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Autore: ElizabethLovelace    21/03/2006    4 recensioni
I Malandrini rimasti e chi è ora al loro fianco dovranno fare i conti con i ricordi divertenti e tristi del passato... le loro vite torneranno a intrecciarsi per decidere cosa fare una volta per tutte di ciò che è stato. La chiave? Elizabeth Lovelace... sospesa fra un passato ed un presente che Harry &Co. trovano indecifrabili: chi è, da dove viene? Come può essere... ciò che è?
Inserita quasi esattamente nel 5° e 6° libro della rowling.
GRAZIE per seguirmi ancora così tanto, prometto che oltre alle revisioni dei primi capitoli posterò prestissimo anche i tre conclusivi!!! Ma GRAZIE
Genere: Romantico, Commedia, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: I Malandrini, Il trio protagonista, Nuovo personaggio, Remus Lupin, Severus Piton, Sirius Black
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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oddio ragazze, siete fantastiche... voi mi dite che riesco farvi ridere, che riesco a commuovervi, questa cosa è... è... non so come farei senza di voi! *_* non so cosa dire, grazie!



Grimmauld Place, 22



47.
“Oh Dio, oh Santo Dio, Santo cielo Santo Dio!!!”
“Mamma, per favore!!!
“Sì Bill, sì, scusami, è che dovremmo... sono sicura che dovremmo... cosa diamine dobbiamo fare?”
“Vado a chiamare Remus.”
“Certo, è l’unica soluzione... oh, Santo cielo, ma dove può essere scappata?”
“Non lo so... è talmente sconvolta...”
“Oh, Dio!!!”



48.
Bessie era entrata al numero 12 di Grimmauld Place, il passo cauto come se temesse l’esplosione di una bomba da un momento all’altro. Intorno era buio. Si era diretta con decisione verso la porta che era sempre rimasta chiusa durante la sua permanenza lì, aveva mormorato “Alohomora” facendola spalancare con grazia.
Non so se ho davvero voglia di trovarti, ma questo posto è come una coperta. Non riesco a guardare mentre precipiti in un pozzo troppo profondo perché io possa raggiungerti. Non posso stare qui a sentire che ora non respiri.
Avresti dovuto essere felice, Sirius.
Avrei voluto vederti sorridere, e riposarti. Solo per una volta, avrei voluto che lasciassi il mondo ad arrangiarsi, che non pensassi a tutto quel dolore, e ti rilassassi. Ma non basterà più nessun sole a riscaldarti. Non riuscirò a prenderti per mano. Perché ancora la mia voce trema, impedendomi di cantare?
Quei respiri, come possono finire?
Vorrei solo che potessi dirmi che tornerai, presto o tardi tornerai, prima che le mie braccia siano troppo stanche di vivere. Sto ancora aspettando che tu sbuchi all’improvviso, dicendomi che era tutto uno sbaglio. Sto aspettando quel tuo maledetto sorriso beffardo, perché mi restituisca il mio equilibrio.
C’è odore di te, in questa stanza.
Debilita tutte le mie difese.

L’interno sembrava un cimitero di oggetti abbandonati, distrutti dalla furia di qualcuno. Si era avvicinata ad una valigia vuota che aveva perduto il lucchetto; aveva posato la mano a sentirne la pelle, distrattamente. In quello stesso istante alla sua mente si era affacciata la visione di Sirius che l’afferrava con entrambe le mani e la scagliava lontano, contro il tavolo. Sirius sconvolto, Sirius distrutto, Sirius con l’aria di animale in gabbia, di bestia ferita, aveva ridotto in quelle condizioni la stanza.
“Oh, Dio.” aveva bisbigliato lei, staccandosi subito da quel contatto. Si era portata una mano alla gola, ed una goccia di sudore era scesa lungo la fronte.
La nausea mi assale un’altra volta. Vorrei strapparmi via la pelle. Tutto questo è solo un assurdo proseguire, che senso ha? Ogni volta illudersi e poi perdersi, che senso ha? Ogni volta lascia segni più profondi.
Allora perché sono ancora qui?


“E’ stato lui. Ma è stato molti anni fa.”
Da dov’era giunta quella voce?
“Chi...?”
“Io.”
Aveva abbassato lo sguardo. La voce proveniva dalla valigia.
“Tu... parli?”
“Tutti noi possiamo. Prova a toccare qualcos’altro.”
Bessie esitava, era arretrata di un passo. Poi, con timore, si era guardata intorno e si era diretta verso un vecchio teatrino, in condizioni ancora peggiori di quelle in cui versava la valigia. L’aveva sfiorato.
Ancora più potente dentro di lei, di nuovo Sirius. Sirius che con una spranga di legno colpiva ripetutamente quel teatrino, e disperatamente urlava e ringhiava. Sirius colpiva, colpiva come se pensasse di colpire se stesso. Bessie si era ritratta terrorizzata.
“Sei sconvolta?” le aveva domandato la valigia.
“Cosa significa... tutto questo?”
“Non siamo finiti qui per caso. È stato lui ad animarci.”
“Ma... vi colpiva...”
“E’ stato molti anni fa.” La voce, tremolante, proveniva dal teatrino. Bessie si era voltata a guardarlo.
“Io ero un teatrino molto bello”, aveva proseguito lui. “Aprivo soltanto a Mezzanotte. È a Mezzanotte che tutto diventa magico, no?”
“Io” era intervenuta la valigia “ero una valigia che per quanto venisse riempita, rimaneva sempre vuota; così riuscivo ad evitare certe dolorose separazioni...”
Bessie li fissava, attonita per ciò che sentiva ed ancora profondamente turbata per quello che aveva visto.
“Quelle scale laggiù, loro portavano in un brutto posto. Così alla fine riuscivano a sostenere il peso di un uomo di duecento chili, ma non quello di un bambino. Se uno di loro provava a salirle, si sfasciavano. Delicatamente però.” Bessie aveva guardato le scale. “Invece in quell’angolo troverai della nebbia... lei avvisava sempre le persone che l’attraversavano dei pericoli che si nascondevano dentro di lei. Un giorno però perse la voce, e non ci riuscì.”
“Io... io non capisco. Perché siete qui?”
“Destino. Non servivamo più al motivo per cui ci avevano creati. Qui invece potevamo renderci utili.”
“Qui?”
“L’hai visto anche tu.”
“Ma... quello era...”
“Ciò che hai visto” aveva spiegato pazientemente la valigia rossa “è accaduto tredici anni fa.”



49.
Ho solcato gli oceani per stare con te, e ancora mi manchi.
Mi piaceva attenderti, sapere che ci saresti stato. Ora non posso respirare. Non voglio più parlare. Tutto questo dolore, è semplicemente troppo. Dentro di me solo un terribile bisogno di urlare, e so che non riuscirò a farlo. Conserverò una ad una le mie lacrime, poi un giorno sarà come un temporale di gocce salate.
Non ci riesco. Non riuscirò a dirti addio.




50.
“Sei qui.”
La casa era immersa nel buio e nel silenzio più profondo. Non veniva occupata da pochi giorni, ma già suscitava la precisa impressione di disabitato, come di qualcosa decaduto da molti, molti anni.
“Ciao, Remus.”
“Ci hai fatti preoccupare.”
Bessie si era stropicciata gli occhi. Voleva scusarsi, voleva terribilmente scusarsi. Tuttavia non c’era riuscita. Se ne stava lì, seduta per terra in un angolo della stanza, piccola come non gli era forse mai sembrata. Teneva le ginocchia raccolte fra le braccia, Bessie, e Lupin era rimasto in silenzio di fronte a lei.
“Questa stanza...” aveva mormorato Bessie indicando il luogo in cui si trovavano, senza riuscire ad esprimere ciò che provava. Aveva le guance arrossate dalla tristezza, e gli occhi per contrasto sembravano ancora più blu, come un cielo incredibile. Lupin si era guardato intorno, e in effetti qualcosa lì dentro dava la sensazione che nulla potesse cambiare. Che il tempo rimanesse immobile al momento in cui avrebbero preferito trovarsi, come se fuori non li avesse aspettati più nulla. Si era scostato dagli occhi dei capelli che non c’erano, solo per compiere un movimento. Bessie si era appoggiata con la schiena alla gamba di un tavolo malandato, aveva posato il mento sulle ginocchia. I capelli le erano finiti sugli occhi, e Lupin aveva cercato di nuovo di liberarsi la vista da qualcosa che non c’era.
Sembrava impossibile che, mentre loro due rimanevano lì, nel mondo potesse succedere qualcosa. Che qualcosa fosse già successo.
“Sì”, aveva risposto lui.
Era andato alla finestra, lasciando che la fronte godesse del contatto fresco con il vetro. Era ancora agitato Lupin, ancora preoccupato. Bessie si era grattata un gomito. Pareva che riducesse i movimenti al minimo indispensabile, spezzettandoli per non rischiare di turbare l’atmosfera che si respirava lì dentro.
“Ora dovresti uscire”, aveva aggiunto lui.
“Sai, mi piacerebbe avere una sigaretta.”
“Ma tu non fumi!”
“Lo so. Mi piacerebbe lo stesso.”
Lupin le aveva seguito con lo sguardo i contorni morbidi del collo, le spalle strette, la schiena di nuovo curva contro il suo stesso corpo. La maglietta viola che indossava era strappata in un paio di punti. Per terra, accanto a lei, stava un maglione troppo grande.
Stavano lì, i dialoghi congelati in un non-sapere. I loro rapporti si erano sciolti di colpo: che cos’erano adesso? Come due fratelli senza più i genitori, perché avevano perduto il loro passato, stavano lì dentro; qualcosa rimaneva e qualcosa di nuovo si rivelava. Tutto questo dove li avrebbe portati? Fuori avrebbero dovuto affrontare ciò che era successo, persone, finzioni imposte, ma non in quel momento. Non lì.
“Mi passeresti quel maglione, Remus?”
“Tieni.”
Lei se l’era messo intorno alle spalle.
Erano armati contro il mondo che spingeva per entrare. Bessie aveva pensato ad una notte trascorsa con Sirius poco tempo prima, quando lei aveva chiuso le imposte perché la luce non si accorgesse di loro.
Poi, era entrato Kreacher. Con il passo lento dell’indifferenza si era portato al centro della stanza, li aveva fissati comodamente, inclinando lateralmente il capo. Non aveva detto una parola.
“Fuori di qui” aveva sussurrato Bessie, agghiacciata.
“Eliza...”
“FUORI DI QUI!!!”
Qualcosa si era spezzato. Mentre Kreacher decideva prudentemente di fare dietro-front, Bessie si era alzata con foga. “Fuori di qui, maledizione!!!”, continuava ad urlare con la voce incrinata dal pianto anche mentre gli chiudeva la porta alle spalle. L’aveva sbattuta, l’aveva chiusa a chiave, l’aveva ricontrollata, e tuttavia non era più riuscita a tenere fuori il mondo. Si era mangiata un unghia.
“Maledizione...” aveva mormorato di nuovo, lo sguardo sofferente.
C’era stato un urlo a distruggere il silenzio di quel luogo, e per quanto spranghi le porte quando poi sei al buio diventi solo un bambino, i tuoi sogni preda di quel verso agghiacciante. Un sentimento orribile che pian piano si fa strada tra le tue ossa. Bessie era rabbrividita.
“Dimmi qualcosa, Remus. Dimmi... qualunque cosa...”
Lupin si era schiarito la voce.

Quando aveva terminato di raccontarle quella storia, una storia rassicurante da bambini, era tornato il silenzio. Lupin, seduto al suo fianco, aveva chiuso gli occhi.
Senza interrompere quella sacralità Bessie aveva iniziato a cantare. Piano, pianissimo, come una nenia dolce per addormentare un bambino ancora piccolo. Lupin l’aveva ascoltata senza riaprire gli occhi, sapeva che quella canzone non era per lui. Lui non centrava nulla.
Una volta terminata la melodia, Bessie si era alzata, aveva chiuso le finestre.
“Stacca il telefono”, aveva detto. “Questa casa ha bisogno di dormire.”

*****************************************************************************************************

“Sai Remus, adesso c’è la luna piena.”
“Ma è giorno!” aveva obiettato lui.
“Sì” aveva fatto un gesto noncurante con la mano “ma è come se ci fosse. Questo è un momento da luna piena.”
Lupin era rabbrividito inconsciamente.
“Oh, scusami!” si era affrettata lei. “Non intendevo in quel senso!”
Aveva guardato fuori, verso le imposte chiuse. “Mio padre l’amava, o forse era qualcosa di più, di diverso. Non so, ma non poteva farne a meno. Stava sveglio a guardarla tutta la notte, ed era qualcuno che in altri momenti non era. Ogni volta, lo ricordo benissimo nel portico anche se faceva freddo. Io mi alzavo la notte per spiarlo, e qualche volta me ne stavo raggomitolata accanto a lui. Ripensandoci adesso, credo che in effetti non fosse nemmeno una scelta, la sua. Chissà cosa stava aspettando.”
“Gli rimanevi accanto tutta la notte?”
“A volte mi addormentavo. Lui non si accorgeva nemmeno di me, però poi quando mi risvegliavo sulle mie spalle c’era una coperta calda. Non ha mai dato segno di vedermi, stava lì a fissarla e fumava sigarette e non riusciva a parlare. Mia madre non lo capiva.”
“Tu sì.”
Bessie aveva annuito. “Anche tu”, aveva detto.
Lupin non aveva risposto.
“Una volta ho visto Sirius. Era nelle stesse condizioni, nello stesso modo di mio padre. Non muoveva nemmeno le labbra, ma io vedevo che stava parlando con la luna piena, che stava cercando disperatamente qualcosa senza riuscire a raggiungerla. E tuttavia non poteva smettere, non poteva arrendersi. Non poteva riposarsi.” Aveva sospirato; un lungo, profondo respiro. “Tempo dopo gli ho gridato contro che ero innamorata di lui ma non sapevo nemmeno il perché: non era vero. Non lo è mai stato.”
Erano rimasti entrambi in silenzio, poi Bessie, che fino a quel momento aveva giocherellato con lo strappo della sua maglietta, aveva sollevato gli occhi lucidi verso Remus, sorridendo. “Volevamo bene ad un tipo strano, uh?”

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Lupin stava aiutando Bessie ad alzarsi, e nell’attimo prima che le loro mani si sfiorassero, i loro occhi si erano incrociati. D’improvviso l’aiuto che lui le stava offrendo era diventato molto più importante di ciò che poteva sembrare. Era simbolico.
Avevano esitato un istante, poi Bessie era rimasta sul pavimento.
Si guardavano, senza sapere che dirsi. Non sapevano quali fossero i loro rapporti, ormai. Erano amici, fratelli, compagni di lotta? Si amavano, si sarebbero respinti, avevano bisogno l’uno dell’altra? Che cos’erano? Cosa c’era da dire, ormai?
“Sei bravo a raccontare storie”, aveva mormorato lei.
Lupin si era accarezzato la nuca. Raccontare era un modo per liberare qualcosa. “A volte è come se una parte di me fosse in prigione.”
Bessie si era morsa il labbro inferiore.
“Come... come credi si sentisse?”
Non parlava di lui. Lui aveva nominato la prigione, e lei aveva pensato ad Azkaban. In Bessie c’era spazio solo per Sirius.
Aveva allargato le braccia, desolato. “Non lo so.”
Lei aveva sgranato gli occhi, stupita, come se non si fosse aspettata quella falla da parte sua. Lui l’aveva visto, aveva stretto lo sguardo. Non sono tuo padre, aveva pensato.
“Scusa.”, aveva replicato Bessie.
“Di che? Io non ho parlato...”
“Sono un Emagus, Remus.”

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Bessie si era stiracchiata, le spalle piccole ed appuntite si erano contorte sotto la stoffa leggera della maglietta. “Sarebbe bello se potessimo fermarci qui.”
Prima che Lupin potesse rispondere, dal corridoio antistante la porta Kreacher aveva sbattuto nervosamente qualcosa per terra, forse un oggetto metallico. “Non c’è più nulla, qui!” aveva gracchiato, ed il suo tono non era fermo.
Bessie, sbalordita, aveva aperto la porta. L’aveva fissato, si erano fissati come in una sfida che concernesse la vita o la morte. Kreacher era stato il primo a distogliere lo sguardo; aveva abbandonato il corridoio come se non avesse avuto importanza.
“Eliza, tu lo sai, dovresti riuscire a spiegarmelo: gli elfi domestici... hanno sentimenti? Kreacher, lui... cosa sente?
Bessie si era voltata verso Lupin. “Non posso dirtelo, Remus.”
Fuori, da qualche parte, un bambino piccolo aveva iniziato a piangere.

Bessie pensava che avrebbe voluto un fratellino minore.
L’avrebbe portato a passeggiare, consolato quando si sarebbe sbucciato un ginocchio, gli avrebbe pulito gli occhi quando si sarebbe svegliato la mattina. Si sarebbe presa cura di lui.
“Come faremo... c’è tutta quella gente là fuori, loro non sanno, non possono capire... ci sono dei bambini che piangono perché è finito il gelato, come potremo proteggerli?”



51.
Erano usciti dalla casa di Grimmauld Place, e improvvisamente Bessie aveva sentito la mancanza della solidità dei muri attorno, della loro protezione. Era rabbrividita.
“Hai freddo?”
“No”, aveva detto.
Aveva ripensato alla storia dei tre fratelli, ai due maggiori che per la situazione disastrata della loro famiglia erano cresciuti aggrappandosi l’uno all’altra non come parenti, ma come persone. Poi erano rimasti soli, e non avevano avuto più la possibilità di essere altro che persone. Si amavano? Lei comunque non avrebbe mai permesso che accadesse, per amore del fratellino.
Avrebbe voluto un fratello più piccolo.
Aveva infilato il suo braccio in quello di Lupin. Poi aveva pensato a quando si era dovuta occupare di un bambino, aveva chiacchierato con lui, avevano giocato. Lui era un magonò, e allora ad un certo punto lei gli aveva costruito delle ali di cartone.
Il bambino aveva piagnucolato. “Ma sono azzurre... le ali di solito sono bianche!”
“Mi dispiace”, aveva risposto lei senza sapere cos’altro aggiungere. Aveva lo sguardo veramente triste, così triste che lui doveva essersene accorto.
“Il cielo è azzurro”, aveva detto allora. “Io sarò il re del cielo!”
Bessie aveva sorriso. Il bimbo aveva sorriso.
“Anche i tuoi occhi sono come il cielo”, le aveva detto.




  
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