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Autore: keepcalm    19/07/2011    10 recensioni
Prima storia pubblicata e una delle prime scritte dopo averne lette a vagonate. Chiedo scusa a priori a J.K Rowling, per aver infangato i suoi personaggi per il mio diletto, e a voi, chiunque sarà tanto paziente da leggermi. Nonostante i mille errori che avrò commesso, ci tengo particolarmente a questa storia e volevo pubblicarla; ci ho messo una notte intera per scriverla. Ah, sì: parla di una partita a scacchi un pò diversa tra Ron e Hermione. Lo so, è molto lunga, ma si sa, se i giocatori sono capaci la partita può durare anche mesi; a loro è durata sette anni. Buona lettura a te, straniero.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Ron/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Posso cercare di ingannare il tempo in un’infinità di modi, dal più stupido(cioè mangiando) al più impegnativo (cioè aiutando George al negozio o giocando a Quiddich o a scacchi) ma non riesco ad abbandonare quel pensiero. È come un tarlo che rode tutta la mia capacità di concentrazione, già di per sé quasi nulla, ed è persistente come un rubinetto che perde una goccia alla volta. Sono passati cinque mesi e non ne posso più. Sapete una cosa? Io ho lottato tanto per conquistare quello che ho, sia metaforicamente che praticamente, e non riesco a sopportare il fatto che mi venga tolto con una tale facilità.
No, adesso sono ingiusto, lo so: io non posseggo nulla e, di conseguenza, non mi è stato tolto niente.
Cercherò di spiegarmi meglio partendo dal principio.
Avevo esattamente undici anni, per un maschio è come se fossero otto, ma sorvoliamo: non ero sicuro di molte cose e, nonostante avessi tantissime domande in testa, avevo troppa paura di sapere la verità per farle; non giudicatemi male perché, per quanto codardo possa essere stato, sono sempre appartenuto a Grifondoro  e ho dimostrato che ad undici anni e più è permesso essere spaventati, che il difficile si può anche affrontarlo dopo.
Comunque, non sapevo molte cose ma su alcune ero certo: non ero molto intelligente e non eccellevo in nessun campo in particolare(tanto i miei fratelli li avevano già invasi tutti) ma quando si trattava di giocare a scacchi, ero io il vero mago.
Avevo battuto almeno una volta tutti in famiglia, e non siamo né pochi né stupidi; ero sicuro di me quando avevo una scacchiera davanti.
Avevo subito compreso che negli scacchi la questione fondamentale è la strategia, prevedere le mosse dell’altro e farlo cascare nella ragnatela che intessi per tutta la durata del gioco; avevo un debole per i rompicapi, per le partite particolarmente difficili, e mi impegnavo con tutte le mie forze per trovare una via di fuga, una soluzione.
Poi però, dopo che mi toglievano la scacchiera dalle mani, la mia voglia di concentrarmi andava in fumo e facevo così la parte dell’indifferente in maniera da potermi adattare al ruolo che credevo di avere: l’invisibile.
Quando iniziai a capire(e quando mio padre me lo fece comprendere con un discorso franco) che la vita è un po’ come una partita a scacchi e che le persone non sono altro che dei pezzi su un enorme scacchiera, iniziai ad interessarmi un po’ di più a quello che mi circondava: osservavo ogni persona che mi si parava davanti e cercavo di assegnarle un ruolo, in modo tale da prevedere sempre le sue mosse ed agire di conseguenza.
Mi sono passati davanti moltissimi pedoni,  ma anche tanti cavalli che, si sa, sono quelli che più conducono il gioco perché che ti possono ingannare con il loro muoversi in maniera ambigua rispetto agli altri pezzi.

Re e regine si susseguirono, insieme ad alfieri e torri.
Ero diventato bravo a distinguere ogni singolo pezzo già dalla prima impressione che mi facevo su quella particolare persona ma avevo sviluppato una nuova strategia, che era valida con qualsiasi pezzo mi fronteggiassi: far credere che non mi importasse, che non avessi notato nulla e che non avessi le capacità per notare nulla, insomma, continuai a fare l’indifferente, per di più stupido.
Poi scoprii che, tutt’ad un tratto, era arrivato il momento per me di cominciare la scuola, di andare ad Hogwarts, ed è qui che ritorniamo ai miei undici anni.
Ero eccitato ma avevo una paura matta allo stesso tempo: ero il più piccolo tra tanti fratelli eccezionali ed ero convinto che non avrei dato ai miei genitori alcun tipo di soddisfazione, nessun motivo d’orgoglio; se fossi poi stato tanto fortunato da riuscire ad acciuffare qualche merito, non sarebbe stata una novità e quindi sarebbe passato comunque in secondo piano.

Andai con delle emozioni a dir poco contrastanti ma ero comunque un ragazzino e il brivido dell’ignoto fa gola a chiunque. Stavo per attraversare la piattaforma nove e tre quarti quando incontrai niente meno che Harry Potter.
Era piccolo e magrolino, con i capelli impazziti e degli sgargianti occhi verdi:  pensai che dovesse avere per forza delle potenzialità magiche straordinarie per essere riuscito all’età di un anno a sconfiggere il Signore Oscuro con una tale corporatura; sì, i bambini associano sempre la potenza con la prestanza fisica. Comunque, ero affascinato da quel ragazzino pelle ossa di cui mi avevano sempre decantato le lodi e desiderai tanto essere lui, essere un potente e coraggioso mago, con tanti soldi e famoso in tutto il mondo, già ad undici anni.
Non si può mettere un freno al tempo e quindi i minuti passarono durante queste speculazioni ed io ed il Ragazzo Sopravvissuto ci perdemmo di vista. Lo rincontrai sul treno, seduto tutto solo nell’unico vagone vuoto e gli chiesi se potessi unirmi a lui.
Se c’è una cosa che ho imparato con il tempo è che gli stereotipi non sono altro che un’illusione, e la vita cominciò ad impartirmi questa lezione proprio con Harry. Era una delle persone più gentili, umili e modeste che avessi mai conosciuto e dopo che mi raccontò un po’ di lui e di come e dove vivesse, mi sentii meglio nei miei panni, anche se il suo oro alla Gringott mi rendeva impossibile non invidiarlo del tutto.
Seppi subito che pezzo fosse Harry: era un re; su di lui c’era tutta la responsabilità del gioco e doveva essere protetto da tutti gli altri pezzi poiché per l’avversario era lui l’obiettivo principale, ma sapeva difendersi e lottare coraggiosamente con i mezzi limitati che aveva anche solo con l’aiuto di altri due pezzi e determinare così l’esito della partita.
Mi piacque subito e non potetti fare a meno di essergli amico.
Poi, mentre stavamo mangiando le nostre innumerevoli caramelle e stavo per fare un incantesimo al mio topo, arriva una ragazzina, anche lei con i capelli impazziti e con degli occhi castani grandi e profondi, che ci chiese se avevamo visto un rospo.
 Aveva un tono di voce autoritario e impregnato da po’ di superbia, soprattutto quando mi derise sul mio incantesimo non riuscito e si vantò abbondantemente del suo, perfetto. Ecco, lì scattò la molla del mio interesse.
Non riuscivo a capire che pezzo era.
Il suo tono era sì autoritario ma nei suoi occhi vedevo qualcosa di più che cercava di nascondere; purtroppo erano troppo profondi per mentire. Vidi insicurezza mentre pronunciava l’incantesimo, vergogna quando entrò e si presentò e una specie di divertito interesse quando mi disse che avevo dello sporco sul naso
. Tutte emozioni che le durarono negli occhi un attimo, mentre riprendeva il controllo di sé.
Capii e decisi che non sarebbe finita lì e avrei scoperto che parte giocava nella scacchiera: non poteva scapparsene con un atteggiamento scontroso e scatenare in me questo strano interesse senza che ci trovassi un motivo valido.
Questo successe di nuovo a lezione di incantesimi, qualche tempo dopo, quando l’esercizio non mi riuscii e lei si vantò del suo, perfettamente eseguito.
Ora, partendo dal presupposto che questo comportamento genera naturalmente l’antipatia di tutti, lei non poteva riporsi nella stessa situazione e non farmi capire niente ugualmente. Fui maleducato e cattivo, la offesi.
Ma, come si dice, il tempo guarisce sempre tutte le ferite, o in questo caso un troll di montagna lo fa: dopo essere stata nel bagno a piangere per tutto il giorno ed essersi ritrovata faccia a faccia con uno scimmione alto sei metri circa, l’avevo salvata con l’incantesimo che non mi era riuscito in classe(cosa che mi rese estremamente orgoglioso) e ci eravamo per questo, io, lei ed Harry, ritrovati davanti alla McGrannit, Piton e Raptor; dell’ultimo non mi preoccupavo molto ma i primi due sapevano come far accapponare la pelle.
E poi, successe l’impensabile: Hermione Granger, l’insopportabile so-tutto-io, colei che rispettava le regole alla lettera, si diede tutta la colpa dell’accaduto davanti a tre professori.
Io ero come pietrificato, ma adesso anche la più piccola particella della mi attenzione era puntata verso di lei: il suo ruolo mi era sempre più impossibile da decifrare ma, da questo momento in poi, avrei avuto la possibilità di spiarla da un’altra angolazione; eravamo diventati amici.
Con gli anni, il mistero di Hermione si infittì più che diradarsi, ed io ero sempre più desideroso di risolverlo.
L’unico problema era che noi avevamo la particolare capacità di istigarci l’un l’altro, partendo anche da un motivo sciocco, fino  sconfinare nell’esaurimento nervoso; credo che condividessimo anche i mal di testa, postumi delle liti più furenti.
Io però avevo una buona rag
ione per arrabbiarmi dato che non riuscivo a trovare una soluzione al suo enigma, e più mi convincevo che non ne sarei mai venuto a capo e che per questo dovevo abbandonare questa missione, più lei faceva delle cose sconvolgenti che rinfocolavano la mia curiosità.
Il vero problema(cosa che ho capito a distanza di anni) era che dovevo ancora dare a me un ruolo nella scacchiera e poi pensare a quello di Hermione. Ma poi, dato che ognuno di noi ha il suo campo da gioco, lei stava tra le mie file o no? Era vicino ad Harry nel mio esercito o accanto a me? O forse non c’era e giocava una partita separata dalla mia? Volevo che fosse così o volevo averla con me? Sì, per un quattordicenne mi stavo arrovellando il cervello non poco, ma la risposta a questi quesiti non si fece attendere: ovviamente volevo che lei fosse insieme a me e ad Harry nella stessa partita, ma mi serviva la risposta all’ultima domanda.
La difendevo, costantemente e da qualsiasi tipo di minaccia, fisica o verbale, che venisse da un alunno o da un professore, per lei avevo fatto cose che non avrei mai lontanamente immaginato di avere la voglia di fare(vorrei fare onore alle mie innumerevoli ore in biblioteca; mettetevi nei panni di un Weasley che non sia Percy o Bill) e cercavo la sua compagnia sempre, nonostante ci azzannassimo come draghi. Cercavo di dare una spiegazione che non fosse quella a cui ero giunto da quei dati di fatto poiché non avevo preventivato questo, qualsiasi pezzo fosse stata.
Quel maledetto cercatore bulgaro però me ne diede la conferma ma non potevo cedere così.
Ronald Weasley non era mai stato battuto a scacchi per una mossa che non aveva previsto, lui metteva in conto tutto, anche quando perdeva la partita, ma non poteva essere sconfitto da una pivellina come Hermione solo perché non sapeva lei che ruolo avesse. Krum mi aveva però aperto gli occhi in modo tale da farmi porre un altro quesito: e se invece fossi io ad essere nella scacchiera di Hermione e a giocare alle sue regole?
Io però avevo capito che pezzo ero: un pedone.
No, un pedone non aveva una scacchiera, era il primo a morire e l’ultimo ad essere ricordato, il meno utile, senza un pedone la partita non era per nulla compromessa. Non poteva dettare regole, non poteva prendere il comando dell’esercito, ma poteva solo scegliere verso chi essere devoto e chi giudicasse degno del suo sacrificio: io avevo scelto Hermione. Avevo capito che per me lei era la regina nella partita e non poteva esserci nessuna relazione con un pedone: era un altro mondo, un’altra fila.
Decisi quindi di dichiarare la mia resa da re, cedere la mia corona e di restare al fianco della regina nelle vesti di un uomo del popolo, perché tra lo scegliere di ricomporre il mio esercito e farlo senza di lei poiché lei era il mio punto debole, la mia incognita, oppure di rinunciare ai miei privilegi e starle vicino, avevo scelto la seconda.
La mia resa fu ovviamente silenziosa ed interna, quindi i litigi con Hermione non erano per nulla terminati, anzi: per qualche strana ragione avevo deciso che nessuno fosse alla sua altezza e che quindi nessuno le si dovesse avvicinare, ma infondo Hermione continuava ancora a sorprendermi e c’erano volte in cui mi chiedevo se fosse realmente una regina o no; ero un pedone ma ero comunque il miglior giocatore di scacchi che avessi mai incontrato e se questo dilemma non lo potevo risolvere io nessuno ne era capace.
Poi qualcosa cambiò.
Hermione mutò schema nuovamente e sembrò desiderosa di scatenare il mio interesse, proprio come io facevo con lei. Forse non cambiò tattica ma rese solo più ovvio ciò che cercava di far capire da un po’, ma io ero sempre stato insicuro di me stesso e del suo ruolo, figuriamoci dei suoi sentimenti.
Lei però mi fece retrocedere alla sua fila e mi volle al suo fianco, come suo re. Tutto sembrava andare verso questa direzione ed anche Hogwarts ne era d’accordo quando intonava “...because Weasley is our king”. Un’altra regola degli scacchi è che non è mai detta l’ultima parola, soprattutto quando i giocatori sono capaci. Tutte le quasi certezze che avevo creduto di possedere, furono spazzate via, sempre da quel maledetto bulgaro.
Io ero in attesa.
In attesa che lei, l’unica di cui mi importasse, mi incoronasse suo re, perché lei era già la mia regina. Purtroppo quel posto era occupato: il cercatore bulgaro se l’era tenuto stretto. Scoprii che l’aveva baciato, e tutta quell’attesa mi sembrò stupida, debole da parte mia.
Mi sentii calpestato per l’ennesima volta e decisi che il pedone l’avevo fatto per un tempo sufficientemente lungo: ora era il tempo di essere re. Mi  ripresi il mio trono e di rinfoltii il mio esercito.
Avevo tutto, mi mancava una regina.
Per la prima volta in vita mia, ciò che desideravo mi si parò davanti senza che richiedesse tutto il mio impegno e le mie sofferenze: colsi l’occasione. Non stavo facendo un torto a nessuno, stavo solo prendendo in mano la situazione.
Eppure, quando vidi quello sguardo che voleva sembrare duro ma che conteneva tutte le sfaccettature del dolore, quando la vidi andarsene con quella sua camminata fiera e scatenare quei canarini su di me, mi sentii un traditore: le avevo giocato un tiro mancino perché, per quanto mi biasimassi sino all’inverosimile e mi costringessi a stare nel ruolo del pedone, sapevo bene di essere di più: forse non il re ma ero la sua torre, il suo rifugio sicuro, l’unico su cui potesse contare.
Mi sentii un vigliacco  e non le rivolsi la parola, più per vergogna che per altro, e cominciai a temere stessi per perdere un’altra partita: avevo innalzato a regina una persona che nella mia vita non aveva nemmeno preso posto, neanche come controfigura; nella mia scacchiera Lavanda non aveva la possibilità di essere un pezzo.
Poi, quando avevo trovato il coraggio di sventolare nuovamente bandiera bianca, Hermione ritorna in gioco: non mi ritiene un bravo giocatore, insomma, non mi considera il re! Era una delle mie condizioni: se fossi ritornato a giocare nella sua partita, nella nostra partita, non avrei avuto più un ruolo secondario, nemmeno la torre. Cambiai tattica anch’io e passai all’offensiva: Lavanda non poteva essere una regina ma nelle  mani di un bravo giocatore anche un pezzo debole poteva creare danni.
Solo che si crearono altri tipi di danni.
Fui avvelenato. Ne sarei morto se non fosse stato per  Harry.
Mentre sognavo di stare per fare scacco matto a Silente(era sempre stato uno dei miei desideri), sentii la voce di Hermione, piena di dolore e preoccupazione. Non importava quanto fosse distorta dall’angoscia perché non l’avevo sentita per settimane, forse mesi. Non stavo sognando più ma mi immaginai il suo volto in corrispondenza alla note dolenti nella sua voce e volevo tirarle su il morale, abbracciarla e dirle che non era successo nulla di grave, che sarei stato meglio. La chiamai, sentii il suo nome sfuggirmi dalle labbra ma doveva sapere, doveva capire.
Quando fui cosciente mi venne a trovare: fu una delle cose più intense che abbia mai vissuto.
Entrò, chiudendosi la porta alle spalle. Mi aspettai che mi venisse incontro di corsa e che mi abbracciasse(anche se era più un desiderio) ma non lo fece. Si fermò a pochi passi dal mio letto e mi guardò, no, mi indagò con quel suo sguardò magnetico e bellissimo. Io, dal mio canto, non mi feci sfuggire l’occasione di guardarla negli occhi con una buona scusa e così la scrutai a mia volta. Vidi tutto: la colpa, la vergona, la costernazione, la rabbia, la paura per la mia sorte ed infine la tenerezza. Non so lei cosa vide ma mi sembrò di rispondere con la stessa sequenza di emozioni. Poi si avvicinò di altri tre passi e disse una sola parola, sussurrando:
“Ron” e mi si avventò addosso.
Io la strinsi forte, estasiato dal suo profumo e da come suonava il mio nome attraverso le sue labbra, quasi come un soffio di vento. Poi si stese sul mio letto accanto a me, toccandomi le dita con le sue e volendo farlo sembrare casuale, e chiuse gli occhi. La imitai e mi godetti quel momento appieno: niente più giochi. Quando si rese conto che l’orario delle visite era terminato sia alzò con un sospiro insoddisfatto dal letto e mi disse che, se avessi voluto, sarebbe ripassata l’indomani, però mi avrebbe portato i compiti.  Le sorrisi e le dissi di sì. Lei annuì convinta, si chinò per baciarmi sulla guancia e se ne andò.
Dopo le cose migliorarono tra noi, ma tutto intorno stava andando allo sfascio: avevamo scelto il peggior momento per finirla con i trucchi e mettere in chiaro le cose. Silente era morto ed Harry doveva portare avanti una missione a dir poco suicida, ma noi eravamo  suoi amici: prima di tutto giocavamo la partita della vita e poi quella nostra, privata. Decidemmo, di comune accordo ma senza mai parlarne, che non era ancora il tempo di pensare a noi perché Harry si sarebbe sentito tagliato fuori e perché avremmo avuto troppo da perdere se fossimo andati oltre quando non eravamo sicuri che avremmo goduto della nostra compagnia tra qualche mese. E poi io non volevo che fosse un addio, non l’avrei mai permesso.
Vivevamo alla macchia, in una tenda e mangiando la prima cosa commestibile che ci ritrovavamo tra le mani; io non ce la facevo più. Potevo fingere per un po’ di essere coraggioso, ma poi, il Ron Weasley sull’ Hogwarts Express con lo sporco sul naso reclamava la parte di spensieratezza che non aveva mai avuto perché l’aveva sacrificata di sua spontanea volontà per un amico; me ne andai, lasciandoti a piangere nella pioggia.
E volevo tornare, credimi, ma non potei perché fui catturato.
Poi, la mattina di Natale, una luce mi ha guidato da te, mi ha riportato a casa.
Non ti avevo mai vista tanto arrabbiata come allora, ma credo che occupassi nel tuo cuore un posto più speciale persino del re, perché sapevo che mi avevi perdonato già da quando mi avevi visto riapparire sulla soglia della tenda.
Fummo catturati e portati a villa Malfoy. Col senno di poi, posso dire che, nonostante abbia visto davanti ai miei occhi la morte di Fred, quelli sono davvero stati i minuti peggiori della mia vita. Pregai che torturassero me ma non vollero. Ogni tuo grido era come una pugnalata e non riuscivo a pensare a niente di lucido se non te e il male che ti stavano facendo. In risposta urlavo il tuo nome, forse per farti capire che c’ero anch’io lì e che non potevi lasciarmi solo, dovevi resistere. Quando Bellatrix voleva darti in pasto a Greyback il mio istinto agì per me e disarmai una delle streghe più potenti del mondo magico.
Ti sorressi e ti portai in salvo, a villa Conchiglia.
Aspettai ai piedi del tuo letto, come sapevo che tu avevi fatto con me, e, di tanto in tanto, mi chinavo vicino al tuo orecchio per sussurrarti parole rassicuranti. Dopo che ti riprendesti, decisi che non potevo più lasciare che ti accadesse qualcosa, altrimenti ne sarei morto io per primo.
Sono riuscito a mantenere la mia promessa.
Io l’avevo detto che non ero riuscito a capire che pezzo eri perché non ero capace di prevedere le tue mosse, ed infatti mi sorprendesti di nuovo. Dopo aver pensato di fare la cosa giusta e proposto di salvare gli elfi di Hogwarts mentre imperversava la Grande Battaglia, ti precipitasti tra le mie braccia e mi baciasti. Oh, Merlino solo sa come mi sono sentito. Però, in un modo o nell’altro, sapevo di aver vinto.
Scacco matto.
Alla fine, abbiamo dovuto ricostruire il castello, rattoppare quei brandelli di cuore che erano rimasti e che piangevano la perdita dei cari e trovare il coraggio di guardare al futuro come un qualcosa di raggiungibile e alla portata di tutti ormai.
Non c’erano dubbi su chi scelsi per mettere la prima (e spero l’ultima) pietra dentro di me per edificare una casa, una nuova casa, che avrebbe accolto l’uomo che ero ormai diventato. Tu volevi lo stesso e per questo piansi. Non lo so perché, forse per la morte di Fred, ma quando mi dicesti di sì piansi, come un bambino.
In questo momento invece, a circa un anno dalla Grande Guerra, sono qui, a lavorare nel negozio di mio fratello mentre cerco di trovare il modo per non pensarti, quando ho appena speso mezz’ora ricapitolando l’intera storia della nostra vita.
La prima volta che ci sedemmo su quello che è il nostro letto, ci stendemmo l’uno accanto all’altra e ti chiesi perché ti fossi rifiutata di farmi re.
Tu mi chiedesti che cosa intendevo ed io ti spiegai che, nella grande scacchiera della mia esistenza, tu eri la mia regina ed io ero il pedone, nella speranza che un giorno ti accorgessi di me e mi incoronassi tuo re. Ma poi, quando io ero convinto che stavi per farlo, ero venuto a saper di Krum e mi sentii tradito, e pensai che non sarei mai potuto essere il tuo re perché non sarei mai stato abbastanza.
Quando ebbi finito, tu ti girasti verso di me, poggiandoti su un gomito, e mi dicesti che era vero che non avevi voluto incoronarmi re e che non lo sarei mai stato.
Prima che io potessi controbattere ma facendo passare abbastanza tempo da farmi venire la nausea, tu rispondesti che io non ero il tuo re ma il tuo cavaliere:
“il re è vigliacco perché manda i suoi soldati a combattere le proprie guerre, mentre il cavaliere pone prima quello che è giusto, quello in cui crede e per cui è disposto a morire, e poi la sua vita. E chi altri potevi mai essere? Non sei stato tu ad undici anni a condurre dei pezzi giganti prendendo il posto di un cavallo, vincendo la partita di scacchi migliore che si fosse mai vista ad Hogwarts e sacrificandoti per i tuoi amici e per trovare la Pietra Filosofale?!”.
Ti baciai. Solo tu hai il potere di rendermi orgoglioso di me stesso.
Solo che abbiamo scelto strade diverse: adesso tu sei di nuovo ad Hogwarts per completare l’ultimo anno mentre io sto aiutando mio fratello nel negozio, un po’ per bisogno, ma maggiormente per mostrargli il modo per tirare avanti. Sono anche impegnato nel mio corso per diventare un Auror ma perlopiù ti penso.
Mi manca il fatto di non poter essere tutti e tre insieme, l’invincibile trio, a fare ricerche in biblioteca sugli argomenti più oscuri quando dovremmo solo andare a dormire nei nostri dormitori, a giocare le nostre partite di Quiddich mentre tu ci guardi e tifi per me( va bene, anche un po’ per Harry!), a  lamentarci sui compiti da fare e a pregarti di farceli copiare.
Ma soprattutto, mi manca non poter saper come sarebbe stato averti ad Hogwarts; sì, lo so, è infantile come pensiero, ma non sarei Ron se non ne facessi di tanto in tanto.
Io sono qui e tu lo sai, ad aspettarti appena avrai preso i tuoi M.A.G.O e a dirti quanto sono fiero di te.
Ci sarò anche alla stazione di King’s Cross quando tornerai per restare.
Ah, lì ti chiederò di sposarmi ma tu questo ancora non lo sai.
Io sono qui, nonostante abbia lottato per averti, per averci. Ti aspetto perché è questo quello che tu mi hai chiesto e perché non è più tempo di giocare, di pensare strategie. Adesso è venuto il momento di fare progetti e di cominciare a vivere.
Comunque sia, non dimenticherò mai il modo in cui Ronald Weasley è stato battuto, per due volte, a scacchi e di come sia riuscito, in entrambi i casi, ad uscirne vincitore. Forse perché quando giochi con qualcuno che è destinato a stare al tuo fianco invece che di fronte a te non perdi mai veramente: puoi solo pensare a come sia dolce condividere con lui il sapore della vittoria.
E sarò per sempre il tuo cavaliere perché, se c’è una cosa che rende orgoglioso l’animo di un guerriero, sono gli onori con cui viene premiato: io sto per chiederti quello di essere partecipe in ogni istante della tua vita, anche quando le cose si metteranno male.
In cambio, ti prometterò la mia più totale devozione e di combattere sempre per te, anche  e soprattutto quando tutti gli altri avranno perso la speranza.
L’avevo detto io che è il cavallo con il suo cavaliere a decidere della partita, e sono dannatamente sicuro che vinceremo anche questa perché stavolta non ci saranno tattiche che ideeremo per cercare di prevalere sull’altro: non siamo più l’uno di fronte all’altra ma ci teniamo per mano; e siamo stati abbastanza saggi da capire che per essere felici e per uscirne vittoriosi realmente bisognava deporre le armi e alzare quella famosa, e per due persone orgogliose come noi scomoda, bandiera bianca.
Scacco matto.
  
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