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Autore: Helen Lyra Malfoy    12/07/2011    0 recensioni
"Non dimenticherò mai il 5 maggio del 1860. Giorno in cui 1162 volontari partirono da Quarto per conquistare il Regno delle Due Sicilie...Un giorno che ha cambiato le nostre vite...che ha cambiato la mia"
Cristina Trivulzio di Belgioioso racconta uno dei momenti più importanti della storia dell'Italia...e della sua vita.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
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Ciao a tutti! Questa è la prima storia in assoluto che pubblico e devo dire che sono molto emozionata!
In realtà questa storia è già stata pubblicata, esaminata e letta da circa 20 insegnanti per un concorso indetto dalla regione in onore dei 150° dell'unità d'Italia. Nonostante io non abbia vinto (sigh) sono comunque fiera di questa storia: mi sono divertita a scriverla e in più ho guadagnato un ottimo rapporto con la mia professoressa d'italiano (e un bel 10 =D)
Detto questo vi lascio alla mia storia, che spero vi piaccia!
Un bacio, Helen

 


Gli uomini sono propensi a dimenticare le cose che non li riguardano direttamente. Tutto ciò che non li “tocca”, che non apporta nessun cambiamento nella loro vita, viene accantonato in una zona remota della mente. Come il nome di un conoscente, e le date poi, quelle sono le prime ad essere accantonate. Questa volta però…è diverso.

E’ del 5 maggio 1860 che parlo, giorno in cui 1162 volontari partirono da Quarto per conquistare il Regno delle Due Sicilie, iniziando quel processo che avrebbe portato all’unità d’Italia. Un giorno che ha cambiato le nostre vite…che ha cambiato la mia.

Sono nata la notte del 28 giugno 1808, tra lenzuola di seta e mobili in legno scuro, in una stanza che dà su piazza Sant’Alessandro, nel cuore di Milano. Figlia di Gerolamo Trivulzio e Vittoria dei Marchesi Gherardini fui battezzata poco dopo con il nome di Cristina Maria Beatrice Teresa Barbara Leopolda Clotilde Melchiora Camilla Giulia Margherita Laura Trivulzio, ma altro non so dirvi.

Dei miei primi anni non ricordo molto. Ricordo il sole caldo sulla mia pelle e le cicale nella villa estiva, ricordo la risata di mia madre, così allegra e gioviale da rendere la giornata più bella ai miei occhi di bambina, ricordo il profumo di mio padre, scomparso all’età di 32 anni. Profumava…di miele.

Mia madre non pianse a lungo al suo capezzale: era una donna allegra e solare alla quale “l’aria triste non donava” e poco tempo dopo sposò Alessandro Visconti.

Io, invece, introversa e timida, mi chiusi in me stessa, diventando “melanconica, seria, introversa, tranquilla, talmente timida che mi accadeva spesso di scoppiare in singhiozzi nel salotto di mia madre perché credevo di accorgermi che mi stavano guardando o che volevano farmi parlare”.

Così, timida e gracile in una famiglia allargata, tra il disinteresse della mia frivola madre e lo stato febbrile del mio patrigno, mi dedicai allo studio. Come ogni signorina di buona famiglia ampliai le mie conoscenze di musica, di canto, di disegno e di lingua francese con l’aiuto della mia maestra, e in seguito amica, Ernesta Bisi.

E fu proprio lei a sostenermi nei momenti più bui e ad insegnarmi ciò che non avrei dovuto imparare. Lessi molti scritti degli illuministi del secolo precedente, coloro che avevano sostenuto la rivoluzione francese con il motto “Libertè, egalitè, fraternitè” collaborando alla caduta dell’ “Ancien régime”. In me cominciarono a formarsi quelle idee che una ragazza di buona famiglia non avrebbe dovuto avere, mi creai un preciso pensiero politico, sostenendo l’idea di un’Italia libera dall’oppressore straniero e l’idea dell’uguaglianza di ogni singolo cittadino, indipendentemente dalla situazione finanziaria o dal luogo di nascita.

Così, seppur timida e discreta, cominciai a far preoccupare mia madre, che desiderava vedermi sposata e felice. Un po’ per rimediare alla “gravosa situazione”, un po’ per dispetto, mi promise ad un cugino. A quel tempo avevo 16 anni e, nonostante avessi letto buona parte dei libri esistenti, ero una giovane ereditiera dalla dote invidiabile, piuttosto ingenua, che aveva messo gli occhi su un bel ragazzo. Emilio Barbiano di Belgioioso era tutto ciò che una giovane signorina poteva desiderare: giovane, bello e piuttosto conosciuto tra le donne dell’alta società per il suo fascino, capace di incantare anche gli animi più freddi, e fu così che egli divenne per me un pensiero fisso. Grande eroe di guerra a suo dire, dai modi e pensieri simili al mio, seppe conquistarmi e a nulla valsero le lamentele di mia madre o gli ammonimenti delle signore dalle ampie gonne. Il 24 settembre 1824 venne celebrato un fastoso matrimonio nella chiesa di S.Fedele a Milano, nel quale aggiunsi al mio già vasto nome “Belgioioso”.

Intanto, curiosa come non mai, cominciai anch’io a sentire quelle voci, quel mormorio non ben distinto che si levava dalla nostra terra. Mi accorsi ben presto che c’erano persone come me, che avevano intuito che bisognava pensare al futuro dell’Italia, quella nostra terra che, ormai dilaniata dai contrasti interni e dalle potenze straniere, sarebbe presto scomparsa.

Vi era un imprenditore, Camillo Benso conte di Cavour, di idee liberali, che proponeva un’Italia unita sotto il dominio dei Savoia, ed era un sostenitore del progresso e dell’industrializzazione. Gioberti, insieme ad altri cattolici, riteneva che l’unico modo per ottenere un’Italia unita fosse la creazione di una confederazione di stati sotto la guida del Papa. Giuseppe Mazzini, invece, insieme ad altri repubblicani, desiderava la formazione di uno stato unitario con un governo repubblicano. Le sue parole erano: << Costruire […] l’Italia in Nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana>>. Sebbene questi uomini fossero in disaccordo sullo “strumento”, l’obbiettivo era ben chiaro a tutti: l’Italia doveva diventare uno stato unitario. Questo lo aveva capito anche il popolo che, ormai stanco delle continue lotte interne, inconsapevolmente, si preparava ad un gran cambiamento.

Cominciarono a formarsi delle società segrete, come la Carboneria, inizialmente nata per contrastare Murat, provocò i primi moti rivoluzionari nel 1820 con lo scopo di ottenere una costituzione e la libertà dal regime borbonico, altri moti rivoluzionari avvennero tra il 1830 e il 1831 in Emilia Romagna, portando alla formazione di uno Stato delle Province Unite Italiane.

E mentre nel 1831 Mazzini fuggiva a Marsiglia, fondando la Giovine Italia, anch’io fuggivo verso Parigi.

Avevo infatti scoperto che essere una tra le donne più influenti di Milano aveva pregi e difetti. Io, nipote del ministro plenipotenziario d’Austria, più volte sarei dovuta finire in prigione a causa delle “mie pericolose amicizie” e per la “particolare situazione matrimoniale”. Avevo infatti lasciato mio marito e la sua carrozza “a due piazze” per potermi dedicare alla vita politica, intrattenendo rapporti epistolari con alcuni membri della Carboneria. Questo ovviamente non era passato inosservato agli Austriaci, che non volendo inimicarsi l’alta società milanese, mi controllavano, attraverso delle spie, aspettando il momento giusto per catturarmi. Sentendomi in trappola, circondata e senza alcuna difesa, feci l’unica cosa che sapevo fare: scappare.

Inizialmente fu davvero difficile. Ero sola, a Parigi, senza amici e senza soldi, costretta a rammendare pizzi per guadagnare sufficientemente per sopravvivere. Più volte piansi in quell’appartamentino di place de la Madeleine, rimpiansi di non essermi occupata di un marito, come ogni altra donna, desiderai che la mia più grande preoccupazione diventasse il the delle 5 con le amiche, e non la politica. Ma piangersi addosso non sarebbe servito a nulla, ed il mio animo patriottico non era facile da placare, così cercai in qualche modo di “risalire”.

Con il denaro spedito da mia madre, insieme ai suoi rimproveri circa la mia sconsideratezza, organizzai un salotto che divenne luogo d’incontro per tutti gli esuli italiani ed entrai in contatto con alcuni tra gli uomini francesi più influenti, come La Fayette, Augustin Thierry, Francois Mignet e tanti altri. Mentre i miei compatriotti combattevano con le armi, io, nel mio piccolo combattevo con la penna, scrivendo articoli che spesso non venivano pubblicati poiché ritenuti pericolosi e facendo ciò che, come ogni aristocratico, sapevo fare al meglio: finanziare e comandare.

Fu nel 1838 che le cose cambiarono. Il 23 dicembre nacque la mia prima ed unica figlia, Maria, ufficialmente riconosciuta da mio marito Emilio solo nel 1860.

La mia visione del mondo cambiò. Sebbene già da prima fossi una donna piuttosto discreta non mi facevo alcuno scrupolo ad esprimere una mia idea, soprattutto politica e, se mi infervoravo, non badavo molto alle parole usate. Sempre pronta a mettermi in gioco, non pensando alle conseguenze, ero spesso impulsiva senza però eccedere in comportamenti sconvenienti.

Ma adesso…oltre a me vi era un’altra persona a cui pensare, qualcuno da difendere e tutelare, una piccola me così innocente alla quale avrei dovuto pensare prima di ogni altra cosa.

Decisi che per i primi anni sarebbe rimasta lontana dai salotti e dalle signore imbellettate, da quel mondo di pizzi e falsità. Volevo crescere la mia bambina al meglio per poterla preparare alla vita fuori da quel nido che avrei preparato per lei. Tornai a Milano, più precisamente a Locate, per evitare le inutili chiacchiere dei signori, e li iniziai la mia grande opera. Nella mia mente vi era il progetto di un mondo ideale, una visione utopica dell’Italia del futuro.

Trasformai la mia villa in quello che Charles Fourier avrebbe chiamato “falansterio”, ovvero un luogo di ritrovo per tutti coloro che desideravano poter stare in famiglia. Fondai una scuola per poter istruire tutti coloro che non avevano la possibilità di studiare, donai la dote alle spose meno abbienti. Mentre la mia piccola Maria cresceva al sicuro e amata in un paese felice, io da lontano seguivo i moti rivoluzionari, pronta ad “scendere in campo” al momento giusto.

Rilevando una rivista patriottica, chiamata “La Gazzetta Italiana”, continuai a scrivere articoli contro gli Austriaci, spesso sotto falso nome, come la mia personale versione della storia della Lombardia, articolo della quale sono tutt’ora molto fiera. Seppur accusata da alcuni miei concittadini, continuai a lavorare per quella mia terra e quelle persone che mi avevano dato tanto.

Nel 1847 decisi di partire alla volta delle grandi città italiane, con lo scopo di riallacciare i rapporti con alcuni degli esponenti della destra, tra cui Cavour. Nonostante fossi repubblicana avevo intuito che, per poter unificare l’Italia, era necessario l’intervento della monarchia Sabauda, e feci visita al re Carlo Alberto, che ascoltò con riluttanza la mia proposta di una “sua” Italia.

Fu un processo graduale a portare l’Italia all’unità. In seguito ai moti rivoluzionari del ’48 ogni stato aveva cacciato i propri sovrani chiedendo l’annessione al regno di Sardegna. Milano, sotto il dominio austriaco, era stata liberata con l’armistizio di Villafranca, ed annessa anch’essa al regno sabaudo. Ad uno ad uno, ogni stato aveva chiesto a gran voce l’unità e il nuovo re Vittorio Emanuele II sembrava ben disposto a concedergliela. Nel 1860 quattro stati componevano l’Italia: il regno di Sardegna, i territori sotto il dominio dell’impero austriaco, lo Stato della Chiesa e il Regno delle Due Sicilie, che divenne l’obiettivo principale per Cavour.

Garibaldi, che si era particolarmente distinto in battaglia con i “Cacciatori delle Alpi”, fu incaricato di costituire un esercito, con i finanziamenti del Regno di Sardegna, per poter conquistare il Regno delle Due Sicilie. L’esercito, costituito da 1162 uomini tra cui volontari di varie regioni d’Italia e anche stranieri, partì da Quarto la notte tra il 5 e il 6 maggio 1860.

Anche se io, ormai cinquantenne, non potei seguirli, per me fu come se fossi stata con loro quella notte.

Erano in 1162 sulle navi. 1180 se contiamo l’equipaggio, ma molte migliaia se consideriamo tutti quelli che, come me, rivolgevano loro il pensiero poiché non potevano partire.

Mi sembra quasi di vederli, tutti pronti a partire. Il sole non è ancora alto e si vedono due gabbiani all’orizzonte. L’aria frizzante come ogni mattina ha l’odore salmastro tipico di ogni porto, e l’umidità è così densa che la si può toccare. Ma nessuno ci fa caso questa mattina, mentre, in silenzio quasi religioso, salgono, anzi, saliamo, su quella nave. Pochi parlano durante il viaggio. Tutti quanti si chiedono cosa troveremo al nostro arrivo, se riusciremo nella nostra impresa o se avessero falliremo.

I ragazzi che Garibaldi aveva portato con sè erano giovani e forti, uomini del popolo e della bassa borghesia, ma prima di tutto uomini, figli e padri di famiglia, pronti a dare la vita per le idee di unità e di libertà.

E per un attimo, un solo istante, immaginando di guardarli negli occhi, mi sentii male per loro e per quelle persone a casa che ne aspettavano il ritorno, e sperai che tornassero indietro. Ma fu un solo istante, perché compresi che, in realtà, questi uomini non stavano andando a combattere per morire. Loro stavano andando a combattere per le loro famiglie, per i loro padri e le loro madri, per i loro fratelli, per i loro figli, per me, per loro e per tutti italiani del passato, del presente e del futuro, e per questa nostra terra, così bella ma così sfortunata.

Sorrisi al pensiero della mia Maria, che si era recentemente sposata ed aspettava già un bambino, e pensai che anch’io avevo ed avrei continuato a combattere per lei e per il mio nipotino, per un futuro migliore.

E pensando a quegli uomini, provenienti da ogni parte dell’Italia, pronti a dare la vita per i loro fratelli capii che l’Italia, la vecchia Italia che conoscevo, in cui i cittadini erano pronti a dichiararsi guerra tra loro, in cui regnavano la corruzione e la falsità, non esisteva più.

Non dimenticherò mai il 5 maggio del 1860. Giorno in cui 1162 volontari partirono da Quarto per conquistare il Regno delle Due Sicilie.

Giorno in cui, proprio come una fenice che rinasce dalle sue ceneri, anche l’Italia, quell’Italia che “o si fa o si muore”, rinasceva.

E con lei anch’io, nel mio piccolo, stavo rinascendo.

  
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