ENTRO LE MURA DEL CASTELLO
Il sole
che, alto nel cielo azzurro, batteva i suoi raggi rigogliosi sulla campagna
desolata;
qualche viandante che, percorrendo i radi sentieri, appariva come un puntino
lontano; il
cortile che formicolava di gente indaffaratissima nel proprio lavoro: questo
era il paesaggio che si offriva al mio sguardo. Restavo
a fissarlo per ore, appollaiata su uno dei punti più alti del castello, con il
cuore colmo della calda speranza di chi attendeva. Io aspettavo lui, mio
marito. Cavaliere valoroso, aveva fatto solenne giuramento di fedeltà al nostro
signore, mio padre. Questi, in premio, gli aveva dato me in sposa. Non lo
amavo, ma provavo per lui grande affetto. Era inevitabile restare incantata da
tanta dedizione e da tanta bontà. Mi sentivo protetta al suo fianco, mi sentivo amata. Per me, che ero cresciuta senza l’affetto di una madre, troppo
occupata dai vizi mondani per curarsi di una bimbetta che altro non chiedeva se
non un sorriso sincero, quel matrimonio era stato una benedizione.
Finalmente c’era qualcuno che mi donava quello che per lunghi anni avevo cercato invano.
Infine, però, la smisurata ambizione del mio
signore e padre, aveva rovinato tutto. Aveva
fatto dichiarazione di guerra, soleva giustificarsi, solo per evitare che fossero gli stranieri ad invaderci per primi. Così, sempre a
suo dire, li aveva giocati sul tempo. Mai una volta gli era balzata alla mente
l’idea che quello che ne avrebbe subito di più le
conseguenze,
sarebbe stato il suo popolo.
Con il mio sposo molti altri erano partiti,
e da mesi non erano poche le mogli, i figli, le sorelle, le madri, che
aspettavano in silenzio una qualche notizia sulla loro sorte. Di tanto in
tanto, dalle deserte stradine di campagna subito fuori le mura del castello, si
vedeva arrivare un messo a cavallo, recando in mano lo
stemma della nostra casata. Allora, tutte le guardie rimaste a palazzo si
precipitavano ad aprire le porte per farlo passare, e quello, il fiato ancora
corto, dopo aver sorseggiato grossi boccali d’acqua, si presentava al cospetto
del suo padrone e gli forniva nuove sull’andare della guerra. Io restavo in
disparte, trattenendo il fiato ogni volta che il messaggero comunicava il
numero delle perdite, delle quali nessuno mai faceva il nome. Silenziosa,
allora, tornavo nelle mie stanze con la sola compagnia
delle mie dame, tutte timorose per il destino dei loro innamorati e dei loro
fratelli. Quando ci rintanavamo lì, sole ed
indisturbate, recitavamo preghiere. Era l’unica cosa che ci rimaneva da fare. Triste era il nostro sguardo, smunti i nostri volti: sapevamo che la guerra non stava andando per
il meglio, e già troppe erano state le vittime. Il mio signore era preoccupato,
glielo si leggeva in viso, e ogni qual volta gli si rivolgeva la parola
diveniva più intrattabile di quanto non fosse solitamente.
Con la guerra non solo
le perdite umane erano diventate ingenti, ma anche i capitali impiegati per
finanziare quella barbarie stavano venendo meno. Le casse si stavano
impoverendo, e sempre più gente si presentava alle nostre porte per chiedere
sostentamento e riparo: i nemici ci avevano respinto entro i confini dei nostri
territori e, minacciosi, ora
avanzavano risentiti.
Da un po’ di tempo avevo preso a vagare per
il cortile, in mezzo a quella povera gente che piangeva la sorte avversa.
Cercavo, insieme alle mie ancelle, di alleviare le loro pene,
offrendo viveri e cure a chi ne avesse avuto più bisogno, a partire da anziani,
partorienti, infermi. I bambini che soffrivano la mancanza di latte, le cui
madri morivano durante il parto, non sempre trovavano qualcuno che si prendesse cura di loro. Il cuore mi si stringeva di
compassione, ma con ferrea volontà mi davo da fare, per quanto mi era
possibile, per curare le ferite inferte da mio padre al nostro popolo.
Mia madre trovava indecoroso che la figlia
del sovrano si aggirasse tra la povertà di quella che lei definiva “gente
plebea e nauseabonda”, e sosteneva che essa non aveva bisogno di nulla poiché già mio padre faceva anche troppo per tutti
loro, ospitandoli entro le mura del nostro castello. Prima o
poi, se quelle persone continuavano a presentarsi alle nostre porte, non
ci sarebbe più stato spazio a sufficienza per tutti, diceva; e anzi, il nostro
signore avrebbe fatto meglio a scacciare via anche quelli che già si trovavano
nel cortile, perché di sicuro erano avvoltoi che approfittavano della nostra
benevolenza per rubarci il cibo da tavola: da quando era iniziata la crisi,
infatti, per colpa di quegli “avvoltoi” a palazzo non si erano più tenuti banchetti
lussuosi, e il re suo marito non le aveva più fatto dono di abiti e gioielli.
Viziata e altezzosa, mia madre aveva così ottenuto dal suo sposo che mi fosse proibito l’accesso al cortile del castello. Giorni
ancor più bui, avevo pensato quando mi era stata
comunicata questa loro decisione, si preparavano per le vere vittime di quella
guerra.
Fame e miseria, vedevo dall’alto delle mie
stanze; gente disperata che cercava riparo presso il nostro signore che, invece, le respingeva senza indulgenza. Col passare
dei giorni cominciavano a levarsi alte in cielo delle nere colonne di fumo,
lontane ancora, ma sicuramente troppo vicine per non destare preoccupazione.
Chi ancora credeva di essere al sicuro entro le mura, ora cominciava a temere.
Poi, anche il fumo era scomparso. Nessuno più veniva a cercare rifugio. Erano
trascorse due settimane di calma apparente.
Infine, dopo tanto dall’ultima volta, era
stato avvistato un cavaliere dirigersi verso il castello, menomato. Era uno dei
compagni di mio marito: ero riuscita a
riconoscerlo nonostante il viso stravolto dalla fatica e dalla sofferenza.
Tutti, a corte, sembravano pendere dalle sue labbra. L’amara verità era che il
nemico si trovava ancora nelle vicinanze, aveva sbaragliato il nostro esercito,
e aveva trucidato i nostri soldati. Solo lui, seppur
ferito in modo grave, un braccio monco, era stato risparmiato. Ma con un unico
intento: quello di far sapere al nostro re che se solo ci avesse riprovato, non
avrebbero esitato a dar fuoco alle campagne e a
prendersela con la povera gente; e in ultimo, ad assalire il castello.
Il volto di mio padre era avvampato per
l’ira: il suo facile piano di conquista era fallito miseramente per aver sminuito quella che si era ora dimostrata un’autentica
carneficina. Egli che, comodo in poltrona, orgoglioso come pochi altri, non
aveva accettato quella clamorosa sconfitta, già meditava vendetta.
Io, invece, non ero riuscita ad ascoltare
più niente, la mia mente che si era come spenta su un unico pensiero. Piano,
con la pena nel cuore, mi ero avvicinata a quella pover’anima
che aveva vissuto l’inferno sulla propria pelle, giacendo ora
quasi esangue e circondato solo da poche donne che cercavano di curarne
le ferite. Non ero riuscita quasi ad aprire bocca, le parole non volevano
venire. Quello, però, avendomi letto l’angoscia negli occhi, non era stato
capace di dirmi che due sole parole: «Mi dispiace».
Avevo annuito in silenzio, le lacrime ad
appannarmi la vista. E mentre chinavo il capo come a volermi sottomettere al
destino, mi ero carezzata con entrambe le mani il
ventre rigonfio: la creatura che di lì a poche settimane sarebbe venuta alla
luce, non avrebbe mai conosciuto suo padre.