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Autore: Lariat    17/07/2011    2 recensioni
"Le mie ginocchia incontrarono il soffice tepore del letto disfatto. Vi salii. Vedevo a mala pena la sua sagoma, nell’oscurità, il suo naso perfetto, il contorno dei suoi capelli ricciuti, le sue mani così grandi, sempre troppo grandi, i fianchi, le gambe. Tutto il resto, lo immaginavo."
E' il primo lavoro che pubblico su questo sito: una storia originale, un po' metaforica, un po' onirica. Attenzione: incesto.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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e fuori, e dentro, il mare

E FUORI, E DENTRO, IL MARE

 

Nel buio della stanza, le sue parole mi arrivarono faticosamente. Pigre in qualche modo, come se tra me e lui ci fossero chilometri e percorrere quell’infinito spazio risultasse essere, per ogni sillaba, quanto di più penoso al mondo.
-Vieni qui
Non capivo il perché. Quelle parole, quella manciata di lettere che le componevano, erano bagnate. Inequivocabilmente fradice. Parevano appesantite, impregnate da qualche alcol, dolcemente frizzanti mentre arrivano alle mie orecchie e tentavano di penetrarvi, con un leggero rumore di risacca.
Spluch.
-Vieni qui
E quando riuscirono a trapassarmi il timpano, con irritante tranquillità, spinte da chissà quale indolente potenza, era troppo tardi: avevo già mosso un piede verso il letto, mentre il dolcemente frizzante liquido mi colava giù dal padiglione, sul lobo, lungo il collo e via, in una sfrenata corsa verso terra, verso un suicidio bramosamente atteso.
-Vieni qui
Le mie ginocchia incontrarono il soffice tepore del letto disfatto. Vi salii. Vedevo a mala pena la sua sagoma, nell’oscurità, il suo naso perfetto, il contorno dei suoi capelli ricciuti, le sue mani così grandi, sempre troppo grandi, i fianchi, le gambe. Tutto il resto, lo immaginavo.
Me lo inventavo, il colore dei suoi occhi, quel cenere appena spenta che non si capiva mai di quale tonalità fosse per davvero; o le sue labbra, sottili sottili, che assumevano una piega strana quando parlava, come se soffrissero nell’aprirsi.
Mi inventavo la sua espressione, che volevo essere dolce, vagamente malaticcia, uno strano miscuglio di pena, rimorso, magari passione, anche passione, dolcezza e determinazione.
-Vieni qui
E venni. Lo raggiunsi prima con le dita, che accolse tra le sue, poi il mio braccio gli cinse la vita. Mi stesi accanto a lui, arrendevole, come un condannato che aspetta la morte. Lui mi mise un braccio sotto la testa, forse per sorreggerla, non so. Mi voltai verso di lui con una gran confusione negli occhi, che non avrebbe potuto vedere ma che, probabilmente, annusò nell’aria.
-Sei sempre in tempo ad andare via
-Fuori c’è il mare
Bisbigliai in un sussurro.
-Mamma e papà dormono
-Fuori c’è il mare
-Lo so. C’è sempre stato. Sono anni che c’è
-Quanti anni?
-Innumerevoli
Eccola, la risacca nelle orecchie. Spluch. Spluch. Spluch. Un suono continuo, calibrato, preciso come un orologio, che si rincorreva fuori dalla finestra. Un rombo quieto, controllato. Consolante. Amico, e insieme foriero di antiche paure.
-Sei sempre in tempo ad andare via
-Mamma e papà dormono
-E fuori c’è il mare
Il cuore sembrava battermi in petto allo stesso ritmo delle onde che si infrangevano sulla battigia. I due rumori si mescolavano, nella mia testa, in un unico vortice, vivo, pulsante di un’assurda vita che non avrei mai voluto conoscere; ma che, contro ogni logica, desideravo assaporare più di qualsiasi altra cosa.
Ero stordita. Il rumore del mare, al di fuori. E la flebile luce di una luna che sgusciava tra gli scuri, disegnando poche e sottili lame di luce a posarsi sul suo corpo. Sembravano tagliarlo a fette, quel corpo, con implacabile dolcezza. Dolcezza. E implacabile.
-Sei sempre in tempo ad andare via
-Fuori c’è il mare
-E dentro ci siamo noi. E il mare. E mamma e papà dormono
-Già
-…
-…
-Dammi un bacio
Spluch. Spluch. Spluch.
-Dammi un bacio
-Fratello
-Non sono tuo fratello, adesso. Non se lo vuoi anche tu. Siamo solo due persone, no. Meglio. Siamo due entità
-Entità
-Entità. Non c’è bisogno di capire, per le entità
-Già
La luna, flebile luna che sgusciava dagli scuri e sembrava tagliare a fette il suo corpo. Accompagnata, cullata dal rumore del mare. E dentro la stanza, due entità, perché per le entità non c’è bisogno di capire, di chiedersi il perché, le entità agiscono e basta, come stavamo facendo noi.
E fuori, e dentro, il mare.
-Dammi un bacio
-Già
Quel mare che ci aveva visti crescere, per anni, correre indemoniati sul bagnasciuga mentre gridavamo a perdifiato la nostra voglia di vivere, di viverci. Ogni estate era una scoperta. Un continuo viaggio di andata e ritorno da luoghi sconosciuti e selvaggi, in cui, sempre, lasciavamo un piccolo pezzo di noi. Li abbandonavamo lì, i nostri pezzi, ogni estate, a comporre un puzzle sempre più grande, più grande di ogni cosa: da un lato ci spaventava, perché non sapevamo che disegno ne sarebbe venuto fuori, ma dall’altro ne eravamo affascinati. Vivere. E viverci.
Quando scoprimmo che avremmo voluto viverci davvero. Tutto divenne. Un po’ più difficile.
-Dammi un bacio
-Sì
Mi sporsi verso di lui, lentamente, mentre il suo braccio mi sorreggeva la testa. Il suo volto, forse le sue labbra, emanavano un’aura di calore e carne e vita. Adagiai la mia bocca sulla sua guancia, come se quella fosse stata la mia vera meta, come se non avessi compreso quello che entrambi desideravamo. Mi allontanai quasi subito, a guardarlo. Nella penombra, sorrideva.
Il suo volto, forse le sue labbra, emanavano un’aura di vita e carne e calore. Serenità.
In un attimo, mi resi conto che lui l’aveva accettato. Non capito, superato, né si era perdonato. Semplicemente, lo aveva preso così com’era e se lo era fatto piacere. Di forza. Con convinzione.
Lo invidiai con tutta l’anima.
Spluch. Spluch. Spluch.
-E’ davvero questo quello che vuoi?
-…
-…
-No
-Sicura?
-Sì
-Io non voglio costringerti. Non sono uno che costringe, lo sai. Ne abbiamo parlato, di quello che proviamo e di quanto ci faccia soffrire. Di quanto sia
Abbassò la voce, soffiò la parola direttamente dalla gola.
-Sbagliato
-…
-Ma non ho più voglia di rincorrere il niente. Di far finta che tutto quello che mi circonda sia perfetto. Non voglio più dovermi adeguare a quelle che dovrebbero essere le mie aspettative: sono le mie aspettative che si devono adeguare a me. A quello che sono. Alla massa informe di perversioni, e passioni, e sentimenti che riempiono la mia pelle
-…
-Starti vicino è la sola cosa che voglio. Fin da quando sei nata, sei stata per me una vocazione. Dovermi occupare di te è stata una delle cose più belle che mi sia mai capitata. Un miracolo. Nelle notti passate a casa da soli, stringerti era il solo calmante che potevo permettermi. Che volevo permettermi. Al diavolo i nostri genitori. Non ne avevamo bisogno. Non ne abbiamo tutt’ora
-…
-Ma questo è il mio misero pensiero. Adesso, vorrei conoscere il tuo
Spluch. Spluch. Spluch.
Non mi lasciava pensare, quel rumore, ingannevole porto per anime in balìa dei sentimenti.
-Non lo so
Sarebbe stato così semplice lasciarsi andare alla sua ripetitività, annichilirsi in essa, diventare onda e sale e rumore e niente, in un continuo andirivieni senza inizio né fine.
-Cosa non sai?
-Non lo so. E basta
Così infinitamente piccola, sovrastata da tutto il resto: dal buio, dalla luna, dalle sue domande.
-Non sai se vuoi farlo?
-Non lo so
Sovrastata da tutto il resto.
-Non sai se sia giusto?
-Non lo so
Sovrastata dal rumore del mare.
Spluch. Spluch. Spluch.
-Dammi un bacio
-Sì
Fu come lo scoccare di una freccia. Nel momento stesso in cui le mie labbra toccarono le sue, mi resi conto che fino a quel momento, l’arco, lo avevo solo teso, spasmodicamente, con violenza, e le mie mani non erano mai abbastanza distanti, e la corda non era mai abbastanza tirata, mai abbastanza, e avevo continuato a tendere, con un occhio chiuso, l’altro fisso sul bersaglio, un puntino lontano, lontano, lontano, sempre troppo lontano, come se retrocedesse mentre io aspettavo di essere abbastanza pronta, ma non potevo esserlo, pronta, se lui continuava ad allontanarsi. Ed io tiravo, tiravo, e mi dolevano  le braccia, fino a che le sue labbra non si schiusero ed io. Avevo lasciato finalmente la corda. Con uno schiocco, uno spasmo, l’avevo lasciata scivolare sulle dita, dolcemente. Mi aspettavo che facesse male. Invece no. L’avevo lasciata andare, quella corda, quando le sue labbra si schiusero sulle mie, con gentilezza, come se gli avessi fatto un favore, e le sue mani scorrevano sul mio corpo e parevano brividi, scariche, mi lambivano con reverenza, quasi fossi una reliquia, e cercavano le mie, nei suoi capelli, li accarezzavo come se da quello dipendesse la mia vita. E la luna, flebile luna che sgusciava dagli scuri, sottili lame che tagliavano a fette il mondo, vide il suo corpo nudo, ed il mio unito al suo, in uno scellerato amplesso che lentamente ci consumava, ci svuotava di ogni facoltà, lasciandoci agonizzanti pelli distese sul nostro letto di perversioni, e passioni, e sentimenti.
E fuori (Spluch) E dentro (Spluch) Il mare
-Dove vai?
-Non lo so
-Perché ti metti il costume?
-Fuori c’è il mare
-Già
Pelle svuotata, seconda pelle rinata e morta che si trascinava lentamente verso le onde e insieme ad esse si mesceva: rigetta e ingoia, rigetta e ingoia, rigetta, ingoia rigetta ingoia rigettaingoiarigetta
                                                        ingoia
                                                                                                                 e rigetta.               Tutto.
 Venivamo accolti nel grembo del mare come due entità
                                                                                                   ed eravamo rivomitati al mondo come un unico
                                 groviglio elementale, indisgiungibile, di corpo e anima.
 
Avevo assaggiato il suo sapore.
                                                              E mi era piaciuto.      Pasto dopo pasto, ci saremmo divorati in un banchetto   
                                     fiero e colpevole, continuo dilaniarsi dell’io.                
                                                                                                                                 Ineluttabile e ripetitivo.
Come la risacca.
Quella notte, mentre giacevamo nudi uno accanto all’altra, udii un suono che mai più avrei percepito nei nostri successivi incontri. Fu più leggero di un soffio, di un battito d’ali, ma lo sentii ugualmente: come l’anima che scivola via dalla propria urna. Avrei voluto sentirlo di nuovo, per accertarmi, per capire. Ma sapevo già che quel suono era destinato a perire insieme alla mia memoria. Fu un unico fremito: leggero, come di una freccia che penetra il profondo mare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Nota dell’autrice: E’ un tema un po’ particolare, in realtà non so bene perché ho voluto inaugurare il mio account proprio con qualcosa di così “pesante”. Ringrazio tutti coloro che hanno letto questo mio lavoro e li invito a recensirlo. Mi piacerebbe conoscere le vostre interpretazioni, magari discuterne insieme.
Lariat
  
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