37
Qualcuno da salvare
Non gli era mai capitato di sentirsi così
inadeguato.
Il suo amico ora
camminava libero, in tutti i sensi, senza un accenno di affaticamento o di
bisogno di sostenersi a lui. Axel non riusciva a smettere
di lanciargli occhiate furtive. Si conoscevano da poco più di un mese;
non avrebbe saputo dire chi dei due fosse più cambiato, né se
quel tempo fosse stato troppo lungo o troppo breve. Camminando sulla strada di
casa, con la coscienza fresca di bucato e senza più nulla da nascondere
a se stesso o agli altri, lo spacciatore fallito non pensava più alla
propria condizione, ma a quella della persona che gli stava accanto,
l’unica che volesse con sé e l’unica che lo facesse sentire
sempre nettamente inferiore.
«Hai perso la
lingua?»
Roxas lo guardava
impassibile. Axel si strinse nelle spalle.
«Pensavo.»
«Pensavi?»
Il ragazzino ridacchiò. «Tu?»
«Ridi, ridi
pure.» Axel gli indirizzò un mezzo
sorriso senza ironia. «Pensavo che somigli moltissimo a tua madre.»
Roxas tacque, sorpreso. Poi
distolse lo sguardo e continuò a camminare.
«Lo prendo come un
complimento.»
Non replicò; per
una volta non ci teneva a rimarcare il suo imbarazzo. Probabilmente lui non era
neppure in grado di immaginare il
percorso e la lotta interiore che Roxas aveva dovuto
affrontare prima di mettere piede in quel cimitero e tornare a guardare negli
occhi la sua famiglia. Se solo avesse potuto dimostrargli quanto significasse per lui essergli stato vicino in un momento del
genere...
Scosse la testa.
Erano arrivati. Davanti
all’ingresso del condominio, Vexen zoppicava in
giro, raccattando dalla strada dissestata quelli che sembravano giornali vecchi
ancora in buono stato. Chissà, magari voleva farsi una cultura. Axel ricordò che una volta, in un numero di Topolino trovato in un altro parco
troppi anni prima, aveva visto Paperon de’ Paperoni comportarsi esattamente nello stesso modo.
Un sogghigno gli venne
spontaneo, nel preciso istante in cui il vecchio portinaio alzava lo sguardo e
lo intercettava. L’espressione acida si venò di una fievole
traccia di allarme, ma durò soltanto un nanosecondo; Vexen
finse ostentatamente di non averli visti e zoppicò in fretta su per i
gradini d’ingresso fino al portone, chiudendoselo alle spalle con uno
schianto secco.
Roxas rise allegramente.
«Tu lo terrorizzi, Axel!»
«No, è solo
offeso perché non è ancora riuscito a estorcermi
l’affitto.» Scrollò le spalle e ripercorse i passi di Vexen verso l’uscio. «Per quel che mi riguarda,
può anche stare tranquillo. Ora che sono ufficialmente un bravo ragazzo
provvederò anche a questa rottura di scatole, prima o poi...»
«Axel... Fermati.»
«Dai, lo so che
non dovrei scherzarci su, però...»
«Non hai
capito.» Roxas lo raggiunse e lo afferrò
per una manica. «Fermati un attimo!»
Senza capire, Axel si fermò ai piedi dei gradini e lo
fissò, inarcando un sopracciglio.
«Beh?»
Roxas arrossì e lo
lasciò andare.
«Devo... dirti una
cosa.» Fece un profondo sospiro. «Ti ho detto che ero sicuro che
oggi saresti potuto tornare a casa... Beh, non ero l’unico ad esserlo.
Sora e Kairi hanno organizzato un... una festa per
te. Che comincerà appena tu ed io arriveremo al secondo piano.»
Axel continuò a
fissarlo, a dir poco sbalordito. Alla fine gli affiorò alla bocca un
dubbio.
«Mi stai dicendo»
disse lentamente, «che mi hai portato laggiù al cimitero... per distrarmi?»
Roxas alzò di scatto
la testa. Sembrava arrabbiato, o deluso, dalle sue parole.
«Ti sembro capace
di una cosa del genere?»
Axel realizzò la
sciocchezza detta in meno di un baleno. Distolse lo sguardo e abbassò la
voce.
«No. Scusa.»
Seguì un silenzio
impacciato. Quelle ultime due sillabe echeggiarono per un pezzo nell’aria
circostante; Roxas pareva sorpreso, come se non si
aspettasse quella risposta, e Axel dovette riconoscere
di non essere meno impressionato da se stesso.
Finalmente si decise a
tornare alla questione in sospeso. «Allora?»
Roxas alzò gli occhi,
ancora confuso. «Allora cosa?»
«Allora, che c’è? Hai deciso di
rovinarmi la sorpresa della festicciola solo perché ti andava, o
c’è un motivo preciso per cui mi stai preparando alla cosa?»
Il biondino
sembrò ritrovare il filo del discorso. Sollevò le spalle.
«Più o
meno. È che... In questo momento, io non ho molta voglia di
festeggiare.» Arrossì ancora. «Cioè, sono felice per
te, lo sai, però non credo di volermi ritrovare in mezzo a tanta gente,
ora come ora. Perciò, ecco, te l’ho detto, così ora tu vai
da Sora e gli altri e io...
«Non se ne parla
neanche.»
Roxas s’interruppe.
Axel lo afferrò per
un braccio, fece dietrofront e se lo trascinò dietro. «Tu vieni
con me. Non ti lascio solo. Memorizzato?»
Non si voltò a
guardare la sua espressione, ma a giudicare dal suo silenzio capì che
sì, aveva memorizzato. E che non gli dispiaceva.
* * *
«E voi due che ci fate qui?»
Si fermarono. Avevano
circumnavigato una buona metà dell’edificio, fino al punto in cui
il vicolo rivelava il cortile interno, ma a quel punto si erano imbattuti in
due agenti di polizia: per la seconda volta da quella mattina, Roxas riconobbe Cloud Strife ed Aerith Gainsborough.
«Dunque,
vediamo.» Axel soppesò
quest’ultima con lo sguardo prima di rispondere alla sua domanda.
«Fino a qualche ora fa ci abitavamo, e dovrebbe essere ancora
così, a meno che le circostanze non ci abbiano sfrattati nel frattempo.
Ma, ora che ci penso, potremmo fare a voi
la stessa domanda.»
Roxas approfittò del
suo enfatico sarcasmo per sfilare il braccio dalla sua stretta, augurandosi che
l’imbarazzo non gli si leggesse in faccia.
La giovane donna sorrise
gentilmente e mostrò ad Axel ciò che il
suo collega teneva in mano.
«Beh, a quanto
pare siamo venuti a sgomberarvi la strada.» Si voltò per rimuovere
anche le ultime transenne tra quelle che nelle ultime settimane avevano
bloccato il vicolo e assicurato gli arresti domiciliari di Axel.
«Comunque, se questo è il vostro metodo per rientrare in casa,
devo ammettere che è un po’ inusuale. Grane col signor Vexen?»
Ne aveva azzeccate due
in un colpo: Roxas non poté impedirsi di
sorridere tra sé e sé.
Dal canto suo, Axel allargò le braccia e scosse la testa.
«Eh, lasci stare,
è una storia lunga.» Prese di nuovo Roxas
per un braccio e ricominciò a trascinarlo verso il vicolo. «Allora
ci si vede, signori. Buona giornata.»
«Altrettanto»
sorrise Aerith, accompagnata da un semplice cenno del
capo da parte di Strife.
Roxas fece per ricambiare il
saluto, ma subito dopo si ritrovò nel vicolo con Axel
e si distrasse: era la prima volta che passava di lì, da quando viveva
al condominio.
«Meno male»
sbuffava intanto Axel in sottofondo, producendo con
la sua bassa voce baritonale un eco rombante sotto la volta di cemento.
«Se non altro, ho finito di sentirmi come un topo in trappola.»
Stava già per
dirgli che d’ora in poi avrebbe potuto guadagnare ben più di
questo, quando si rese conto che in quella trappola
in realtà Axel c’era stato benissimo, o
comunque non se n’era mai lamentato prima. Rinunciò in partenza e
si rassegnò a tenergli dietro.
Visto dal basso, il
cortile del condominio sembrava molto più grande che dalla sua finestra
al secondo piano, ma non meno sporco e mal tenuto. Tuttavia non gli dispiaceva
quel cambiamento di prospettiva.
Lo sguardo di Axel si posò sulla scala antincendio e
d’improvviso scintillò pericolosamente.
«Bene, piccolo Roxas.» Non era sicuro che quel vezzeggiativo
significasse qualcosa di buono. «Direi proprio che è arrivato il
momento di mostrarti la mia camera da letto.»
C’era da aspettarselo.
Roxas si sentì
avvampare, poi tirare di nuovo in avanti. Cercò di divincolarsi.
«Insomma, Axel! Mollami! Guarda che so cammina...»
La voce gli si spense,
mentre si rendeva pienamente conto del senso delle parole che aveva scelto per
protestare.
Axel smise di trascinarlo e
si voltò, guardandolo con occhi indecifrabili. Confuso, Roxas ricambiò lo sguardo.
So camminare.
Era così strano
per lui pronunciare quelle due sole parole. Eppure gli erano salite alle labbra
così, spontaneamente, senza riflettere. La risposta più ovvia del
mondo.
Non avrebbe saputo
spiegare il senso di estraniazione appena provato; ma Axel
capì lo stesso.
Gli sorrise, lo
lasciò andare e si diresse senza fretta alla base della scala.
Grato del suo silenzio, Roxas si scosse e lo seguì.
L’adolescente era
già alla metà della rampa che conduceva al primo pianerottolo
quando si fermò improvvisamente, si voltò e seguì un
pensiero chissà dove. Una decina di gradini sotto di lui, Roxas vide la sua espressione indurirsi. Per un attimo gli
apparve di nuovo il pericoloso sconosciuto che una notte aveva percorso quella
scala antincendio con una pistola in mano e una persona da uccidere.
Abbassò gli occhi sul gradino di metallo davanti ai propri piedi,
così stranamente piantati al
suolo.
«Sai che fine ha
fatto Zexion? Quello che hai visto venire a cercarmi
qui, il mese scorso?»
«No. Che fine ha
fatto?»
«Gli hanno
sparato. Quei due simpaticoni qui fuori.»
Pausa.
«Sul serio?»
Axel chiuse gli occhi e si
stiracchiò. «Sul serio. Strana la vita, eh?»
Roxas annuì e
alzò la testa.
«Mi
dispiace.»
Al suo fianco, l’altro
sobbalzò e lo fissò con aria stordita.
«Quando sei arrivato
quassù?»
«Proprio
adesso.» Roxas tagliò corto e
continuò a salire i gradini, guardandosi i piedi e ripetendosi
mentalmente che erano proprio i suoi. «Perché non me ne hai
parlato prima?»
Axel non rispose.
Raggiunto il
pianerottolo del primo piano, che nasceva davanti alla finestra dell’appartamento
1B, lui proseguì sulla piattaforma fino a quella dell’1A,
sbirciando l’amico ancora fermo sulla rampa inferiore. Quando
incontrò il suo sguardo assorto, si fermò.
«Che
c’è?»
«È...»
Axel non batté ciglio. «Niente. È
un po’... strano vederti salire
le scale, ecco tutto.»
L’intensità
con cui lo fissava lo mise di nuovo a disagio. Distolse il viso e riprese a
camminare.
I passi di Axel riecheggiarono dopo qualche istante, un rumore
smorzato nel silenzio assoluto.
Le persiane alla
finestra del 2A, quella della sua stanza, erano chiuse come le aveva lasciate
prima di uscire con Sora quella mattina per recarsi all’udienza in
tribunale. Meglio così; sarebbe stato alquanto imbarazzante se Sora o Hayner o chiunque altro in quel momento stessero guardando
proprio da quella finestra, accorgendosi che lui, invece di presentarsi alla porta del suo appartamento, stava
per entrare così furtivamente nel 2B...
Si fermò di nuovo
sul pianerottolo del secondo piano, aspettando che Axel
facesse gli onori di casa. Lui lo raggiunse, lo superò e scavalcò
agilmente il davanzale.
«Non la chiudi
mai, questa finestra?» cercò di scherzare Roxas.
Recuperata
all’istante l’indole sarcastica, Axel
sogghignò.
«Non potrei mai.
È la mia via di fuga preferita.» Fece un passo indietro.
«Non ti serve aiuto, non è vero?»
Il ragazzo sorrise. Se
per qualche secondo Axel aveva guardato alle sue
gambe rinnovate con gli occhi di tutti gli altri, ecco che ora tornava al suo
vecchio pragmatico distacco.
«Non mi avvilisco per così poco...»
Proprio come piaceva a
lui.
«No. Non mi serve
aiuto.»
Si avvicinò al
davanzale, vi si sostenne con una mano e sollevò la gamba sinistra fino
a oltrepassarlo. Sedette a cavalcioni e tirò dentro anche la destra,
ritrovandosi infine in piedi di fronte ad Axel.
«Fatto.»
L’altro aveva
ancora gli occhi fissi sui suoi jeans. Roxas ebbe la
preoccupante impressione che avesse seguito tutti i suoi movimenti con estrema
cura. Ma perché lo rendeva
così nervoso?
Cercò di ignorare
quel pensiero così stupido
guardandosi intorno nella stanza di Axel.
A prima vista, sembrava
che l’inquilino del 2B si fosse trasferito là il giorno stesso.
L’immagine gli ricordò quella del soggiorno, che aveva già
avuto modo di vedere un’unica volta. C’erano pochissimi mobili, che
parlavano di scarna essenzialità, e praticamente nessun effetto
personale. Un letto sfatto, un armadio, un comodino. Ogni particolare dava
l’idea di un proprietario che non aveva la minima voglia di far sua
quella stanza o, più semplicemente, intendeva passarci meno tempo
possibile.
Roxas si avvicinò
lentamente al letto.
«Mmm.»
«‘Mmm’, cosa?» Axel gli
si affiancò, incrociando le braccia. «Che ti aspettavi, un albergo
a cinque stelle?»
«No di certo. Ma
forse qualcosa con un minimo di personalità...»
«Traduzione,
prego.»
Si voltò a
guardarlo divertito, con fare paziente. «Voglio dire che questa stanza non
dice niente di te. La mia, per esempio, è un caos: qualcosa vorrà
dire.»
Axel ridacchiò.
«Magari è solo che non c’è niente da dire su di
me.»
«No, questo
è impossibile.»
«Andiamo, bimbo!
Tu sai di me tutto quello che vale la pena sapere e anche qualcosa che non vale la pena sapere.» Si tolse
la felpa e rimase in t-shirt. «Eccetto il mio più grande talento,
forse.»
Roxas mosse un passo
indietro, con un bruttissimo
presentimento. «Sarebbe a dire...?»
Axel gli si avvicinò
ghignando. «Prima devi dirmi tu una cosa. Soffri il solletico?»
«Il...»
Sgranò gli occhi e indietreggiò ancora, fino a toccare il
materasso. «Che cosa?»
«Perché questa» lo interruppe
l’altro, tendendo le mani, «è una cosa di me che non
varrebbe la pena sapere. Ma pazienza, io te la dico lo stesso!»
Prima di avere il tempo
di reagire, Roxas si ritrovò quasi
scaraventato sul letto, con Axel al suo fianco
intento in un ossessivo attacco di solletico. Scoppiò a ridere e
piegò automaticamente le gambe per difendersi, ma l’adolescente
aveva braccia più lunghe e forti delle sue e riuscì a vincere
presto ogni sua resistenza. In preda alla ridarella e ormai alle lacrime, Roxas si sfilò il cuscino da sotto la testa e
colpì ripetutamente, alla cieca, dove e come capitava.
«Dovevi marcire in
prigione!» boccheggiò. «Ti odio! Ti odio! Ti odio!»
Axel si fermò
all’improvviso. Rideva anche lui. Roxas
lasciò ricadere il cuscino e rimase ansante, a braccia aperte, a cercare
di calmare le risate.
«Forse non so
tutto di te» esalò poi, «ma una cosa è certa. Sei lunatico.»
«Lunatico?
Io?»
«Sì, tu! Un
attimo prima hai uno sguardo da assassino, un attimo dopo ti trasformi nel
Signore del Solletico. Durante gli arresti domiciliari fai sempre lo scemo, poi
ti sento dire che ti sentivi in trappola.» Scosse la testa, esasperato.
«Come mai sei così contraddittorio?»
Axel sorrise e gli
asciugò la guancia, dove una lacrima si era scavata una via per andare a
disperdersi nel cuscino.
«Che pretendi da
me? È colpa tua... Mi fai fare cose che di solito non faccio.»
Roxas perse ogni voglia di
ridere. Aveva riconosciuto la parafrasi delle sue stesse parole, e sapeva che
non c’era nulla di ironico in quella frase.
Soltanto allora si rese
conto di quanto Axel fosse vicino.
Imbarazzato,
sfuggì al verde magnetico e indagatore dei suoi occhi e si
concentrò sulla sua spalla. Sotto la manica della t-shirt nera si poteva
distinguere una piccola macchia bianca a forma di mezzaluna. Senza neppure
accorgersene, portò una mano a sfiorargli la cicatrice. Liscio sul
ruvido, freddo sul caldo.
«Prima non mi hai
risposto.» Ancora non lo guardava. «Perché non mi avevi
detto che il tuo amico... Che era successo quel che è successo?»
Axel non si muoveva; ancora
in quella posizione, sollevato sui gomiti puntati, poco sopra di lui,
sembrò riflettere sulla domanda.
«Era una cosa che
non riuscivo a fronteggiare, credo. Mi sembrava... irreale. Ma l’amicizia
non c’entra. Zexion non era esattamente mio amico... Una volta credo di aver avuto
un’amica, una bambina dell’orfanotrofio. Da allora non ho
più avuto bisogno di simili stupidaggini.»
Roxas alzò gli occhi,
imbronciato. «Ma scusa, allora io cosa dovrei essere? Tuo zio?»
Axel gli sorrise, sicuro di
sé. «Proprio non ci arrivi?»
Il ragazzo lo
fissò, incerto, ma l’altro non aggiunse nulla. Il silenzio e la
vicinanza si facevano sempre più imbarazzanti. Avvertendo
l’accelerare frenetico dei battiti del cuore, Roxas
si rifugiò di nuovo nella contemplazione della cicatrice sul suo braccio
destro. Una cicatrice: ciò che l’aveva convinto a chiedergli di
accompagnarlo al cimitero, dai suoi genitori...
«Hai trovato qualcuno da salvare. E
l’hai salvato. Questo significa che sei pronto.»
Axel scese lentamente con il
capo e gli posò le labbra tra i capelli.
«Mi odi
davvero?» bisbigliò.
Roxas chiuse gli occhi. Lentamente,
scosse la testa.
«Sicuro?»
Le labbra si spostarono
sulla punta del suo naso.
«Sicuro» mormorò
lui, le palpebre ancora chiuse.
Un improvviso sospiro
sommesso lo indusse a sollevarle. Axel si stava
ritraendo.
«Bene. Fantastico.
Questa... non è una cosa
normale.» Aumentò la distanza tra loro, ma rimase chino su di lui.
«Senti, Roxas, non mi è capitato molto
spesso. Mai, a dirla tutta. E... Insomma...» Sospirò di nuovo,
guardò la parete al lato del letto e imprecò a mezza voce.
«Merda. Io non voglio farti male, capisci? Non voglio che tu debba
affrontare anche... questo... adesso. Non voglio vederti fare di nuovo i conti
con le chiacchiere della gente... Non potrei sopportarlo.»
Roxas osservò a lungo
il suo profilo sottile, affilato, con un crescente stupore per quell’inaspettato
tratto di sé che gli stava svelando e una morsa allo stomaco che non
tardò troppo a giustificare.
Alla fine, tolse la mano
dal suo braccio e gliela portò al viso, costringendolo a guardarlo in
faccia.
«E tu credi che me
ne importi qualcosa?»
Per qualche secondo, Axel non reagì. Poi sorrise, posò la mano
sulla sua e se l’allontanò dal volto, chinandosi ancora sul suo.
«Menefreghista.»
Roxas ricambiò il
sorriso. «Lunatico.»
«Impertinente.»
«Mai quanto
te.»
«Tregua?»
«Tregua.»
Mentre chiudeva gli occhi,
sentì sulle labbra il sapore di quelle di Axel
e convenne con lui: almeno in quel momento, non gli importava di niente e di
nessuno.
E non si sentiva neppure
in colpa.
* * *
«Alla buonora! Ma dove cavolo siete
stati?»
«Uh. In
giro.» Axel allungò una mano e
arraffò la pasta al cioccolato che Sora stringeva in mano, addentandola
con gusto. «Ehi, c’è una festa?»
«Sì che
c’è una festa! Roxas non ti ha detto
niente?»
Il rosso alzò le
spalle e continuò a masticare. Confuso al punto da non protestare neppure
per la pasta perduta, Sora spostò lo sguardo da lui a suo fratello, che
era appena entrato nell’appartamento con aria svagata; sembrava
letteralmente perso tra le nuvole.
«Roxas!»
Hayner e Olette
si avvicinarono in fretta alla porta, ma di fronte alla sua strana espressione
gli fecero subito ala, forse temendo che non si sentisse bene.
«Ehi, tutto a
posto?»
«Che ti è
successo?»
Roxas li guardò come
se non li riconoscesse; poi, proprio come Axel,
scrollò le spalle e rubò il pasticcino alla crema di Hayner.
Sora non ci capiva
nulla. Fissò ancora Axel, interrogativo. Il
rosso ingoiò l’ultimo boccone di cioccolato e gli strizzò
l’occhio.
«Tranquillo. Non
l’ho drogato, te l’assicuro. Abbiamo solo fatto una lunga chiacchierata sull’amicizia,
tutto qui... È stato a dir poco illuminante.» Rivolse la sua
attenzione al tavolo che i ragazzi avevano sistemato nell’ingresso
già un paio d’ore prima. «Però, gente, vedo che ci
sapete fare con il catering!»
Sora lo seguì con
occhi attoniti mentre si avvicinava al rinfresco, accolto dalla risata di Pence, e intercettò così lo sguardo di Kairi. Lei inclinò il capo da un lato, evidentemente
perplessa quanto lui dal ritardo del festeggiato e del suo accompagnatore.
Interdetto, Sora tornò a guardare Roxas.
La cosa più strana,
rifletté, erano gli sguardi che lui ed Axel
continuavano a lanciarsi di sottecchi.
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Dio, finalmente è finita! Oh, no,
non la fanfic. Parlo della festa patronale del mio
paese, che mi ha tenuta occupata per pochi giorni eterni – impedendomi di
scrivere e pubblicare quanto avrei voluto ;__; Ma, ringraziando tutti i numi
celesti, finalmente è finita,
e io spero di tornare a farmi viva con regolarità su EFP. ^^
Beh, ho poco da dire su questo capitolo:
anche in questo caso avrei voluto lavorare molto meglio sul, ehm, ‘rafforzamento’
del legame tra i due protagonisti indiscussi... Ma in fondo mi pare sia piuttosto
comprensibile che Axel è ormai perso di Roxas,
ne? x3
Alla prossima,
Aya ~