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Autore: edwardandbella4evah    15/07/2011    10 recensioni
Courtney e Duncan ai tempi dell'Olocausto. Courtney è un'Ebrea, Duncan un soldato tedesco.
TRADUZIONE ♪
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan | Coppie: Duncan/Courtney
Note: Traduzione | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale
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“Che sta succedendo?” chiesi, cercando di farmi spazio tra la folla. Si era creato un grosso scompiglio all’entrata del campo,  e non avevo assolutamente idea di cosa diavolo stesse accadendo.
Ovviamente, non rispose nessuno, anzi, alcuni tentarono di sbarrarmi la strada. Era incredibile quanto le persone potessero ancora essere diffidenti nei miei confronti, settimane dopo l’incidente.
Mi ero temporaneamente dimenticata di lui, poiché non c’era bisogno di ricordarsene al momento. Ero tornata ai miei vecchi atteggiamenti, quelli dove le regole e il loro seguirle erano la mia priorità assoluta. Non parlavo a nessuno dei miei vecchi amici, figuriamoci a guardarli. E comunque Eliana si era uccisa, non più capace di sopravvivere nel campo. Era accaduto solo circa una settimana fa, proprio dopo cena. L’avevo trovata nella baracca sul suo letto, girata su un lato. Avevo immaginato che stesse solo piangendo la perdita dei fratelli, ma con un’ulteriore ispezione avevo scoperto che una sottile fune era legata attorno al suo collo. Tutto quello che ero riuscita a fare era stato sussultare dall’orrore ed abbassare la testa, per poi andare ad avvertire gli altri. Qualcosa di questo genere non era fuori dell’ordinario. Le morti erano comuni. Non la biasimavo per aver voluto il suicidio, aveva già perso suo figlio, la sua sorella più piccola, e recentemente i suoi fratelli – che erano stati uccisi per essersi ammalati- e dopo il mio allontanamento, non le era rimasto nessuno oltre ad una madre insofferente che badasse a lei. Capivo come le fosse venuta in mente quell’idea; nonostante la tentazione di suicidarmi fosse stata minimizzata, era ancora presente.
Facendomi largo tra la folla, riuscii a vedere un camion, e un improvviso senso di nostalgia prese il sopravvento. Quelli erano gli stessi camion che avevano trasportato mia madre e tutti gli altri fino al campo, così tanto tempo fa. Combattendo contro il deja-vu, mi si presentò una scena familiare, i soldati tedeschi che ordinavano in giro i nuovi prigionieri, dividendoli in due sezioni. Sapevo quale sarebbe stato il loro destino, anch’io ci ero passata e ero vissuta nel terrore; il ricordo era ancora duro come la pietra nella mia mente.
“Hey! Quezto non è giuzto! Mia mazdre!” urlò una ragazza della nuova spedizione in un accento a me estraneo, trascinata da un soldato dove doveva stare. Ad occhi spalancati osservai la ragazza, affascinata dalla sua bellezza che sarebbe presto scomparsa. Era sottile e delicata, il suo corpo era come quello di un uccellino. I suoi capelli erano color ebano e le raggiungevano le labbra in splendidi ricci, più carini di quanto avessi mai potuto sperare per i miei capelli. Ero invidiosa delle sue qualità, della sua bellezza, della sua grazia; tutto quello che era stato rubato via da me. Non c’era da preoccuparsi, ricordai a me stessa, tutto questo le sarà portato via in una questione di minuti.
“E’ già morta. Ora esegui gli ordini” ordinò la guardia, spingendola, mentre piangeva in silenzio, tra le altre donne. Provando un senso di rimorso nei confronti di questa ragazza, volli avvertirla su quello che stava per accadere, così sarebbe stata meno terrorizzata. Volli spiegarle le regole, darle cose per la quale avrei ucciso il mio primo giorno. Ma eravamo separate da una staccionata, e se l’avessi mai rivista, sarebbe stato troppo tardi. Sottraendomi a quella vista, iniziai a tornare alla cucina, con l’intenzione di riprendere le mie mansioni prima che le guardie avessero visto tutto questo scompiglio e avessero iniziato ad infliggerci punizioni. Solo Dio sa che era l’ultima cosa di cui avevo bisogno.
Il lavoro procedette come al solito, ma la mia mente si concentrò sul compito, il quale fu presto terminato. Le due ragazze che avevano precedentemente lavorato qui adesso erano morte, poiché una non aveva eseguito gli ordini, e l’altra per malattia. Così adesso ero sola in cucina. Tutto il lavoro era stato affidato a me. Non che me ne fossi lamentata, per chi c’era da lamentarsi? Mia madre mi ignorava, in quanto mi aveva diseredata e non mi considerava più sua figlia, tutti i miei amici erano morti, e il resto delle donne mi evitava. Inoltre, se fossi stata sorpresa a lamentarmi, ci sarebbero state delle serie conseguenze. Così lavoravo semplicemente senza proferir parola e svolgevo ogni mansione senza un lamento.
Ore dopo, dopo cena, camminai verso le baracche silenziosamente, strofinandomi le macchie viola sul mio polso ossuto. Ero scivolata e caduta lavando i pavimenti, ed ero atterrata di polso nel tentativo di attutire la caduta. Aprendo la porta scricchiolante della baracca con la mano buona, mi si presentò davanti agli occhi una scena familiare e nostalgica. Le ragazze e le donne nuove sui loro ripiani, singhiozzanti tra i cuscini mentre noi, le esperte, le confortavamo per la prima notte. Volendo andare a offrire conforto io stessa, fui fermata quando le donne si voltarono a guardarmi, facendomi ritrarre. Passando tra i ripiani, mi accorsi che vi era un sacco di nuova gente. Cercai la bella ragazza che avevo visto in precedenza, ma senza risultato. Mi arrampicai sul mio ripiano e rimasi là, ascoltando i familiari singhiozzi e lamenti; ma uno era diverso dagli altri.
“Mon maman, mon maman” singhiozzò una giovane voce, parlando in una lingua straniera. La voce era vicina, e non mi ci volle molto per capire che si trovava proprio sopra il mio ripiano. Nessuno la confortava, molto probabilmente perché la sua voce era troppo bassa per poter essere sentita, e gli altri ricevevano più attenzioni. Provando pietà per questa ragazza trascurata, mi arrampicai sul suo ripiano e portai gentilmente una mano sulla sua schiena, rassicurandola per la sua miseria. Lei sollevò la testa rasata e mi guardò con lacrimanti occhi marroni. Era la ragazza di prima, quella che una volta era stata tanto bella. Ora era vestita con stracci, davvero simili ai miei, notai abbassando lo sguardo verso il mio abbigliamento, e il suo aspetto era stato rovinato in meno di un paio d’ore.
Senza esitazione la presi tra le braccia e la lasciai piangere fuori tutto, ne aveva bisogno. Mia madre c’era quando fui costretta a passare la mia prima notte qui, e questa ragazza aveva bisogno di qualcuno. La tenni per un po’ prima che qualcun altro se ne accorgesse. Mia madre ci notò per prima, arrampicandosi sulla cuccetta della ragazza e togliendomela dalle braccia, lanciandomi un’occhiata gelida che chiaramente affermava “vattene. Non c’è più bisogno di te”. Notandola, molte donne vennero sul ripiano della ragazza, il quale improvvisamente si affollò. Sentendomi indesiderata, ritornai al mio posto, cercando di ascoltare la conversazione.
“Cara, qual è il problema?” le chiese tranquillamente mia madre, come se la ragazza fosse sua figlia, al posto di quella che aveva appena cacciato.
“Mon maman” singhiozzò lei, la parola sconosciuta mi tintinnò in testa.
“Sì Tesoro. Sai parlare inglese?” . Passò un istante prima che si schiarisse la gola e tirasse su col naso.
“Mia, mia mazdre” disse in un leggero accento, facendo comprendere un po’ difficilmente quello che stava dicendo. Tesi le orecchie per sentire di più e per comprendere cosa fosse successo esattamente alla madre della ragazza. “Lei…Lei zi è addormentata zul treno, e la guardia non mi ha permezzo di z-zvegliarla quando ziamo arrivate. E’ ztato cozì o-orribile” concluse, ricadendo di nuovo nei singhiozzi. Scoprii che la madre era morta sul treno che le stava trasportando al campo, soffocata dalla mancanza di aria. Mia madre me l’aveva descritta una notte, e ne ero rimasta terrorizzata e grata del fatto che avessi compiuto il viaggio con Duncan.
“Da che Paese vieni?” chiese una donna, con mia grande soddisfazione.
“Francia. Ci ziamo arrezi ai Tedezchi, e loro hanno catturato tutti gli zingari, gli ebrei, e tutti coloro che hanno ozato ribellarzi. Mia mazdre zì è rifiutata di reztare, e mi ha obbligata a zeguirla. L’ultima coza che zo è che ziamo ztate caricate in un camion e ziamo zoffocate quazi per ztre giorni” ricordò, sembrava una storia chissà perché familiare.
“Lo sappiamo Tesoro, lo sappiamo” la tranquillizzò mia madre, e tutte le altre donne furono d’accordo con lei, cercando di confortarla. Trattenni le lacrime, e chiusi gli occhi, non volendo sentire più nulla di tutto ciò. Come poteva mia madre trattare un’estranea con più amore e compassione rispetto a sua figlia? Riuscii a sonnecchiare per poco prima che una rozza mano mi svegliasse.
“Svegliati, ora. Scambierai il tuo ripiano con quello di Jacqueline” disse una fredda voce familiare, scuotendomi ancora con le sue mani rozze e magre. Mi resi velocemente conto che colei che aveva parlato era mia madre e mi tirai su lentamente, strofinandomi gli occhi dal sonno.
“C-chi?” balbettai, abbastanza confusa. Chi era questa Jacqueline? E perché avevo bisogno di scambiare il mio ripiano col suo? Il mio mi andava già bene. Mia madre sospirò impaziente e diede un’occhiata rassicurante alla familiare ragazza francese che stava in piedi dietro di lei, e che sembrava timida e spaventata come un topolino. Guardò prima mia madre e poi me come se non riconoscesse il legame tra noi.
“Jacqueline” disse mia madre, il nome suonava melodico ed esotico sulla sua lingua. Indicò la ragazza accanto a lei e io spalancai gli occhi.
“C-Che? Perché?” Perché dovevo scambiare il mio ripiano col suo? Il suo non le andava abbastanza bene? Erano tutti uguali, nessuno era più confortevole dell’altro.
“Jacqueline ha bisogno che una madre le stia accanto, ed io mi sono offerta di prendere il suo posto. Deve stare accanto a me. Ora alzati” . Restai sgomenta per questa affermazione, un freddo torpore si sparse in tutto il mio corpo e mi impedì ogni movimento. Doveva essere tutto un sogno, uno dei miei soliti incubi. Dovevo soltanto cancellarlo dalla mia mente. Afferrai una qualunque parte grassoccia mi fosse rimasta sul braccio e iniziai a pizzicarla tra il pollice e l’indice così forte che l’azione produsse un dolore atroce.
“M-ma, tu sei mia madre! Ed io soffro di vertigini! Questo è il mio letto, sono stata qui per mesi!” soffocai, emettendo una qualunque cosa mi avrebbe permesso di sostenere la mia causa. In verità, ero troppo sgomenta e stanca per tirar fuori un argomento convincente. La cosiddetta “Jacqueline” sembrava a disagio e abbastanza scioccata mentre guardava prima mia madre e poi me. Mia madre era irremovibile e mi guardò con cipiglio, non mostrando alcun segno di perdono.
“Poco male. Ora fate a scambio”. Con riluttanza afferrai il mio maglione e mi arrampicai su quello che sarebbe dovuto essere il ripiano di Jacqueline. Freddo e inospitale, il ripiano era un’esatta replica del comportamento di mia madre nei miei confronti. Come aveva potuto rimpiazzarmi con qualcuno che aveva appena conosciuto? Silenziose lacrime mi scesero sul viso, mentre cercavo di mettermi maggiormente a mio agio sullo sconosciuto ripiano.
Come aveva potuto? Mia madre. A dispetto del precedente senso di pietà verso Jacqueline, non potei fare a meno di sentirmi molto invidiosa del fatto che mi aveva rubato mia madre solo in poche ore. Cosa aveva di tanto speciale questa ragazza? Cosa aveva lei che io non avevo?
Mia madre.
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“Mi dizpiace cozì tanto, Courtney” si scusò Jacqueline per la milionesima volta, strofinando i pavimenti affianco a me in cucina. Lei ed altre quattro ragazze erano state assegnate al servizio in cucina, con mio gran divertimento ma allo stesso tempo seccatura. Ovviamente non avrebbe potuto sapere che mi avesse rubato mia madre; ma la ragazza stava ammaliando tutti con il suo fascino e la sua eloquenza, ed era solo il suo quarto giorno qui! Lo ammetto, ero sempre più gelosa della sua bellezza; nonostante i suoi capelli fossero andati, rimaneva una bellezza abbastanza affascinante, i suoi occhi marroni sprizzavano calore e conforto a chiunque incrociasse il suo cammino.Io, d’altronde, non avevo bellezza; i miei capelli,il mio miglior pregio, erano andati, i miei occhi erano scarni e senza profondità, e il mio corpo pelle e ossa. Quanto era giusto che agli altri lei piacesse di più? Quanto era giusto che lei fosse ogni cosa che io desideravo essere?
Ignorando le sue continue scuse, continuai a strofinare i pavimenti finchè le mie nocche non furono rosse. Almeno c’era una cosa che sarebbe sempre rimasta uguale; il mio lavoro, e le mie visite da Duncan. Sarebbe tornato in qualunque giorno, e a dispetto del mio comune odio nei suoi confronti, desideravo dirgli cosa mi preoccupava. Certo, avrei probabilmente ricevuto una lunga ramanzina, e poi una punizione, ma era ancora una cosa che volevo fare.
Poiché stavo già pensando alle mie prossime visite da Duncan, lasciai che la mia mente si allontanasse dalla melodica voce di Jacqueline e cominciasse a pensare solo a lui. Le cose si erano fortunatamente raffreddate tra me e Duncan, non come erano prima, ma allo stesso tempo migliori. Lui aveva realizzato che avessi imparato bene la lezione, ed aveva iniziato di nuovo a parlare semplicemente con me. Vediamo se l’infame Jacqueline riuscirà a portarmelo via. Io ero sua, e lui era mio, e assolutamente nulla, o nessuno, per essere più precisi, riuscirà a portarmi via questo titolo.
Con questo pensiero felice in testa, continuai a lavorare, cercando di ignorare Jacqueline con immenso piacere. Sebbene fosse stato difficile; Jacqueline era un’esperta nel preparare la zuppa e nel pulire la cucina, e pure da sola. Era stato difficile trattenermi dal roteare gli occhi o dal ringhiare ogni singola volta che faceva qualcosa di perfettamente giusto o ogni singola volta che coglieva un commento di qualcun'altra. Quando la guardia mi scortò da Duncan, ebbi una mezza idea di scattare verso i suoi alloggi. Ma dovevo essere paziente e seguire le regole, volevo essere ricompensata. Quando fui tra le braccia di Duncan, stavo praticamente saltellando. Lui sapeva che dovevo dirgli qualcosa, ma continuò a torturarmi, trattenendomi nell’abbraccio più a lungo del necessario.
“Va bene Prinzessin, sei stata brava. Puoi parlare” disse finalmente, lasciandomi andare, sedendosi sul letto e dandosi un buffetto sulle ginocchia, il mio segnale per venirmi a sedere. Solo dopo essermi seduta sulle sue ginocchia ed avergli baciato le guance più volte seppi che potevo davvero parlare con lui. Sapevo quello che gli piaceva, e ciò mi fu provato ancor di più quando si lasciò sfuggire un gemito ed avvolse le braccia attorno alla mia vita.
“Mi sei mancata, Prinzessin” sorrisi, sentendomi meglio di quanto non lo fossi stata in tutta la settimana. Mi sentivo bene a sapere che gli ero mancata, un altro passo verso il completo perdono. La frase mi fece venire le farfalle nello stomaco e io sorrisi sinceramente, cullandogli la guancia nella mia mano.
“Mi sei mancato anche tu” ammisi, sapendo che era la verità. Mi era mancato. Mi era mancato il modo in cui io ero sua, e lui mio, e quella stupida Jacqueline non potrà mai entrare nel nostro mondo. Dunque, il modo in cui mi era mancato era un po’ egoista, e solo per competizione con Jacqueline, ma, nel profondo, c’era di più. Mi era onestamente mancata la sua compagnia. Non mi erano mancate le sue punizioni, ma mi era mancato il modo in cui i suoi occhi si illuminavano un pochettino ogni volta in cui entravo nella sua stanza. Mi erano mancate le sue accuse brusche ma vere. Mi era mancato il modo in cui mi abbracciava, così forte che pensavo che le mie ossa si sarebbero rotte. Io ero veramente sua, e, nei miei limiti, lui era mio.
“Ora, che è successo?” chiese, facendomi risvegliare dal pacifico torpore. Sbattendo le palpebre e arrossendo leggermente, lo guardai, lo sguardo d’intesa nei suoi occhi mi diceva che sapeva esattamente a cosa o meglio, a chi, stessi pensando. Voltando la testa lontano dai suoi occhi ammaliatori, sospirai, ed mi attorcigliai un ampio brandello del vestito prima di iniziare a divagare.
“Bé, ho dovuto occuparmi da sola della cucina per un po’ dopo la morte di Eliana, e mia madre mi tratta come spazzatura, e sono scivolata e mi sono slogata il polso un paio di giorni fa, e ho accidentalmente fatto un passo falso due giorni fa, così una guardia mi ha dato dieci frustate e…”
“Prinzessin” mi interruppe, afferrandomi il mento e costringendo così la mia divulgazione di notizie senza senso a fermarsi. “Una cosa alla volta. Dunque, vediamo se ho capito. Una tua amica si è uccisa, tua madre ti manca di rispetto, ti sei slogata il polso e sei stata frustata?” annuii lentamente, vedendo che aveva ascoltato ogni cosa che avevo appena detto con visibile accuratezza. Sapevo che gli ci erano voluti un paio di mesi per acquisire questa abilità, con tutte le divagazioni che avevo fatto in passato. Con un sospiro mi fece scendere dalle ginocchia e si alzò, andando verso il suo comodino e frugando nei cassetti prima di tirare fuori un kit di pronto soccorso. Come di routine, mi alzai anch’io e mi voltai, iniziando a togliermi i vestiti senza una parola, e poi tenendo il vestito sui seni mi stesi a pancia in giù sul letto. Lui iniziò ad applicarmi i farmaci sulle ferite cicatrizzanti, e non spiccicò parola se non verso metà del lavoro.
“Adesso, dimmi cosa davvero c’è che non va. Potrei dire che mi nascondi qualcosa” Diamine. Il maledetto Tedesco riusciva a leggermi come un libro dopo un paio di mesi di attenta osservazione dei miei movimenti e delle mie azioni. Sospirando frustrata, mi lasciai sfuggire un gemito ma decisi che avrei fatto meglio a parlare.
“Un paio di giorni fa è arrivato un nuovo carico”.
“E? Qualcosa su questo argomento ti irrita davvero”. Annuii, sentendo riaffiorare di nuovo il mio odio verso la schifosa, folle ragazza prepotente.
“C’è questa nuova ragazza, che è perfetta. E’ bella, gentile, svolge tutto il duro lavoro senza un lamento, ed è assolutamente vomitevole. Piace a tutti! Anche a mia madre piace di più! Tratta Jacqueline come se fosse sua figlia, al posto mio! E’ il mio rimpiazzo, ne sono sicura” esplosi, respirando pesantemente. Poco dopo sentii la sua mano sul mio fondoschiena, lo accarezzava gentilmente, ma con una fermezza che era del tutto rilassante.
“Dunque, si chiama Jacqueline? Deve provenire dalla Francia. Ecco dove sono stato in questi giorni; abbiamo ripulito la Francia di tutti gli Ebrei, gli Zingari, e chiunque altro” . Annuii, non avendo nient’altro da dire. Trascinò le dita giù per le mie gambe, un’azione che mi fece tremare involontariamente.
“Non preoccuparti, Prinzessin. Chissenefrega di tutti gli altri? Probabilmente moriranno tutti in un paio di mesi. E se tua madre continua a trattarti di merda, mi assicurerò personalmente che si trovi in prima linea per le camere a gas”. Spalancando gli occhi, iniziai a respirare leggermente, chiedendomi se davvero avrebbe fatto una cosa del genere. Mi ci volle un minuto buono per capire che era il suo modo di consolarmi e di farmi sentire meglio. Sorridendo leggermente, scossi la testa, sapendo che non poteva vedermi.
“Non farlo. E’ mia madre, e nonostante mi odi, io le voglio bene, e la voglio accanto a me, in qualche modo”. Era la verità; sebbene fossi stata profondamente ferita dalle azioni di mia madre, le volevo ancora bene, e volevo vederla, così avrei saputo che stava bene. Se una persona non voleva bene a sua madre, non le rimaneva nulla per cui vivere.
“Bene. Ma se mi dai il permesso…” si interruppe, prima di schiarirsi la voce e continuare.               “Nessuna di queste persone, o i comportamenti che hanno nei tuoi confronti, hanno importanza. Tutto ciò che conta sei tu, la tua salute, il lavoro che fai, ed io. Capito?” non potei fare a meno di sorridere ed annuire, sentendomi rassicurata. “ Non ti sento, Prinzessin. Mi capisci?”
“Sissignore”. Era tutto quello di cui aveva bisogno per strapparmi via il vestito dal petto e per premere frebbricitante la sua bocca contro la mia. “Vi prego, Signore. No…per favore, non fatelo” piagnucolai, sentendomi a disagio, ma sapendo cosa sarebbe successo questa notte.
“No. Ho bisogno di fortificare il patto. Ho bisogno di assicurarmi che non disobbedisci”. Sentendo le lacrime formarsi nei miei occhi, non potei far nulla se non sottomettermi a lui, la sola cosa che sentivo di cui potevo godere erano i suoi rozzi baci sulla mia bocca.
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“Courtney, mi aiuterezti con quezta zuppa? Oneztamente non mi zembra che ztia pelando le patate nel modo giuzto” . Storcendo il naso per il modo in cui la voce di Jacqueline suonava così dolce e melodica, e la mia, leggermente nasale, così sgradevole, mi alzai in piedi riluttante e andai verso il banco, afferrando una patata e un pelatore ed iniziando a pelarla in silenzio. Un’intera settimana al campo, e ancora non sapeva come pelare le patate, che patetica. Perché la stavo pure aiutando? Avrei dovuto ignorarla e lasciarla imparare per conto suo, oppure lasciarla morire perché non riusciva a svolgere un semplice compito. Ma ciò non sarebbe mai successo alla preziosa Jacqueline; le altre ragazze glielo avrebbero insegnato prima che lei potesse persino chiederlo, per poi squadrarmi con feroci occhiate per aver tradito la loro amabile Jacqueline.
“Oh grazie mille! Non ho idea di coza avrei fatto senza di te” mi ringraziò profusamente, sforzandosi di pelare le patate accanto a me. Pensava di essere così perfetta che mi faceva sentire male in larga misura. E gli altri pensavano che fosse così carina, il modo in cui era come una verginella, e che sapeva fare questo e quello senza l’aiuto di nessuno. Non sarebbe durata, cercai di ricordare a me stessa. Oppure, almeno questo è quello che speravo succedesse. Magari Duncan avrebbe potuto ucciderla per me. Rimproverandomi per averlo pensato, ricordai a me stessa che probabilmente mi avrebbe sgridata di nuovo.
“Non ringraziare, solo guarda, e impara” . Lei fu immemore per il mio tono di voce e il mio atteggiamento, e lo fece come se le avessi ordinato qualcosa. Non sapevo perché mi vedeva come un’amica, non ero stata nulla se non fredda nei suoi confronti fin dalla prima notte. O era davvero disperata per gli amici, oppure mancava davvero di un cervello proprio.
Le cose andarono abbastanza bene dopo, finchè non arrivarono degli strani rumori dall’esterno. Non preoccupandomi di voltarmi, dato che sapevo che non erano affari miei, continuai a pelare le patate. Bè, continuai a pelare finchè Jacqueline non mi diede una gomitata su un fianco. Sul punto di voltarmi e sgridarla per aver fatto una cosa del genere, notai lo sguardo preoccupato ma ripugnato sul suo volto. Indicò la finestra, e seguendo la direzione del suo dito notai un gruppo di guardie fuori alla finestra, che ridacchiavano e ci osservavano. Adesso ripugnata io stessa, mi voltai e ritornai alle mie patate, sapendo che non potevo farci nulla se non volevo avere una punizione, o la morte.
“Non hai intenzione di fare qualcoza, Courtney?” . Scossi la testa, non guardandola neppure. Ovviamente no! Non lo aveva imparato fin da subito? Era stata qui per una settimana, nessuno le aveva insegnato le regole?
“E perché?” chiese dopo la mia palese risposta. Era una domanda talmente innocente, ma non potei fare a meno di rimbrottarla per questo. Che ragazza ingenua e sciocca. Se avessi osato dire qualcosa, mi sarebbe costata la vita. Però, dire a lei di fare qualcosa era un’idea che mi tentava.
“Perché sì. Ora, continua a preparare la cena a meno che tu non voglia finire nei guai”. Lei sbuffò e continuò a maciullare le povere patate. Ma le guardie non se ne andarono. Infatti, entrarono ed iniziarono a fare commenti volgari su di noi. Io li ignorai semplicemente, e le patetiche e seccanti occhiate di Jacqueline mi colpirono.
“Che sta succedendo qui?” chiese una voce che conoscevo troppo bene. Sia io che Jacqueline ci voltammo, sperando che questa figura autorevole avrebbe fermato le occhiate ammiccanti delle altre guardie. Ma Duncan non stava guardando me, stava interamente guardando Jacqueline. La stava guardando con lo stesso sguardo che aveva quando guardava me quando eravamo soli, solo molto più gentilmente, come se fosse molto più attratto da lei. Non poteva essere. Soprattutto non dopo la scorsa notte. Le lacrime andavano formandosi nei miei occhi, guardando loro due, ma rifiutai di lasciarmene sfuggire anche una sola. Come poteva essermi accaduto? Prima che potessi fermarmi mi ero lasciata sfuggire un piccolo gemito e avevo fatto cadere la ciotola di porcellana piena di patate, il materiale si sparse ovunque e tutte le patate, adesso rovinate poiché i pavimenti non erano stati ancora lavati, rotolarono dappertutto.
Prima che mi rendessi conto di cosa stesse accadendo circa tre paia di rozze braccia mi afferrarono e mi trascinarono fuori. Sentii Jacqueline gridare, ma non sarebbe stato di aiuto. Nessuno poteva fermare le guardie. Chiusi gli occhi e pregai silenziosamente, sperando con tutto il mio cuore che non sarei stata mandata nelle camere a gas. Sentii qualcuno che parlava in un tedesco rozzo, e fui spinta a terra per un secondo prima che solo un paio di braccia mi afferrassero forte le spalle.
“Cos’è stato?” ringhiò Duncan, sbattendomi in giro furioso e osservandomi con un’occhiata gelida.
“M-mi dispiace…m-ma tu, e Jacqueline…”
“Dunque era quella Jacqueline? E’ davvero carina…e non è un’Ebrea…” si interruppe, osservando inespressivo un punto indefinito davanti a lui, non guardando più davvero verso di me. Non ci potevo credere, anche lui ne è rimasto ammaliato! Come poteva? Perché mi sentivo in questo modo in primo luogo? Duncan era un soldato cattivo, non avrebbe dovuto significare nulla per me. Infatti, dovrei essere contenta del fatto che si stava interessando ad un’altra ragazza. Mi avrebbe lasciata in pace, e sarei stata libera. Ma non mi sentivo in quel modo, e non sapevo perché. Come se si fosse accorto di nuovo della mia presenza, aggrottò la fronte e scosse la testa, molto probabilmente per chiarirsi le idee.
“Ora, torna al lavoro. Pulisci il casino che hai fatto, e cerca di comportarti bene, okay?” . Potei semplicemente annuire in silenzio, lui mi diede un bacio sulla guancia e se ne andò. Tornai in cucina, sentendomi dannatamente intorpidita. Che cosa era appena accaduto? Jacqueline mi abbracciò con gioia, ma non le prestai attenzione. Il lavoro fu confuso, posso ricordarlo a mala pena, tranne per il duro momento in cui Duncan aveva guardato Jacqueline negli occhi. Non poteva essere attratto da lei, non poteva. Non era giusto, lui era mio. Mio e non suo. Riuscii a calmarmi e mi costrinsi a guardare in faccia la realtà. Era probabilmente sbalordito per la sua bellezza, tutti lo erano. Anch’io all’inizio. Rilassandomi un po’, mi diressi verso le baracche, non vedendo l’ora di andare da Duncan.
Avrei permesso che mi abbracciasse finchè le mie ossa non si sarebbero rotte, e poi lo avrei baciato dappertutto, dimostrandogli quanto desiderassi la sua compagnia. Dopo qualche inutile chiacchierata mi avrebbe spinta a forza sul letto e mi avrebbe violentata, a dispetto delle mie deboli proteste. Magari oggi non avrei protestato; avevo bisogno, no, bramavo la sua attenzione. Mi sedetti sul mio ripiano, preparata ad aspettare i pochi minuti che ci sarebbero voluti per la guardia per entrare e scortarmi. Quando la porta si spalancò ero pronta a saltar giù dal mio ripiano, ma aspettai paziente.
“Il Comandante Duncan desidera vedere il numero 2947260 immediatamente nei suoi alloggi”. Il mio volto sbiancò ed il mio corpo si raggelò. Non era il mio numero; non ci andava neanche vicino al mio numero. Guardai ad occhi spalancati come Jacqueline camminò esitante verso la porta, e il soldato la spinse rozzamente fuori. Aspettai ore, sperando che un’altra guardia fosse entrata e mi avesse portata da Duncan. Ma non ne venne nessuna. E Jacqueline non tornò in un paio di minuti, e neppure in un’ora. Ma continuai ad aspettare finchè ore dopo le luci si spensero e tutti si addormentarono. Nessuna guardia sarebbe venuta per me. Duncan non mi avrebbe vista questa sera.
Sentendomi come se il mio cuore pesasse più di una tonnellata, mi misi in posizione per dormire sul ripiano, sfogandomi piangendo un paio di lacrime amare. Cosa avrebbe potuto significare? Voleva vedere Jacqueline al posto mio; lei gli piaceva di più. Era riuscita a portarmelo via, l’unica cosa che ero certa non sarebbe mai riuscita a togliermi. Mi sentii come se un gigantesco schiaffo mi avesse colpita in faccia; non dovrei essere felice? Ero libera da Duncan! Non voleva vedermi più! Non dovevo più essere picchiata o violentata! Dovrei essere felice, no, estatica.
Ma per qualche motivo, non lo ero. Per qualche motivo, mi faceva male più di ogni altra cosa al mondo. Faceva più male della prima volta in cui Duncan mi aveva picchiata. Faceva più male della prima volta in cui ero stata frustata. Faceva più male del tradimento di mia madre e persino della prima volta in cui Duncan mi aveva violentata. Per provare le mie affermazioni, le lacrime corsero più veloci e più numerose sul mio viso, e dovetti fare un grosso sforzo per non far rumore.
Cosa significava questo dolore? Non potevo essere attratta da lui, non potevo. Sarebbe stato un tradimento verso tutto quello in cui credevo. Sarebbe stato un tradimento verso la mia famiglia, i miei morali, la mia etica, la mia religione, e tutte le cose che avevo detto di lui la prima volta che l’avevo visto. Inoltre, io ero un’Ebrea, e lui un Tedesco; non mi avrebbe mai vista come qualcosa di più se non come spazzatura. Quindi non potevo essere attratta da Duncan.
Ma la penetrante sensazione nel ventre mi diceva l’esatto opposto.      
  
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