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Autore: J i n    11/07/2011    1 recensioni
[ SOSPESA ] - « Quando fui accanto a lui mi lanciò una breve occhiata e subito dopo scoprì il volume. Rimasi quasi senza fiato. Era un tomo rilegato splendidamente. Sulla copertina in pelle si scorgevano diverse figure mitiche e molte figure tribali che si riproducevano anche sulla costa perfettamente conservata. La prima cosa che saltava all’occhio era l’assenza totale di parole. Né un titolo né tantomeno un autore. Non che me lo fossi aspettato. Anche da chiuso aveva un’aria solenne. » - Fic iniziata nel 2009 che ho deciso di riprendere in mano... e di cercare di portare avanti. Si spera xD Buona lettura!
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La Confraternita della Rosa

 

 

Capitolo Primo

«Blake! Per favore, scendi di sotto?»
«Scendo subito zia!», gridai sporgendomi dalla finestra. Posai il libro che stavo leggendo, infilai le scarpe da ginnastica, presi il cellulare, uscii dall’appartamento, mi precipitai giù per le scale – dalle quali rischiai di ruzzolare rovinosamente – ed entrai nel negozio d’antiquariato di mia zia.
«Eccomi!», dissi spalancando la porta a vetri e facendo tintinnare i tubicini d’ottone del campanello sospeso sopra di essa. Il negozio della zia era un piccolo spazio ma molto luminoso. Le vetrate che davano sul marciapiede facevano entrare tutta la luce calda del sole. I mobili all’interno erano di un piacevole color beige ed al soffitto erano appesi tantissimi lampadari a bracci. Sulle mensole delle librerie erano disposti pezzi di argenteria, vasi antichi, piccoli soprammobili e oggettini d’arredamento. Alle pareti facevano la loro comparsa diverse ed inquietanti maschere etniche, tappeti persiani ed arazzi recuperati non so dove. Sulla parete di fondo in un angolo si apriva la porta che dava sul piccolissimo magazzino che in sostanza era poco più grande di uno sgabuzzino ma che conteneva molte più cose grazie agli enormi scaffali che ci avevamo sistemato dentro in modo strategico. Mi avvicinai al bancone sul quale zia Rachel stava chiudendo uno scatolone di media grandezza con lo scotch da pacchi.
«Dimmi», dissi tamburellando sul legno con le unghie fissando lo scatolone con curiosità. A differenza delle altre volte non c’era scritto sopra niente, nemmeno un numero né una lettera. Ero quasi certamente sicura che dentro ci fossero vasi o qualcosa del genere, in ogni caso.
«Tesoro, puoi portare questo tra la 25ma e Johnson? Io ho il negozio pieno, non posso muovermi»
«Ma certo zia. Non preoccuparti», dissi guardandomi intorno. Solo in quel momento mi accorsi che il negozio era veramente pieno. C’era gente ovunque che dava un’occhiata a qualsiasi cosa le capitasse sotto tiro. Solo una volta ci era capitata una cosa del genere. All’inaugurazione, due anni prima. Presi lo scatolone e con attenzione, salutando la zia e schivando miracolosamente alcuni clienti che mi si paravano davanti all’improvviso, uscii dal negozio e mi avviai verso la strada assolata della venticinquesima. Il sole mi coceva la testa. Sentivo le gocce di sudore scivolarmi lungo la schiena. Sapevo esattamente dove andare. Il Collection era il più importante negozio d’antiquariato della città, nonché il più grande. Oltretutto poteva vantarsi di collaborare con il museo archeologico e quello delle scienze naturali della città.
Le mie scarpe producevano uno strano rumore sull’asfalto mentre mi chiedevo che cosa effettivamente contenesse lo scatolone che stavo trasportando. Dal rumore non sembravano vasi e, in effetti, era un po’ troppo leggero perché lo fossero realmente. Doveva essere qualcos’altro, per forza. Non ebbi molto tempo per pensarci perché pochi minuti dopo mi trovai davanti alla porta a vetri rossa del Collection. Entrai spingendola con la spalla e i ritrovai nell’ambiente familiare nel quale ero stata molte volte. Un’ondata di frescura offerta dall’aria condizionata mi rigenerò.
«Ciao Matt!», salutai con un sorriso.
Matt era il mio migliore amico sin dai tempi dell’asilo. Da quando si erano separati i suoi genitori viveva da solo con suo padre, mentre io da quando si erano separati i miei avevo deciso di andare a vivere con mia zia, con il consenso di entrambi, peraltro. Ero sicuramente più felice con zia Rachel che con Jonathan Oliver, avvocato che stava fuori casa venti ore su ventiquattro, e Michelle Moore, avvocato anch’essa. In pratica stavo sempre in casa da sola, quindi quando loro si separarono gli dissi che la mia intenzione era di andare a vivere con zia Rachel, anche perché era là che stavo quando loro non c’erano. Per tornare a Matt, era un bel ragazzo. Alto, capelli scuri, occhi azzurro-blu, lineamenti delicati. Aveva la mia stessa età, eravamo cresciuti insieme tra casa nostra e tutto il vicinato. Anche lui aveva lasciato la scuola al secondo anno delle superiori come me ed alle medie avevamo avuto una sottospecie di storia, per modo di dire. Adesso, tuttavia, eravamo solo grandi amici.
«Ciao Blakie! Ti ha mandata la zia?»
«Sì, e chi sennò?», dissi poggiando delicatamente lo scatolone sul bancone. Mi ci appoggiai con i gomiti e ripresi fiato. Dopo essermi ripresa guardai male Matt e lo avvisai puntandogli l’indice contro.
«Non mi chiamare più Blakie, lo sai che lo odio»
«Okay, come vuoi. Che hai qui dentro?», mi chiese battendo una mano sullo scatolone. Io alzai le spalle, indifferente, ma in realtà morivo dalla curiosità di sapere che cosa contenesse. Purtroppo però la zia mi proibiva categoricamente di vedere le merci destinate al Collection.
«Non lo so. Sai che non posso vederle», dissi e ancora una volta venni rapita dall’atmosfera magica che si respirava in quel posto. Statuette egizie, candele, incensi, ciondoli, scacciapensieri erano appesi ovunque. Su ogni mensola, comodino o ripiano c’era un piccolo oggettino ornamentale. Mi sentivo bene là dentro. Gli appassionati di magia e scienze occulte avrebbero detto che erano presenti vibrazioni positive. Io, che non rientravo in quella categoria, non sentivo nulla se non un reale senso di benessere.
«Ci diamo un’occhiata?», mi chiese sorridendo, riportandomi alla realtà. Gli sorrisi di rimando ma non con lo stesso entusiasmo. Sapevo che lo faceva solo per stuzzicare me e la mia dannata curiosità. Per questo mi obbligai a scuotere la testa, rassegnata. Avevo sbirciato dentro agli scatoloni anche troppe volte.
«Stavolta passo», dissi sedendomi sul bancone ed incrociando le gambe.
«D’accordo… se proprio non vuoi», disse alzando le sopracciglia e prendendo lo scatolone per metterlo sotto al bancone. Quando si rialzò notò qualcosa di strano che io effettivamente non avevo nemmeno scorto.
«Porti ancora quelle scarpe?», mi chiese sbalordito. Io seguii il suo sguardo e rintracciai le mie scarpe da ginnastica blu scuro. Non ci vedevo niente di strano, o quantomeno grottesco, quindi lo squadrai alzando un sopracciglio.
«Perché?»
«Perché sono… vecchie!», esclamò. Abbassai immediatamente il sopracciglio e gli rifilai uno sguardo omicida. Nessuno poteva dire che le mie scarpe erano vecchie, inoltre, le avevo comprate assieme a lui qualche anno prima. Era stato lui a consigliarmele e lui a commentarle con i pollici in alto in stile “imperatore romano”. Matt provvide subito a rimediare alla situazione, ma era già troppo tardi.
«Oh, no. Scusa Blake, non… non volevo veramente dire che…», lo zittii con un cenno della mano e chiusi gli occhi assumendo un’espressione fintamente offesa.
«Le mie scarpe non sono vecchie…», proferii fiera di me stessa «sono vissute e piene di personalità», conclusi poi alzando il mento. Ero sicura che mi stesse guardando come una pazza ma a me non importava. Le mie All Star avevano davvero molta personalità e carattere. Erano delle nonne, ma delle nonne piuttosto arzille che mi portavano dovunque. Saltai giù dal bancone e battei le mani l’una contro l’altra prima di salutare il mio migliore amico con un bacio sulla guancia. Mi avviai verso la porta quando lui mi fermò.
«Blake?»
«Sì?», risposi voltandomi.
«Sicura di non voler vedere che cosa c’è nello scatolone?», mi chiese alzando un sopracciglio come aveva fatto poco prima. Io lo fissai di sbieco, poi scossi di nuovo la testa, uscii dal Collection e lo salutai con la mano dalla vetrata prima di cambiare idea, tornare dentro ed aprire la scatola.
Fuori era più fresco di prima. Capii il perché quando alzai lo sguardo e vidi addensarsi dei nuvoloni neri sopra la mia testa. Accelerai il passo e in poco tempo fui di nuovo al Once Upon a Time di mia zia. Entrai e mi guardai attorno distrattamente. Tutta la gente di prima non c’era più e nemmeno zia Rachel.
«Zia?», chiamai. Nessuna risposta. Mi aggirai furtivamente per tutto il negozio. Alla fine entrai nel piccolo magazzino improvvisato e la trovai arrampicata su una scaletta nel tentativo di raggiungere le scaffalature più alte. La guardai con le mani sui fianchi per qualche secondo, poi decisi di far notare la mia presenza schiarendomi la voce.
«Zia, che fai lassù?»
«Oh, ciao tesoro. Niente, stavo cercando una cosa», disse vagamente. Non cercai di indagare oltre – lo sgabuzzino era il suo regno – ed uscii. Non feci in tempo a fare due passi che mi sentii chiamare di nuovo.
«Blake?».
Mi voltai facendo una giravolta sul piede destro e tornai allo sgabuzzino.
«Sì?», dissi sbucando dalla porta con la testa.
«Hai visto Matt? C’era lui al Collection?»
«Sì, perché?».
Non ero del tutto sicura di dove volesse andare a parare. Era sempre molto vaga. Mi guardò dall’alto della sua postazione con un sorrisino sulle labbra ed allora capii. Aggrottai la fronte ed arricciai le labbra, preparandomi alla successiva affermazione che avrebbe fatto.
«Ti piace, non è così».
Ecco appunto.
«Zia!», esclamai ed uscii dallo sgabuzzino. Ogni volta che mi mandava al Collection o che uscivo con Matt mi chiedeva sempre se mi piaceva. Probabilmente era convinta che fossimo ancora “innamorati” dai tempi delle medie. Il che non era proprio per niente. Sbuffai in un misto di esasperazione e divertimento allo stesso tempo.
«Che c’è? Era solo una domanda!», la sentii dire e potrei giurare di aver captato un sorriso nella sua voce. Sorrisi anch’io e scossi la testa. Spinsi la porta a vetri dell’ingresso e mi avviai di nuovo verso l’appartamento. Le prime gocce di pioggia si vedevano già sul marciapiede che fino a pochi minuti prima bruciava sotto i raggi del sole. Rimasi a guardarle per un po’. Mi piaceva la sensazione e l’atmosfera che creava la pioggia in piena estate. Era fresca. Ossigenante. Ormai le gocce stavano cadendo sempre più fitte, perciò salii in casa per evitare il diluvio. Era piacevolmente silenziosa. Si sentiva solo il rumore delle macchine che passavano e il leggero suono della pioggia che batteva sul tetto e sui vetri delle finestre. Salii in camera mia, tolsi le scarpe e accesi lo stereo a basso volume. Le note di Be Your Love di Rachael Yamagata si sparsero per tutta la stanza, coprendo lievemente il suono leggero della pioggia. Mi lasciai cadere sul letto e mi addormentai circa mezz’ora dopo ma venni svegliata ancor prima di entrare nel mondo dei sogni dal campanello al piano di sotto. Aprii gli occhi, sbuffai e scesi di sotto ad aprire la porta. Mi trovai davanti il volto bagnato e sorridente di Matt.
«Che ci fai qui?», chiesi con gli occhi spaventati dalla sorpresa.
«Niente. Volevo vedere che stavi facendo», disse continuando a sorridere candidamente mentre io lottavo contro l’istinto di richiudergli la porta in faccia e/o fargli notare che eravamo nel Ventunesimo secolo e che esistevano i telefoni cellulari da diversi anni.
«In realtà mi stavo addormentando. Tu piuttosto, perché sei uscito senza ombrello?», dissi scostandogli una ciocca di capelli bagnati dall’occhio.
«Lo sai che piove, vero?», chiesi sarcasticamente.
«Certo che sì», mi rispose tranquillamente. «Posso entrare?, chiese. Mi spostai dalla porta e lo lasciai passare, fissando dolorosamente le tracce d’acqua che aveva lasciato sul pavimento immacolato. Fece per sedersi sul divano color panna ma lo fermai appena in tempo. Corsi all’armadio a muro del salotto e gli lanciai un asciugamano nero, uno della parure che zia Rachel aveva comprato neanche due giorni prima e che non era stata mai usata. Almeno fino a quel momento.
«Tieni, asciugati. Se bagni il divano mia zia ti uccide», dissi scuotendo la testa e gettandone a terra un altro, asciugando le pozze d’acqua.
«Sì, lo so purtroppo», mi rispose ridacchiando. Dopo aver finito di scompigliarsi i capelli poggiò l’asciugamano di spugna accanto a lui e mi guardò, improvvisamente serio. Non mi piaceva quando faceva così. Cambiava umore troppo in fretta e troppo facilmente.
«Che c’è? Perché mi guardi così?», chiesi leggermente preoccupata. Lui non rispose ma continuò a guardarmi finchè, sospirando, non aprì bocca.
«Ho visto che cosa c’era nello scatolone, Blake…», disse. Io lo guardai tranquillamente. La mia preoccupazione non era servita a niente.
«Quella faccia da “mi è morto il gatto” solo per un vaso? O qualcos’altro, insomma…», chiesi vagamente gesticolando con le mani. Lui sembrava prendere la cosa più seriamente di quanto non fosse. Gli sorrisi ma, vedendo che non sorrideva con me, posai la mano sulla sua cercando di capire che cosa lo tormentasse. Aveva i pugni chiusi ed erano talmente stretti che le nocche gli erano diventate bianche.
«Matt, è tutto okay? Va tutto bene?», gli chiesi preoccupata. Seriamente preoccupata.
«Blake, io…», iniziò a dire ma venne interrotto dalla zia che era entrata proprio in quel momento, gocciolando su tutto il pavimento.

Accidenti, pensai subito.
«Ragazzi, non sapete quanto piove fuori! Non sono arrivata nemmeno a…».
Interruppe la frase a metà vedendoci.
«Vi ho disturbati, vero? Mi dispiace!», esclamò. Era sinceramente dispiaciuta. Scossi la testa e mi affrettai a dire che non c’era stato nessun problema. Dopotutto stavamo solo parlando. Sembrò crederci, così salì di sopra dicendo di andare a farsi la doccia. Mi voltai di nuovo verso Matt che proprio in quel momento si stava alzando e si stava avviando alla porta.
«Matt, aspetta!», lo chiamai afferrandolo per un braccio.
«Che cosa mi volevi dire prima?», domandai. Lui rimase in silenzio per un po’, poi mi diede una falsa risposta: «Niente. Ci vediamo domani…».
E così se ne andò. Io rimasi impietrita a fissare la porta che si chiudeva con uno scatto. Lo sentii scendere le scale di corsa e sentii la porta principale dell’atrio richiudersi sbattendo con forza. Corsi alla finestra e lo vidi camminare lentamente verso casa sua, il cappuccio calato sul viso. Un brivido mi percorse la schiena quando si voltò a salutarmi con la mano. Mi sorrise, sì, ma il sorriso che campeggiava sulle sue labbra non fece in tempo a raggiungere i suoi occhi che era già scomparso. Alzai la mano e mossi lentamente le dita alzando gli angoli delle labbra in una strana parodia di quello che doveva sembrare un sorriso. Quando voltò l’angolo mi girai e trovai mia zia in piedi sul terzo gradino della scala che portava al piano superiore.
«Blake, va tutto bene?», mi chiese. Sapevo che aveva capito che ero preoccupata. Non era da Matt comportarsi così. Poi però pensai che forse doveva aver avuto un momento “no”.

Infondo, tutti li hanno, pensai tra me e me. Scrollai la testa e risposi a mia zia con un sorriso ed un’alzata di spalle. Senza saper bene che fare sistemai i fiori al centro del tavolo da pranzo ed accesi la tv. Sentii il suo sospiro ed i suoi passi leggeri al piano di sopra avviarsi verso il bagno. Quando sentii l’acqua scorrere presi il telefono e composi il numero di Matt. Squillò a vuoto. Lo chiamai più volte nel corso della serata ma non mi rispose mai.
Quella sera mi addormentai con la cornetta del telefono sull’orecchio.

«Blake? Blake, tesoro? Alzati dai, non dormire sul divano. Domattina avrai mal di schiena»
«Mhm…», bofonchiai. Sentii un sospiro rassegnato accanto a me e poi la morbida carezza di un plaid che mi veniva sistemato sulle spalle da qualcuno. La zia, senza dubbio, ma ero troppo intontita per rendermene pienamente conto. Mi riaddormentai subito.

Quando riaprii gli occhi mi sembrava che fossero passati meno di cinque minuti. Mi alzai velocemente come mio solito e una fitta acuta mi percorse la schiena. Aveva ragione la zia. Mi alzai di nuovo, più lentamente, e mi stiracchiai sbadigliando. Il salotto appariva sfocato e i mobili informi. Mi stropicciai gli occhi e tutto tornò alla normalità. Mi cadde l’occhio sulle lancette dell’orologio. Erano le sette del mattino.
Così presto, pensai. Non sapendo esattamente che fare mi alzai, ebbi un leggero giramento di testa come al solito e salii al piano di sopra. Entrai nel bagno azzurro e mi guardai allo specchio. I capelli non erano proprio un disastro ma li pettinai comunque. Dopodichè aprii l’acqua della doccia, mi spogliai ed entrai. Il getto caldo sulla mia pelle di mattina era una sensazione che avevo sempre amato. Mi rinvigoriva e in qualche modo mi rendeva più ottimista. Chiusi gli occhi e lasciai che l’acqua mi bagnasse la testa e il viso. Ripensai al comportamento di Matt di alcune ore prima. Non era mai stato così, per quanto ricordassi. Se oggi l’avessi visto, decisi, gli avrei chiesto chiarimenti. Uscii dalla doccia e mi avvolsi l’asciugamano blu attorno al corpo. C’era così tanta nebbia che non vidi il mobile ed andai a sbatterci contro con il ginocchio. Soffocando un gemito di dolore uscii dal bagno ed entrai in camera mia zoppicando. Mi vestii in fretta e raccolsi i capelli in uno chignon stretto e alto, nonostante fossero piuttosto lunghi, di modo tale che si asciugassero più in fretta. Quando tornai in salotto erano le otto meno un quarto e la zia era già sveglia.
«Buongiorno! Hai dormito bene?», mi chiese ironicamente. Io le lanciai un’occhiata altrettanto ironica.
«Vai pure di sopra, la doccia è libera», dissi. Ripensai dolorosamente alla botta al ginocchio che proprio in quel momento si fece sentire. Non potei fare a meno di fare una smorfia che, purtroppo, non le sfuggì. Era una donna incredibilmente attenta ad ogni più minima cosa.
«Va tutto bene, Blake?», mi chiese.
«Sì, tutto bene. Ho solo preso una botta al ginocchio uscendo dalla doccia», risposi sorridendo «ma in realtà non fa nemmeno più male», confermai mentendo. La verità era che faceva un male cane. Lei mi guardò perplessa e finì l’ultimo goccio di caffè dalla sua tazza che poi ripose nel lavello.
«Allora io vado di sopra, okay?»
«Okay!», esclamai sorridendo allegra. Mi metteva di buon umore iniziare bene la mattina. Dopotutto, come si dice, il buongiorno si vede dal mattino.
«Anzi», disse lei fermandosi e voltandosi verso di me «prima ha chiamato Matt. Ha detto che ha visto le tue chiamate e gli dispiace di non averti risposto. Ha detto che se vuoi puoi richiamarlo oppure vi vedete dopo…»
«Oh, d’accordo. Grazie!».
Da quando in qua prendeva i miei messaggi? Mah. Salì al piano di sopra con un sorriso malizioso sulle labbra che non mi sfuggì.

Sempre con la stessa idea, eh, pensai tra me e me. Meditai sul fatto di chiamarlo subito o no mentre mescolavo il cioccolato nel pentolino. Lo versai nella tazza proprio nel momento in cui suonò il citofono. Sussultai e alcune gocce si riversarono sul piano di marmo bianco.
«Ah, maledizione…», dissi raccogliendole con il dito e portandole alle labbra mentre il citofono continuava a suonare.
«Arrivo, arrivo, arrivo», cantilenai saltellando alla porta per quanto il mio “infortunio” me lo permettesse. Premetti il tasto e parlai nella cornetta.
«Sì?»
«Ehi, sono io. Posso salire?». La voce tranquilla di Matt contribuì a svegliarmi ancora di più.
«Certo! Ti apro subito», dissi sorridendo e premendo l’altro tasto. Il citofono produsse il caratteristico e fastidioso rumore gracchiante e poco dopo sentii il campanello di casa. Corsi ad aprire la porta con la tazza tra le mani. Matt era davanti a me, sorridente solare e allegro. Fu una bella vista dopo il suo comportamento del giorno prima. Dopo il suo incupimento.
«Ciao!», mi salutò esclamando e dandomi il buongiorno. Lo salutai a mia volta e lo feci entrare. Mi sedetti sul divano e portai le ginocchia al petto. Lui mi seguì ma rimase seduto normalmente.
«So di doverti delle spiegazioni per il mio atteggiamento di ieri», mi disse a voce bassa. Io annuii fissandolo. Fece un respiro profondo e iniziò a parlare.
«Ieri pomeriggio ho guardato che cosa c’era nello scatolone che mi avevi portato. Non era un vaso, né si trattava di altri pezzi di archeologia», mi disse. Io lo guardai interrogativa. Passai al setaccio tutto ciò che avrebbe potuto essere. Alla fine me lo disse lui stesso prima che potessi arrivare alla situazione.
«Era un libro».
Rimasi leggermente sbalordita e sorpresa. C’era bisogno di fare tutte quelle cerimonie solo per un libro?
«Ma… se era solo un libro perché non me l’hai detto subito? Al Collection ne avete tantissimi. Perché questo dovrebbe essere diverso?», gli chiesi. Lui continuava a guardarmi con uno sguardo cupo ma che avrei riconosciuto tra mille e che, oltretutto, mi fece venire i brividi.
«Non è una cosa che ti posso spiegare. È una cosa che devi vedere», disse quasi sottovoce. Sospirai. Non avevo idea di che cosa stesse dicendo. Per me quello poteva essere un libro antico come un altro.
«D’accordo», dissi infine «però prima devo avvisare mia zia».
Con un tempismo perfetto, infatti, zia Rachel scese le scale con un asciugamano a mò di turbante a coprirle i capelli.
«Oh, ciao Matt!»
«Zia, noi usciamo okay?», dissi infilando le scarpe ed afferrando il giubbotto contemporaneamente. Dopodichè mi trascinai Matt fuori dalla porta, sulla quale comparve poco dopo la zia.
«Dove andate?»
«Matt mi deve far vedere una cosa al Collection», dissi avviandomi verso le scale «non preoccuparti. Non faccio tardi», le accertai anche se sapeva perfettamente che ogni volta che uscivo con Matt non facevo mai tardi. O, meglio, era lui che non faceva mai far tardi a me. La salutai con la mano mentre scendevamo i primi gradini di marmo. Lo guardai di nascosto. Il suo viso era rilassato, eppure nella sua espressione notavo qualcosa di vagamente preoccupato. Il tragitto fino al Collection fu silenzioso, interrotto solo dalle vico dei passanti, dall’abbaiare dei cani e dal rumore delle auto. Mi fece entrare per prima aprendomi la porta – abitudine che aveva preso sin da quando mi aveva conosciuta – e se la richiuse alle spalle facendo tintinnare i campanelli appesi sopra la porta. Mi voltai appena in tempo per vederlo girare il cartello di avviso ‘aperto/chiuso’ su ‘chiuso’. Mi venne incontro e mi fece segno di seguirlo in magazzino. Non c’ero mai stata prima di allora. Era una stanza indubbiamente più grande del nostro sgabuzzino e molto più fornita. Tutto era catalogato con precisione e riuscii a scorgere di sfuggita alcune etichette scritte a pennarello sugli scatoloni. Non riconobbi quello che avevo portato io il giorno prima. Era nascosto dietro ad altri più grossi che Matt riuscì a spostare con facilità. Si inginocchiò davanti alla scatola e la aprì, estraendo poi con estrema cautela il libro al quale aveva accennato. Era coperto da un panno color crema.
«Vieni», sussurrò. Pensai che avesse paura di svegliare qualcuno che dormiva a pochi metri da noi. Lo seguii fuori dal magazzino e mi richiusi la porta alle spalle mentre lui andava ad appoggiare il libro su un piano lontano dall’entrata. Quando fui accanto a lui mi lanciò una breve occhiata e subito dopo scoprì il volume. Rimasi quasi senza fiato. Era un tomo rilegato splendidamente. Sulla copertina in pelle si scorgevano diverse figure mitiche e molte figure tribali che si riproducevano anche sulla costa perfettamente conservata. La prima cosa che saltava all’occhio era l’assenza totale di parole. Né un titolo né tantomeno un autore. Non che me lo fossi aspettato. Anche da chiuso aveva un’aria solenne. Istintivamente abbassai lo sguardo per poi tornare a guardare Matt.
«Di che epoca è?», gli chiesi. Lui sospirò in risposta, alzando le spalle e sbattendo le palpebre un paio di volte.
«Non lo so»
«Nemmeno tuo padre…?»
«No, nemmeno lui», mi rispose semplicemente, fissandomi. Riuscii a sostenere il suo sguardo solo per pochi secondi, poi tornai a guardare la copertina elaborata del volume. Fissai gli occhi su un punto in particolare. Era un’immagine in un angolo alto, una semplice immagine tribale con all’interno una rosa intarsiata di una bellezza ed una precisione assolutamente mai viste. Ci passai le dita sopra con una delicatezza che non sapevo nemmeno di avere, timorosa di rovinarlo in qualche modo.
«È così… solenne», constatai. Non mi veniva in mente un’altra parola adeguata a quello che stavo vedendo.
«Mai vista una cosa del genere»
«Ho l’impressione che sia dell’epoca medievale… o giù di lì», disse Matt gesticolando. Mi voltai verso di lui con un’espressione strana e sospetta.
«O giù di lì?», ripetei.
«Sì. Insomma, è papà l’esperto… io tengo d’occhio il negozio, nient’altro», mi disse continuando a gesticolare. Lo presi per i polsi e gli misi le mani lungo i fianchi, zittendolo.
«Beh, se tu già sei riuscito a dargli un’epoca storica per approssimativa che sia… sei tu l’esperto, mio caro Watson!», dissi assumendo un’espressione fiera. Mi avvicinai a lui posandogli una mano sulla spalla e ci appoggiai il mento.
«Dai. Dopotutto è un libro, no?», dissi. Lo sentii annuire e sospirare.
«L’hai già aperto?», domandai. Lui scosse la testa.
«No, non ancora», mi disse.
Mi tornò in mente una sua famosa battuta per farmi cedere e decisi di usarla stavolta in mio favore.
«Ci diamo un’occhiata?», gli chiesi alzando un sopracciglio e spostando lo sguardo dal tomo a lui. Mi guardò di sbieco, poi sorrise. Aveva capito che avevo preso da lui. Alzai le spalle e lo guardai di nuovo.
«D’accordo. Apriamolo», esclamò ad un tratto. Mi sorrise e si avvicinò al libro. Sollevò la copertina di poco, per guardarmi.
«Sei sicura?», mi chiese serio. Io annuii energicamente, sorridendo appena. Annuì a sua volta e trattenemmo entrambi il respiro mentre lui sollevava la copertina rigida…

 

 

 

 

 

Angolo Autrice

Salve a tutti!

Bene, primo capitolo di una nuova Fic – originale stavolta, diciamo una piccola pausa da Eleventh... che comunque non mi passa nemmeno per la mente di interrompere eh, sia chiaro – che poi tanto “nuova” non è, anche perché in effetti l’ho iniziata nel 2009, poi oggi sistemando le scartoffie in camera da letto me la sono ritrovata tra le mani e mi sono detta… perché non continuarla?
Quindi, appunto, ecco qui il primo capitolo. Che dire… spero vi piaccia! E in ogni caso fatemi sapere che ne pensate! Grazie mille!

xoxo Jin

 

 

 

 

 

 

 

© Be Your Love by Rachael Yamagata (WMG – Warner Music Group)

© Blake, Matt e tutti i personaggi de “La Confraternita della Rosa” by me ;) (Nicole Gasperi)

 

 

 

 

 

  
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