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Autore: CloyingCyanide    15/07/2011    3 recensioni
Questa FF nasce il 17 giugno '09 e deve il suo titolo sia ad una frase di "The Fantasy", sia all'omonima canzone dei The Cure.
Tutto ruota attorno alla storia tra Shannon e Maya, una ragazza italiana con un segreto troppo doloroso da svelare e molte decisioni importanti da prendere.
Se questa fan fiction è qui, lo si deve ad una persona che adoro: Mary. Enjoy it!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scusate il ritardo dell'aggiornamento, ma alcune delle scene di questo capitolo le ho odiate. Non riuscivo proprio a trattarle. Stasera invece pare che si siano ammorbidite. Un po' come le palline di DAS. Speriamo che il risultato sia soddisfacente :D Ah, come al solito non ho riletto... se trovate errori ditemelo, al momento sono troppo fusa per accorgermene (sono le due di notte ò.ò). Grazie mille *-*

Un abbraccio forte a Martina!! Ti voglio bene <3

E un abbraccio anche a Lavy, se no si offende u.u
E anche a Ilaria. Benvenuta qui :D






 
Los Angeles, CA, 26 maggio 2009



La band aveva appena finito di provare Hurricane per l’ennesima volta, dopo ore e ore che i poveri ragazzi erano chiusi in studio a subire la tirannia di Jared. Era buono e caro, per carità, ma quando lavorava troppo diventava a malapena sopportabile. Shannon e Tomo negli anni avevano imparato a farci l’abitudine, ma ovviamente non Maya, che ci abitava insieme da appena due giorni, e tanto era bastato a farle capire che rimanendo in silenzio e in disparte non avrebbe urtato la sua sensibilità.
Jared era stato il primo ad uscire dallo studio, chiacchierando con Emma di un qualche appuntamento dall’avvocato per il giorno successivo. Teneva tra le mani una bottiglina di plastica contenente chissà quale bevanda salutistica rinfrescante. Maya aveva tentato di capire di cosa si trattasse, ma le sue inesistenti conoscenze in quel campo non glielo permettevano. Era solo sicura che non fosse tè. Jared non si sarebbe mai fatto appestare il sangue da una schifezza simile!
Tomo nel frattempo si massaggiava il viso, mormorando qualcosa che la ragazza sentì ma non ascoltò. Non era comunque rivolto a lei, perciò non fece differenza. Si vedeva che era stanco, eppure era sempre sorridente e rilassato.
“Ragazzi, io vi lascio. Vado a prendere Vicki al lavoro” disse alzandosi dalla sedia e facendo attenzione a non inciampare in qualche filo elettrico seminato sul pavimento. Neanche se fosse scoppiata una bomba lì dentro ci sarebbe stato così tanto disordine. Infatti Shannon a volte si lasciava andare a paternali che duravano interi quarti d’ora, nella speranza di riuscire a recuperare almeno qualcosa. Speranze vane.
“A domani!” salutò Maya muovendo piano le dita e reclinando la testa di lato, come faceva molto spesso quando sorrideva.
“Ciao Tomo” disse anche il batterista con un cenno del capo. Aveva ancora le bacchette in mano.
I due rimasero così soli in studio: Maya seduta su un amplificatore inutilizzato e Shannon sul suo sgabello, alla batteria. Si guardarono. Facevano un po’ ridere: lui era praticamente un uomo distrutto, tutto sudato nonostante non avesse fatto grandi cose, invece lei aveva gli occhi piccoli piccoli per il sonno. Il fuso orario stentava ad essere recuperato. In compenso, i segni sul viso stavano quasi sparendo, a parte un taglio sotto l’occhio sinistro, che aveva tutta l’aria di voler lasciare la cicatrice a perpetuo ricordo.
“E adesso?” domandò Shannon mentre riponeva le bacchette in una sacca e si metteva in piedi.
“Io andrei a farmi una bella dormita.”
“Sono le sette del pomeriggio, Maya, resisti.”
“Ho sonno. E ho mal di testa. E ho sonno.”
“Hai sonno, sì, lo so” Shannon le accarezzò alla sfuggita il mento e fece per uscire dalla sala. Si accorse però che Maya non lo stava seguendo, quindi si girò verso di lei, che era ancora lì, seduta sull’amplificatore con la solita aria abbacchiata. “Allora?! Non vieni?”
“Dai, Shan, sono stanca...”
“Ho capito, ma mica puoi rimanere lì per sempre!”
“Uffa” e si massaggiò il viso, come i bambini. Shannon sorrise e chiuse la porta, rimanendo in sala di registrazione. Una simpatica idea si era affacciata alla sua mente. Anzi due. Scartò subito quella più impura in ragione della stanchezza di Maya, che di certo non l’avrebbe aiutato, quindi fece una bella cosa: andò a sedersi al pianoforte.
“Stai per fare quello che penso?”
“Può darsi” si sfregò le mani prima di poggiare con delicatezza i polpastrelli sui tasti bianchi. Chiuse gli occhi. Sapeva suonare il pianoforte da una vita, anche se negli ultimi tempi lo faceva sempre più di rado. Jared ne aveva preso il monopolio. Il fratellino era indubbiamente più bravo e accorto, aveva mani più adatte, una postura migliore e via dicendo. Ma cosa impediva a Shannon, alle sue mani callose e tozze e alla sua anima irruente di avvicinarsi ad un pianoforte? Di sfiorarlo con la stessa delicatezza con cui aveva imparato a rapportarsi a Maya, di farlo con una passione ordinata, di farlo con dedizione e per il solo gusto di fare un piccolo regalo alla persona amata.
Le dita si mossero. Con un po’ di timore, ok. Con la stessa delicatezza di un pachiderma, ok anche quello. Era partito con le intenzioni giuste, ma suonando si era rivelato qualcosa di diverso. Senza più niente nel cervello, rincorreva i tasti. Non poteva farlo con delicatezza perché non c’era Maya lì, sotto le sue dita. Non c’era carne bollente. C’erano tasti, tasti freschi, ed era diverso ma bello allo stesso modo, era una pioggerella fresca d’estate, ricevuta col naso contro il cielo. Era felice, Shannon. Era felice perché quelle note formavano una melodia che lo faceva star bene per davvero, che gli faceva fiorire nella mente le immagini di momenti passati, a ritroso. Mani strette, sorrisi chiari, schiocchi di baci, odore di cappuccino schiumoso e cornetto alla crema. Come quella mattina. Era l’undici di marzo, alle porte di Roma. Shannon, Jared e Tomo erano entrati in un bar per rifocillarsi. E una barista piccola e chiacchierona era corsa a servirli. A stregare lui, Shannon, con un cappuccino e un cornetto alla crema.
E lei era lì, adesso. Era quasi difficile credere che la barista e la sua attuale donna fossero la stessa persona. Era passato poco tempo, ma troppe cose erano successe, tanto da spingere Shannon a suonare una canzone del genere, e tanto da indurre Maya a piangere di gioia, in silenzio, senza farsi scoprire e senza sapere nemmeno perché.
Era una canzone di qualche decennio fa. La suonavano i The Cure. E si chiamava Just Like Heaven.
Shannon concluse la sua esibizione tirando un sospiro. Lasciò che il cuore si riaccomodasse per bene al suo posto e posò le mani sulle cosce. Sorrideva e lo sapeva. In un attimo si ritrovò tra le braccia di Maya che si era lanciata verso di lui e lo stringeva quanto più forte poteva. Gli era grata. Di che? Non lo sapeva nemmeno lei. E intanto si abbracciavano, e si sentivano due idioti, e lui ridacchiava alle frasi farfugliate e sconclusionate di lei che non riusciva ad esprimere la sua felicità. Continuò così per un po’. Si sentivano stupidi, ma non c’era niente di meglio che coccolarsi per illudersi di non essere stanchi.
“Che dici, andiamo a fare un bagnetto in piscina?”
“Ho già il costume” rispose Maya mostrando una bretellina turchese al di sotto della sua maglia bianca.
“Io no. Inizia ad andare, vado a metterlo e ti raggiungo” la incoraggiò con una lieve pacca sulla spalla, quella che non le faceva male. Non voleva rischiare di beccarsi una gomitata sulle gengive per vendetta, come era successo quella stessa mattina mentre si alzavano dal letto.
Maya portò i suoi passi ondeggianti fuori dalla sala, così come Shannon che però prese una direzione diversa svoltando nel corridoio. La ragazza invece proseguì fino al soggiorno e si soffermò un attimo davanti ad uno dei divanetti. Tra i cuscini, acciambellato come sempre, Sky dormiva beatamente.  Era un cane giocherellone e sempre attivo, ma il caldo lo faceva soffrire molto. Lo stordiva. Dopotutto era un husky, e Los Angeles non era proprio il suo habitat, decisamente. Maya si inginocchiò a terra e protese una mano sulla testolina di Sky. Voleva farlo giocare un po’. Era stato solo per tutto il giorno, le dispiaceva. Piano piano il cucciolo aprì gli occhietti, uno azzurro e l’altro marrone.
“Ciao, amore” disse la ragazza mentre la sua mano veniva leccata da un cagnolone quasi felice. Raccolse da terra la pallina blu con cui Sky giocava sempre e gliela fece rotolare davanti al muso, ma la reazione non fu quella che sperava. La pallina venne solo mossa da un paio di zampate lente, poi perse ogni attrattiva.
“Ho capito. Vuoi uscire fuori?”
Lo incoraggiò a saltare giù dal divano spingendolo con dolcezza, ma quello si ritrasse guaendo, un po’ come faceva Shannon quando non gli andava di fare qualcosa. La mora si arrese, dispiaciuta per il malessere del suo nuovo amico, con il quale fin da subito aveva imparato a familiarizzare. Si mise in piedi e prese il telecomando del condizionatore da sopra una mensola. Pensò che l’aria fresca lo avrebbe aiutato a riprendersi. Prima di uscire, si assicurò che la ciotola del cibo e quella dell’acqua fossero piene, quindi diede una grattatina sotto il mento al suo compare e sparì fuori dalla porta a vetri. In giardino, le sdraio erano già pronte ad aspettarla.
 
**


Shannon era tornato, saltellante e felice, con addosso solo un costumino blu attillato. I timidi rotolini di ciccia sui fianchi erano la cosa più tenera di tutto l’insieme. Non che fosse propriamente grasso, a quei tempi. Era gonfio, ecco tutto. Tutta colpa delle medicine per la spalla.
Si sedette sulla sdraio accanto a quella di Maya che nel frattempo si era addormentata. Era davvero molto stanca, seppure non avesse fatto altro che stare a guardare per tutta una giornata, o al massimo strimpellare il basso insieme a Jared per suggerirgli qualche interessante sequenza di note che lui, da solo, non riusciva a trovare. Shannon però voleva evitare che si addormentasse quando ancora era giorno, se non altro per farle recuperare orari normali. Le accarezzò le pancia, calda di sole, e provò a farle il solletico. Piano piano quella rinvenne, mugolando per il troppo sonno e per i “lasciami stare”.
“Niente bagnetto?”
“Boh... sì, magari dopo, adesso voglio riposare un po’” farfugliò lei cercando una posizione comoda sulla sdraio, finché Shannon non la aiutò abbassandole lo schienale in posizione totalmente orizzontale, in maniera che potesse stare distesa. Fatto ciò, il batterista decise di tuffarsi da solo. E così fece. Nuotò poco, due bracciate, poi galleggiò per una manciata di minuti, rilassato. Aveva chiuso gli occhi. Sentiva la tensione abbandonarlo pian piano, defluire via, evaporare. Tutto era tranquillo e silenzioso intorno. Adorava quella pace.
Pace che, peraltro, durò ben poco. Shannon credé di aver perso un battito cardiaco, quando sentì quello “splash” così rumoroso e inaspettato a un metro scarso da sé. Moby Dick era venuto a prenderlo? Beh, più o meno. Una ex balena aveva fatto la sua comparsa nelle placide acque della piscina di casa Leto, ed era una ex balena che non faceva poi così ribrezzo. Aveva un costumino turchese e un nasino all’insù che smentivano ogni ipotesi di pericolosità della ex balena stessa.
“Non avevi sonno?”
“Certo” rispose la ex balena andando ad allisciarsi la sua preda. Gli aveva cinto il collo con le braccia e il busto con le gambe. “Ma non potevo lasciarti da solo.”
“Ah no?”
“No. E poi mi andava di coccolarti” e così dicendo lo baciava e gli accarezzava la testolina che, da bagnata, sembrava esser fornita di un numero di capelli addirittura minore.  “Che facciamo stasera?” 
“Stavo per chiedertelo... Allora, vediamo... La cena con i miei amici non si può ancora fare” disse, stringendo le labbra e andando ad affidare un piccolo bacio alla punta del naso di Maya. Avevano deciso che non sarebbero usciti con l’allegra brigata finché non fossero spariti tutti i segnacci dal corpo di lei. Discreti com’erano, gli amici di Shannon avrebbero sicuramente fatto domande a cui sarebbe stato difficile e doloroso rispondere. Per questo la coppia aveva convenuto che sarebbe stato meglio ritardare l’incontro di qualche giorno.
“Se ti portassi al cinema?”
“Per me va bene, ma ho paura che ti riconoscano e parta l’assalto al Leto.”
“L’assalto al Leto, come dici tu, potrebbe partire ovunque, quindi tanto vale decidere a prescindere. E poi non è nemmeno detto che accada.”
Maya provò a spremere le meningi per cavarne qualche soluzione per la loro serata. La fronte si era aggrottata e il dentino sbeccato teneva prigioniero il labbro inferiore. Goccioline cadevano giù dai capelli bagnati, lungo il viso e fino al collo. Shannon si divertiva a seguirle con lo sguardo o catturarle con le labbra, cosa, quest’ultima, che lo dilettava alquanto.
“Ci sono!” proruppe la balena made in Italy. “Facciamo la pizza? Io e te, qui, a casa! Dai, ti va? Ce l’avete la farina? E il lievito? Eh? Eh, amore, ti va? Ci divertiamo! Ma Jared si ferma a cena qui? Chiamiamo anche Tomo, Vicki e Emma?”
Il batterista fece finta di non essere preoccupato dall’istantanea pazzia causata dall’improvvisa epifania che la sua ragazza aveva avuto. Pizza. Sì, va be’, se proprio non c’erano altre idee... Seratina tranquilla, niente di movimentato, si sta a casa, comodi comodi... ah, già! Pizza! Forse sarebbe riuscito a far mangiare a Maya qualcosa più del solito! Fu per quello che acconsentì.
“Contentissimo, caspita.”
“Bravo Pandaman” gli pizzicò una guancia e saltò fuori dalla piscina. Corse verso la sua sdraio, prese l’asciugamano e se lo arrotolò attorno, infilò le ciabatte e scappò via.
“Dove vai?”
“A preparare l’impasto! E’ tardi e deve lievitare!! Tu intanto chiama tutti, tutti!!”
Tutti? Shannon sospirò e la assecondò. E nel frattempo si convinse che la serata avrebbe anche potuto non essere poi così male.


**


“Jared, adesso basta parlare di lavoro” lo interruppe la sua assistente con un tono quasi da mamma. Emma gli era seduta accanto e proprio non riusciva a vederlo così abbattuto. Lo conosceva da anni, ormai. Aveva imparato a gestire le sue crisi e addirittura a tenergli testa, cosa che non era mai riuscita nemmeno a Shannon.
Il cantante rifugiò entrambe le mani nei capelli lunghi e biondi. I suoi gomiti erano inchiodati al tavolo e arricciavano leggermente la tovaglia. Provò a dominarsi. La tensione accumulata negli ultimi mesi era sempre più opprimente. Sì, la causa con la Emi ormai non si sarebbe più tenuta, il disco era quasi pronto, ma qualcosa non lo soddisfaceva ancora.
Maya provò a tirargli su il morale facendogli scivolare nel piatto, con delicatezza, un quadratino di pizza con le zucchine. Pareva l’avesse apprezzata. Jared ringraziò con una timida occhiata. Non aveva fame e, se aveva mangiato, lo aveva fatto solo per non fare un torto a sua cognata. E poi, odiava a morte le zucchine. A morte! Da quando aveva quattro anni e sua madre gliele scodellava tutti i mercoledì sera! Addentò la pizza, svogliato, e a fatica la ingoiò pezzetto dopo pezzetto.
Suo fratello lo osservava camuffando la preoccupazione dietro il solito sorriso dipinto. “Birra, bro?”
Il biondo scosse la testa, inutilmente. Il suo bicchiere si riempì comunque. Osservava il muoversi delle bollicine sul vetro con sguardo apatico, congelato, senza un vero interesse. Tomo provò a svegliarlo tirandogli il tappo della Coca Cola su un braccio.
“Lasciatelo stare, dai.”
Maya gli accarezzò la testa un paio di volte, prima di alzarsi.
“Vado un attimino in bagno.”
E andò via.
Gli altri continuarono a mangiare o a chiacchierare. Il clima era abbastanza rilassato, a parte Jared che, ombroso, taceva e fissava il vuoto. Ogni tanto si riduceva anche a bere birra per mascherare il saporaccio di zucchine. La sua smorfia di disgusto di certo non poteva passare inosservata. Shannon, com’è ovvio, sapeva del suo odio per le zucchine, e si era divertito un mondo nel vederlo fingere di adorare quella pizza.
“Puoi anche non mangiarla, sai?” lo informò.
“La tua ragazza si offenderebbe se la lasciassi nel piatto” gli spiegò l’altro.
“Dalla a me, la mangio io.”
“Oddio, grazie. Stavo per vomitare.”
Vomitare.
Vomitare.
La mano di Shannon si era tesa per afferrare il pezzo di pizza porto da Jared.
Vomitare.
La mano di Shannon tremava.
La pizza cadde sulla tovaglia.
Vomitare.
Erano passati cinque minuti da quando Maya si era alzata da tavola, e ancora non aveva fatto ritorno.
Uno strano sospetto si fece luce nella mente del batterista.
Shannon si alzò e corse via.
 
**


A volte Shannon aveva la lucidità di scegliere come comportarsi in previsione delle conseguenze dei propri gesti, anche nei momenti dove c’era meno modo e tempo di ragionare.
Avrebbe urlato, sbattuto i pugni sulla porta per entrare.
Le avrebbe detto che non poteva continuare così, che si sentiva tradito per una verità taciuta, che i suoi sforzi non avevano portato a nulla e, soprattutto, che si era stufato di vederla stare male.
Ma non l’aveva fatto. Era sicuro che non avrebbe risolto nulla. Aveva incontrato Maya in corridoio. Troppo tardi. Tuttavia gli era bastato guardarla fissamente per capire che non si era sbagliato. I miti occhi castani che ben conosceva erano acquosi, stralunati, gonfi di un segreto. O forse anche più di uno.
“Cosa cazzo hai fatto...?” esordì, quasi minaccioso. Erano state quelle iridi calde e bisognose d’aiuto a fargli cambiare atteggiamento. La mano che le aveva stretto su una spalla si bloccò giusto in tempo, prima che la strattonasse come l’istinto gli comandava. Strattonarla. Strattonarla le avrebbe fatto tornare in mente qualcosa di orribile, e non era questo che Shannon voleva. La stretta sulla spalla si trasformò in un abbraccio. Fu più un crollo di Shannon su Maya che non viceversa, come avrebbe invece dovuto.
“Non farlo mai più” le ordinò, sottovoce.
“Di che parli?”
Maya aveva capito che ormai non c’era più niente da nascondere, ma così rispondendo sperava di sbagliarsi.
“Lo sai” fu tutto quello che disse lui prima di premersela più forte contro il petto. Il cuore, i polmoni gli esplodevano. Sentiva i tessuti tirare al limite dello strappo. “Dimmi cosa cazzo devo fare per farti stare bene.”
La lacrimuccia facile di Ciampino quella volta, miracolo!, si trattenne. Non seppe nemmeno lei come. Dai suoi occhi potevano sgorgare fiumi anche per minime sciocchezze.
“Fammi sentire che non sono sola su questo mondo.”
Fu tutto quello che disse mentre le labbra di Shannon la fissavano. Erano socchiuse e scosse da sospiri profondi, quelli che si fanno per calmarsi. Shannon non aveva mai pensato che lei potesse sentirsi sola, proprio ora che erano tornati insieme. Se non aveva scavato sotto la superficie, era forse perché gli andava di godersela un po’, questa serenità esteriore. Non era stata la cosa più intelligente da fare, e soprattutto perché lui sapeva che c’era ancora qualche conto in sospeso, ma si era fermato. Si era fermato per recuperare energie e continuare meglio la corsa. Eppure, la piccola donna al suo fianco aveva ancora molti mostri con cui combattere, e da sola non ce la faceva. Non sapeva nemmeno chiedere aiuto. In quel momento, ad esempio, non riusciva neanche  a ricambiare l’abbraccio di Shannon. Se ne stava ferma tra le sue braccia, così, come un manichino. Un manichino di pelle e ossa, e un cuore che batteva in dissonanza col resto del mondo.



** 


Maya guardava davanti a sé. Vedeva un uomo e una donna nudi. Lui era dietro di lei, le baciava la nuca e le accarezzava la pancia, sussurrando qualche parola ogni tanto. La giovane donna sembrava spaventata, e chiedeva aiuto a lei dilatando il profondo nero degli occhi. Maya mosse un passo per raggiungerla, e vide la ragazza fare altrettanto. Erano vicinissime. Allungò quindi una mano, ma non trovò il calore che si aspettava. Era freddo. E non strinse nulla. I suoi polpastrelli avevano urtato qualcosa. Come una parete. Una parete che la separava da loro, da quell’uomo e quella donna dallo sguardo terrorizzato. Tastò di nuovo quella cortina invisibile. E si accorse che era uno specchio.
Riconobbe allora se stessa, in quella donna scarmigliata e pallida. Quello nello specchio, dietro di lei, doveva essere Shannon: il tatuaggio sulla spalla era il suo. Già. Sentì il sesso di lui irrigidirsi un secondo dopo l’altro, e premersi dolcemente contro la parte bassa della sua schiena. La cosa che le sembrò strana fu il fatto che non sembrava volersi intrufolare in lei. Era eccitato, sì, ma sapeva più o meno dominarsi. E lei? Lei a malapena sapeva dove fosse. Il parquet, liscio e fresco sotto i piedi, sembrava quello della loro stanza da letto. Sospirò, rabbrividì. Si chiese se non stesse impazzendo. La mente le giocava brutti scherzi abbastanza spesso, negli ultimi tempi.
Lasciò che Shannon la accarezzasse ancora e alzò il mento per offrirgli meglio il collo. Da così, poteva guardare il soffitto, e non più i propri occhi impauriti riflessi nello specchio.

“Sei bellissima.”

Non sapeva nemmeno come ci fosse finita lì, nuda davanti allo specchio. Trovava il tutto estremamente imbarazzante. Soprattutto quando Shannon la penetrò di colpo con tre dita.
Le diede fastidio. Non seppe spiegarselo. Strizzò gli occhi, ingoiò la saliva e inspirò aria attraverso i denti serrati. Shannon, nel mentre, continuava le sue intrusioni. Lei lo odiava. O meglio, stava per odiarlo. Come altro doveva dirgli che si sentiva fottutamente sola, non fisicamente, ma dentro? Niente la confortava più, nemmeno i sorrisi clementi del suo uomo. Aveva sperato e creduto che potesse succedere, ma era rimasta delusa dalla realtà. Stava bene con lui, ma non così bene come immaginava, e ne sapeva bene la ragione: un conto in sospeso con se stessa. C’era qualcosa che la corrodeva ancora, e che l’avrebbe tormentata finché non se ne fosse liberata. Era come se nessun altro tenesse l’altro capo del gomitolo della sua fragile esistenza. Non aveva senso. Le veniva da vomitare, e stavolta non ci sarebbe nemmeno stato bisogno delle dita in gola.
“Basta.”
La lingua di Shannon le contava le vertebre cervicali. Sembrava volesse consumarle.
“Ho detto basta.”
Invece lui continuava.
“BASTA!”
Aveva urlato. Non avrebbe voluto, non le piaceva alzare la voce, non da quando quella di Mattia le era risuonata dentro per distruggerla. Posò le dita sulle labbra, come per serrarle e far finta che non fosse successo nulla, poi si staccò da Shannon e andò a rannicchiarsi sul letto.
“Vieni qui.”
Lo aveva sussurrato, per bilanciare l’urlo precedente, non voluto.
A Shannon non rimaneva far altro che assecondarla. Le polemiche erano del tutto inutili. Obbediente, si stese accanto a lei e si accorse che non piangeva. Le accarezzò i pomelli delle guance, che erano arrossati, e lasciò lì la sua mano. Il pollice giocherellava agli orli degli occhi neri di lei, nell’eventualità di dover raccogliere lacrime che, comunque, non sarebbero uscite.
“Devo raccontarti molte cose, Shan.”
Lui la guardava senza fiatare. Sapeva che non avrebbe dovuto interromperla. Il momento giusto era finalmente arrivato, seppure non l’avessero nemmeno cercato.
Ci furono parole. Parole dolci per un racconto che faceva ancora male. 
  
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