosse
arrossito.
«Non avrei mai
fatto proprio niente, senza Axel.»
Il tono in cui pronunciò
quel nome fece capire a Naminè molto
più di quel che c’era in superficie. Gli sorrise, senza malizia.
«Non devi
vergognarti di questo, Roxas. Tutti abbiamo bisogno
di qualcuno...»
* * *
«... Ma non tutti sono in grado di andare
oltre il loro orgoglio e tendere la mano per risalire.»
Tifa guardava con il
solito interesse l’adolescente scontroso e ostile che in nome di
un’improbabile quanto inevitabile amicizia si trovava lì con lei,
invece che in una cella umida o – peggio ancora – in un qualche
covo di criminali magari peggiori del suo ex boss.
Axel sospirò e si
appoggiò alla poltrona, un braccio disteso sullo schienale.
«Arriviamo al punto, tenente. Non credo che il motivo della sua visita
sia il desiderio sfrenato di tessere le mie lodi.»
La donna sorrise
divertita.
«In parte. Solo in
parte.» Si accomodò a sua volta nella sedia traballante di fronte
alla poltrona; era piuttosto evidente che Axel non
era molto interessato ad offrire il massimo dei comfort ai suoi –
ipotetici – ospiti. Ma c’era anche da dire che neppure il resto del
condominio, da quanto aveva visto, era in condizioni idilliache. «In
realtà sono venuta a parlarti dell’udienza definitiva. È il
sedici maggio.»
Axel non disse nulla.
Né reagì in altro modo. Si voltò soltanto a guardare il
corridoio oltre la porta aperta. Tifa seguì il suo sguardo, indovinando
che laggiù da qualche parte c’era una finestra affacciata su una benedetta scala antincendio che univa
l’appartamento 2B al 2A.
Guardò di nuovo
il suo ospite e si sporse verso di lui.
«Axel» affermò, sicura e diretta. «Lo so che
non sono nella posizione di poterti assicurare nulla. So che mi sono esposta
molto, troppo, sia con te che con Demyx. E so che questa cosa in polizia non
è piaciuta a tutti e che sto rischiando – sarò franca
– di finire con il culo per terra. Ma non sono mai stata più
convinta di qualcosa in vita mia.» Alzò la voce di un tono.
«Quando uscirai da quel tribunale, tu tornerai dal tuo amico a testa
alta. Questa è una promessa.»
Lui non si voltò;
fece solo un sorriso storto.
* * *
«Così oggi torni alle isole.»
Naminè era in piedi davanti
alla finestra, i capelli biondi mossi dal vento, lo sguardo rivolto alla scala
antincendio di fronte a lei. Roxas la osservava dal
letto, senza però provare quel vecchio imbarazzo che un tempo era una
costante in sua presenza. E temeva di conoscere bene il motivo di un tale
cambiamento.
La ragazza annuì.
«Ero venuta proprio per salutarti. Parto questa sera.»
Roxas abbassò lo
sguardo, sospirando. «Mi dispiace che tu abbia dovuto passare questo mese
di vacanza a preoccuparti per me.»
Naminè si allontanò
dalla finestra e tornò lentamente verso il letto. Gli sedette di nuovo
accanto e gli sfiorò una guancia con le dita.
«Guardami.»
Lui obbedì.
Quando incontrò i suoi occhi profondi e intensi, si ritrovò a
pensare ad altri occhi, molto diversi
ma in un certo senso anche molto simili, che in poco tempo e più volte
– l’ultima delle quali se la sentiva ancora sulle labbra –
gli avevano sconvolto l’esistenza. Stordito, s’impose di concentrarsi
sulle parole di Naminè.
«Sono due anni che
vivi in virtù di altri. Hai fatto quel che hai fatto pensando sempre e
soltanto ai tuoi ricordi, ai tuoi genitori, ai tuoi amici che dovevano restare
così come li ricordavi, perché non volevi tradire quel che
è stato. So che è così, me l’hai detto tu.»
Gli sorrise. «Adesso non preoccuparti anche di me, e cerca di pensare a
te stesso. Credo che sia ora di cominciare ad essere un po’
egoisti.»
Roxas accolse e
ricambiò il suo abbraccio senza arrossire e senza parlare. Le parole
avevano perso da molto tempo il loro valore, con lei che sapeva andare oltre.
Fu un rumore da fuori a
distoglierlo dalla stretta. Un rumore ormai familiare quanto la luce del sole.
Mentre un fiotto
d’imbarazzo lo irrigidiva al suo posto, quasi percependo il suo
nervosismo, Naminè si scostò da lui e
si protese a guardare la finestra.
Un attimo di silenzio,
poi una voce non troppo lontana.
«Ma bene. Oggi il
mio piccolo seduttore ha visite...»
Nel tono di Axel c’era un’ironia molto vicina al sadismo. Roxas non
riuscì a voltarsi a guardare dalla finestra, ancora immobilizzato da
una sensazione stranissima e fastidiosissima che da una settimana a quella
parte lo impacciava fin troppo spesso.
Dal canto suo, Naminè sorrise con aria angelica all’inquilino
del 2B. «Non preoccuparti, la visita stava per finire. È tutto
tuo.»
La ‘sensazione’
crebbe ulteriormente, e in modo esponenziale.
Roxas si decise a seguire lo
sguardo dell’amica. Vide Axel, un gomito
puntato sul davanzale, l’altro braccio morbidamente abbandonato
penzoloni, che guardava fisso proprio lui. Sotto l’ironia, nella sua
espressione c’era anche una punta di accusa... Gelosia?
Scosse vigorosamente la
testa, ma sentì di non essere riuscito a scrollare via il rossore.
Axel notò di certo il
suo turbamento, perché sul suo volto passò il lampo di un sogghigno,
prima che tornasse a rivolgersi a Naminè.
«Ma no, posso
cederti tranquillamente il privilegio di aiutarlo nei suoi esercizi quotidiani.
Dopotutto, a giudicare da come lo vedo zampettare per camera sua, presumo che quella
sia ormai solo una scusa per restare solo per qualche ora al giorno con il
sottoscritto.»
A giudicare da come mi vede... Cos’è, mi spia?!
Roxas si alzò sulle
sue gambe – aveva imparato suo malgrado che la facilità di quel
movimento era direttamente proporzionale alle sue emozioni – e
andò ad afferrare il davanzale, dal quale lanciò
un’occhiata irritata ad Axel e gli
consigliò di andare in un posto in cui raramente mandava la gente.
Il rosso
sghignazzò e guardò ancora Naminè,
sbirciando oltre le sue spalle. «Senti come diventa aggressivo, il
tigrotto, quando si sente attaccato?»
Naminè raggiunse Roxas alla finestra e lo fissò, un po’
sconcertata e un po’ divertita. «Davvero. Credo sia la prima volta
che ti sento parlare così da che ti conosco.»
Roxas la guardò in
tralice, poi tornò a puntare lo sguardo su Axel.
«Non è
colpa mia. È lui che mi fa dire cose che... che non dico di
solito.»
La serietà
intrinseca di quella frase fece calare sensibilmente l’atmosfera
scherzosa e il sarcasmo del ghigno provocatorio di Axel.
Fu proprio lui a
interrompere il silenzio che si era creato; sembrava voler riprendere il
controllo della situazione.
«E va bene, basta
con le cretinate. Tra l’altro devo scusarmi del ritardo, bimbo, ma sono
stato trattenuto dal grande capo in persona.»
Mentre lo guardava
scavalcare la sua finestra e incamminarsi sulla scala antincendio, Roxas lasciò che la curiosità sostituisse
l’irritazione.
«Di chi stai
parlando?»
Axel arrivò di fronte
ai due ragazzi, che si scostarono per lasciargli spazio; Roxas
si teneva ancora al davanzale con una mano per non rischiare di perdere
l’equilibrio – sarebbe stato troppo imbarazzante se Axel si fosse affrettato a sorreggerlo davanti a Naminè;
sapeva benissimo come l’avrebbe
fatto. Lui infilò le gambe nel 2A, si appoggiò
all’architrave e si stiracchiò, ostentando indifferenza. Alla fine
guardò da Naminè a Roxas.
«Il tenente Lockhart. È venuta a farsi quattro chiacchiere...
Sapete, sull’udienza.»
Roxas ricambiò il suo
sguardo, e di colpo si ricordò che c’erano cose molto più
forti, improrogabili e definitive di quel vuoto allo stomaco che avvertiva ogni
volta che Axel entrava nel suo appartamento.
* * *
Naminè si sciolse
dall’abbraccio collettivo in cui Sora e Kairi
l’avevano avvolta e si voltò a guardare Roxas.
Soltanto in quel momento Axel smise di estraniarsi e
di vagare con gli occhi in cerca del punto in cui il taxi era sparito dopo
averli lasciati davanti all’aeroporto.
Roxas si alzò dalla
poltroncina della sala d’aspetto in cui si era lasciato cadere qualche
minuto prima. Aveva voluto accompagnarla così, sui suoi piedi, lasciando
al condominio la sedia che ancora usava per quelle poche occasioni in cui si
spostava dall’appartamento. Rimase immobile e senza sostegni per un
attimo, poi sorrise e allargò le braccia. Naminè
si strinse a lui, riempiendo lo spazio vuoto tra loro e rendendolo un incastro.
Axel non si sorprese troppo
della fitta di disappunto che gli ghermì le costole.
La ragazzina
sollevò la testa, sussurrò qualcosa all’orecchio di Roxas e infine lo baciò lievemente su una guancia.
Axel distolse lo sguardo.
Da quando aveva aperto
gli occhi su ciò che quel piccolo naufrago aveva scatenato in lui, da
quando aveva rischiato il tutto per tutto in una scommessa che gli era nata
dentro e che gli era andata a finire sulla bocca, il pensiero di vederselo
sfuggire via gli era ancora più intollerabile. Non gli restava altro da
fare che augurarsi che le promesse di Tifa Lockhart
fossero affidabili.
Grande. Riporre piena
fiducia nel capo degli stessi sbirri che avevano fatto fuori Zexion...
Ma che mi hai fatto, bimbo?
«Ehi.»
Il bisbiglio che gli era
appena stato soffiato accanto lo fece sussultare.
All’altezza del
suo petto, due occhi blu lo scrutavano fermi. Axel
ricambiò l’occhiata, in attesa.
Naminè si sollevò sulle
punte dei piedi, avvicinando il viso all’incavo della sua spalla,
perché all’orecchio non arrivava. La sua voce quasi si perse nel
rombo lontano di un aereo in partenza.
«Tu prova a farlo
soffrire ancora e, te lo giuro, ti verrò a cercare anche in capo al
mondo per ucciderti con le mie mani.»
Axel non si mosse. Oltre i
suoi capelli biondi, oltre le figure silenziose di Sora e Kairi,
guardò Roxas; si era seduto di nuovo e aveva
gli occhi fissi su di lui, ma quando si scoprì osservato voltò subito
la testa, con un sorrisetto timido. Sorrise a sua volta e si ritrasse
perché Naminè potesse vedere la
sicurezza e la sincerità con cui le rispose.
«Non
c’è pericolo.»
La ragazza annuì,
convinta. S’incamminò per recuperare la borsa da viaggio che aveva
lasciato sul pavimento, accanto alla fila di sedili. Volse intorno un ultimo
sorriso e un ultimo saluto.
Dagli altoparlanti
dell’aeroporto si diffuse una voce femminile dall’inflessione
meccanica.
«Attenzione: ultima chiamata per il volo
delle quindici e trenta diretto alle Destiny Islands...»
Roxas alzò lo sguardo
su Naminè. «Tornerai
quest’estate?»
Lei sorrise. Le
sfuggì una lacrima. «Certo che tornerò.»
Doveva essere la prima
volta che Roxas chiedeva apertamente la vicinanza di
qualcuno, da quando...
No... Axel se ne rese conto all’improvviso. No, non è la prima volta.
«E dai, bimbo, non prendertela. È che
mi hai sorpreso, tutto qui.»
«Credimi, sorprende anche me. Solo che... ho
qualcosa da fare lì. E ho pensato che forse tu...»
L’aereo divenne scia e la scia divenne
cielo.
Roxas si alzò di nuovo
in piedi, oltrepassò Sora e Kairi – che
lo guardavano in silenzio, con l’aria di chi ha appena cominciato a
credere ai miracoli – e andò ad aggrapparsi alla spalla di Axel.
«Andiamo a
casa.»
Gli altri annuirono e li
precedettero fuori dall’aeroporto, nella luce smorta di un ennesimo
tramonto.
Axel sostenne Roxas con un braccio. Come altre volte, si stupì di
quanto sembrasse piccolo anche quando non era seduto su quella dannata sedia a
rotelle. Il ragazzino arrossì quando lui lo strinse, e cominciò a
muovere i piedi a testa bassa.
S’incamminarono
così come erano arrivati. Pochi passi davanti a loro, Sora stringeva la
mano di Kairi. Axel non
riuscì a trattenere un sorrisetto.
«Che
c’è di tanto buffo, stavolta?»
Si voltò per scoprire
che il biondino lo sbirciava di sotto in su, ancora un po’ paonazzo.
«Niente, niente...
Una cosa che mi ha detto la tua amica.»
Roxas sollevò la
testa, incuriosito. «Perché? Che ti ha detto?»
Axel sorrise più
apertamente. Si chinò e posò un bacio sulla sua tempia.
«Magari prima o
poi ti racconto.»
L’altro distolse
lo sguardo e arrossì ancora di più, ma il luccichio nel suo
sguardo aveva tutta l’aria di essere di divertimento. La mano con cui si
teneva alla sua spalla gli strinse più forte la felpa.
«Axel...»
«Cosa
c’è?»
Roxas tacque per un attimo,
apparentemente concentrato sui passi di Sora e Kairi,
forse augurandosi che non si voltassero all’improvviso ad interromperlo. Lui se l’augurava di certo. Alla
fine lo vide sorridere.
«Il giorno
dell’udienza» mormorò, «andrà tutto bene. Lo
so. Fidati di me.»
Axel non rispose.
Continuò a camminargli accanto, guardando la strada.
In cuor suo, sentiva di
potersi fidare di Roxas mille volte più che di
Tifa Lockhart, di se stesso o di chiunque altro.
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Già, già. Un capitolo un po’
giù di tono. Non so, dovevo congedare Naminè
e non ho saputo farlo meglio di così. Personalmente penso che quella
ragazza si meriti più attenzione; non siate crudeli con lei ç_ç
Ci avviciniamo al processo. Axel e Demyx saranno giudicati
colpevoli o innocenti? Ai posteri l’ardua sentenza... No, aspettate:
quella è un’altra storia. xP
Grazie come sempre di essere qui. A tutti
voi. <3
Aya ~