Personaggi: Aberforth Dumbledore, Albus Dumbledore, accenni ad Ariana Dumbledore e a Gellert Grindelwald. Novembre aveva portato via le ultime giornate di sole. Da ovest si avvicinavano lente le nuvole nere dell’ennesima pioggia, portate da un vento cattivo che sapeva di polvere. -Dovrei. Tu cosa ne dici? Non mi ascolterà, lo sai-. Sapeva che non erano tempi opportuni per andarsene in giro, ma nemmeno la guerra avrebbe potuto tenerlo lontano da Godric’s Hollow per più di una settimana. Svoltò in un sentiero dimenticato che correva tra i campi, fuori dal paese, e si diresse a grandi passi verso la decadente dimora dei Dumbledore. La vecchia porta di legno tarlato si aprì con un crepitio indistinto e un fiotto di luce grigia bagnò le tavole del pavimento. Aberforth fece qualche passo e si fermò, guardando con espressione indecifrabile l’interno della sua vecchia casa. In un angolo, lì da quarantacinque anni, giaceva un pupazzetto azzurro, che l’umidità e la luce avevano corroso fino a renderlo irriconoscibile. Si avvicinò in fretta al grande camino di pietra. Prese una manciata di polvere dalla tasca, la gettò nel fuoco e ordinò alle fiamme: “Hogsmeade!”. Appena arrivato nel retrobottega della Testa di Porco, Aberforth fece per prendere altra polvere dal barattolo in cima allo scaffale ma sì fermò. Dalla taverna arrivavano dei rumori; eppure era domenica, giorno di chiusura. Le porte erano chiuse e il blando incantesimo di protezione attivato. Chi poteva…? -È da tempo che non ci vediamo, Aberforth-. -Non c’è più tempo, Albus. Davvero, non c’è più tempo-.
Rating: Pg-13.
Genere: Guerra, triste.
Warning: Angst sparso in giro e slash di sottofondo, ovviamente.
Conteggio parole: 853 (fiumidiparole).
Summary: -Non c’è più tempo, Albus. Davvero, non c’è più tempo-.
E Albus sapeva che aveva ragione.
Note: Scritta per la sfida settimanale del Tendone delle Creature Misteriose di grindeldore_ita. La storia è sostanzialmente uno spin-off da questo lavoro di caladan_dd. In realtà, questa è la versione sbagliata, giustappunto ^^ dato che la sfida prevedeva il POV di Aberforth, qui trovate la versione rivenuta e corretta ^^
-Dovrei andare a parlarci, vero?-
Aberforth si strinse ancora di più nel mantello e si guardò intorno. Nel grigiore compatto che copriva il terreno si intravedevano ogni tanto macchie più scure di terra appena rivoltata. Qualche vedova girava ancora per il cimitero, ma l’ora era tarda e la voglia di camminare scemava col passare dei minuti.
L’inglese abbassò ulteriormente la tesa del cappuccio, fino a nascondere completamente i capelli. Di rosso, in quegli anni, se ne vedeva troppo; quel rosso che sgocciolava dalla carne, macchiava i vestiti e sapeva di metallo.
Sospirò.
L’unica risposta gli arrivò da un mucchietto di foglie secche che gli passarono accanto crepitando. La piccola bara bianca si confondeva nella nebbia, e la bimba nella foto sorrideva.
Aberforth sospirò più forte, poi mosse fiaccamente le dita in un cenno di saluto e si allontanò.
Non avrebbe saputo dire, esattamente, cosa lo riportava lì, ogni volta, quando avrebbe potuto Smaterializzarsi da qualunque punto della parte magica del paese; ogni volta, ricordi poco piacevoli lo assalivano, lasciandolo col respiro mozzato in gola e qualche lacrima in più.
Ma è colpa della polvere, della polvere, si ripeteva ogni volta.
Un giocattolo di Ariana.
La solita fitta, da qualche parte appena sotto il cuore, colpì il petto di Aberforth, che chiuse gli occhi. Anche così, però, le immagini del passato ripresero a tormentarlo.
Tra tutti, quelle mani.
Quel viso straniero, circondato da riccioli biondi.
Quella voce.
Strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nella carne.
Un attimo dopo, la vecchia dimora dei Dumbledore ricadde nel solito silenzio.
L’interpellato non ebbe bisogno di voltarsi per identificare il proprietario di quella voce, ridicolmente calma in tempi in cui nessuno poteva dirsi tranquillo.
Albus-, borbottò, con un tono che non prometteva nulla di buono. -Non dovevi disturbarti. Stavo giusto vedendo da te-.
Il sorriso del preside si incrinò appena. -Davvero? E posso chiedere il motivo?-, chiese, senza smettere il tono gentile.
-Vorrei sapere se è vero quello che si dice in giro-.
-Sì, e sarebbe…-
-Che il più grande mago del nostro tempo sta permettendo che Gellert Grindelwald massacri indiscriminatamente Babbani e maghi! E nel caso ti fossi perso un punto-, continuò il più giovane, col un tono appena più basso -il più grande mago del nostro tempo sei tu!-
Le ultime parole ricaddero nel silenzio come ricade a terra la polvere dopo un soffio di vento.
Per un attimo, nessuno parlò. Albus abbassò lo sguardo, senza più sorridere. Aberforth incrociò le braccia, in attesa; accarezzò l’idea di piazzarsi un sorriso beffardo in fronte, se non fosse stato che non c’era nulla da sorridere.
Poi inarcò un sopracciglio, scrutando il fratello maggiore.
-Ne sei innamorato. Ancora. Dopo tutto quello che è successo tu… tu lo ami ancora?!-.
La diplomazia non era l’arma migliore di Aberforth, Albus lo sapeva. Non alzò gli occhi, aspettando l’ennesima sfuriata di quel mezzo secolo di incomprensioni, sfuriata che non venne.
Tornò finalmente a guardare il fratello, indeciso.
-Non guardarmi con quell’aria da vittima, Albus. Non lo sei. Non tu. Cosa hai intenzione di fare?! Stare a guardare, finché Grindelwald ti verrà a prendere, o qualcosa di altrettanto idiota? È morta, Albus, morta. E c’è un colpevole. Davvero non ti interessa più nulla di lei?! Lui… lui è più importante?!-, quasi urlò, dicendo mentalmente addio alla fredda calma iniziale. -Più importante di qualsiasi cosa? Della giustizia, della vita? Di tua sorella?! E SMETTILA DI GUARDARMI COSÌ !-
Afferrò il primo oggetto che gli capitò tra le mani e lo scagliò contro il muro, dove si infranse in mille schegge di vetro.
Il preside non disse nulla.
-È ora di finirla, Albus-, continuò Aberforth, tremante di rabbia. -Sei l’unico che può farlo. E la mia pazienza ha un termine. Fallo, o lo farò io, con queste mani-.
Albus scosse piano la testa.
-Non dirmi, non dirmi-, lo prevenne il fratello, -cose piene di senso come ‘Non sai quello che dici’ o ‘Non capisci’. Sono quarantacinque anni che me lo ripeti. Che me lo ripetete tu e il tuo eterno amore! Ora basta!-, sfiatò.
Respirò forte, allontanandosi di qualche passo ancora.
E Albus sapeva che aveva ragione.