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Autore: Malvagiuo    19/07/2011    1 recensioni
Riprendo un fanfiction scritta da Clive Danbrough, di cui - diciamo - mi ha ceduto tutti i diritti.
Questa è la storia di Altair prima dell'inizio del videogioco. Il suo passato, la sua vita prima di diventare l'eroe della leggenda.
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il crepuscolo incombeva.
La maggior parte degli Assassini non avrebbe osato inoltrarsi oltre i confini della fortezza dopo il calar del sole, in spregio alle regole. Ma Altaïr, come sempre, costituiva un’eccezione. La protezione di cui godeva gli consentiva di trasgredire a queste e a molte altre norme della setta, tanto che nessuno oramai si stupiva nel vederlo infrangere i dettami del maestro.
Egli non era immune solo ai colpi e alle maledizioni dei nemici, ma anche a tutto quanto provenisse dalla bocca di un uomo. Eccetto uno.
Serse lo attendeva nella scuderia appena al di fuori del recinto che delimitava il confine del villaggio. Un magnifico stallone nero, dono del maestro. Un animale stupendo, probabilmente il più bello che chiunque vivesse in quella regione avesse mai visto. Altaïr accarezzò il dorso della bestia, massaggiandone i potenti muscoli fino a raggiungere il collo. Era l’unica creatura verso cui riservasse un tocco tanto delicato.
Dopo avergli messo i finimenti e posto una sella sopra la groppa, lo montò e senza indugi si lanciò al galoppo verso l’orizzonte. Il fracasso degli zoccoli sulla terra battuta echeggiò per diversi minuti lungo il passaggio che scortava al cancello di Masyaf, dopodiché piombò il silenzio.
 
Da dieci anni Ayman non risiedeva nei territori protetti dagli Assassini. Benché avesse cessato di svolgere incarichi da molto più tempo, era rimasto alla fortezza per diversi anni in funzione di consigliere, poiché la sua esperienza e competenza erano un prezioso scrigno da cui attingere. In molti si erano rammaricati per la sua partenza, e ancor più oggi lo rimpiangevano, a causa dei tempi cupi che affliggevano la loro terra.
Ciononostante, non tutti si erano rattristati al suo allontanamento.
Uno di questi era proprio Altaïr.
Nessuno, tuttavia, era a conoscenza dei veri sentimenti del Priore verso il padre adottivo. Solo Al Mualim, cui era pressoché impossibile nascondere qualcosa, sospettava la vera natura del giovane. Ma questi era uno strumento troppo prezioso per rinunciarvi in virtù di una simile ragione, per quanto grave potesse apparire.
Altaïr non disprezzava suo padre. Al contrario. Lo temeva.
Era l’unico uomo al mondo verso cui nutrisse un timore reverenziale, e non lo sopportava. Nel suo infaticabile impegno a evitare di provare paura verso chiunque – impegno che gli avrebbe, in pratica, permesso di diventare invincibile –, in lui si incendiava l’odio ogniqualvolta veniva paragonato al padre, o il cui nome veniva menzionato in sua presenza, poiché tale atto scatenava un’irrazionale e inspiegabile paura, per quanto controllata.
Nessuno dei confratelli aveva mai anche solo immaginato una simile realtà nei rapporti tra padre e figlio.
 
Quando Altaïr raggiunse la casa di suo padre, era già notte inoltrata.
Non c’era luce, il buio regnava sovrano, ma il Priore non ebbe difficoltà a individuare la fenditura nella roccia oltre la quale si celava la dimora di Ayman. Era stretta, ma riluceva di un’oscurità assai più densa di quella della notte. Serse era perfettamente mimetizzato nella tenebra opprimente, e ne legò le redini presso i rami di un vicino albero di ulivo. Procedendo rapido e silenzioso, con incedere deciso, Altaïr raggiunse l’entrata della spelonca. In altre occasioni sarebbe stato ben più guardingo, ma sapeva che in quel momento non correva alcun pericolo. Un servitore della confraternita partiva ogni giorno da Masyaf per portare cibo e acqua a suo padre, che nemmeno nella malattia aveva voluto tornare al villaggio per potersi concedere una morte più confortevole.
Quando fu strisciato oltre la galleria, sapeva che Ayman aveva percepito la sua presenza già da un pezzo.
Ecco difatti suo padre, pallido ed emaciato, disteso su uno scomodo pagliericcio infestato da pidocchi, alla luce di un debole fuocherello. L’illuminazione era minima, ma non ebbe bisogno del bagliore baluginante delle fiamme per comprendere che suo padre era oramai davvero prossimo a imboccare l’ultimo sentiero.
«Figlio...» mormorò Ayman.
«Padre...» rispose Altaïr, cercando di dissimulare la sua consueta freddezza.
«Siediti accanto a me... stiamo per parlarci per l’ultima volta, e non voglio che dimentichi le mie parole...» boccheggiò Ayman.
Altaïr si inginocchiò accanto al padre, che respirava a fatica.
«Tu mi odi, figlio?»
Era evidente che l’Assassino non si aspettava fin da subito quella domanda. O almeno, non esposta in modo così diretto.
«È la stanchezza che vi fa parlare, padre».
«Sto morendo, ma mi rendo perfettamente conto. È sempre stato così. Mi hai temuto, ma non come un figlio teme il genitore. Ti spaventavano le mie abilità, non è così?»
Altaïr non rispose.
«Già, la vedo ancora adesso nei tuoi occhi. Paura. Hai visto cosa sapevo fare e temevi che un giorno adoperassi le mie arti contro di te. Povero ragazzo...»
Ayman tossì.
«Ma puoi gioire della mia morte. Ti giuro sulla mia lama che non ti ho celato nulla di quanto sapevo. Ti ho insegnato tutto, non porterò niente nella tomba eccetto i miei resti. Tu sei la mia eredità alla confraternita. Ogni mio segreto vive in te».
Altaïr soppesò il significato di quelle parole. Un brivido di eccitazione si propagò dalla schiena, pervadendogli i muscoli sino alla nuca.
«Non ti ho chiamato per questo, tuttavia. Prima che scompaia, devo avvertirti. Ci sono cose misteriose all’opera, dentro Masyaf».
«Che intendete dire?»
«Qualcosa è cambiato. Temo… io temo che la confraternita sia stata corrotta».
«Spiegatevi».
«In verità, ho molto poco da spiegare. Non ho scoperto granché. Sappi, figliolo, che non ho abbandonato Masyaf di mia iniziativa. Sono stato obbligato a fuggire».
«Chi può avervi costretto a fare qualcosa contro la vostra volontà?»
«Nessuno che non potessi fronteggiare... se non avessi fatto un voto. Purtroppo, anni fa ho giurato che mai più avrei impugnato la lama contro un uomo. Non mi pento della mia scelta, ma riconosco che in tale occasione mi si è ritorta contro. Se fossi rimasto, sarei stato costretto a versare sangue. E io non volevo farlo».
Una pausa permise ad Ayman di riprendere fiato.
«Non ho mai scoperto né un nome, né un piano. Ma so che qualcosa era all’opera. Io so... so che cercavano... un Frutto... dell’Eden».
 
Altaïr cominciò a convincersi che il delirio aveva preso pieno possesso della mente del padre. Da quel momento, prestò scarsa attenzione alle ultime parole sussurrate. Ayman continuò a bofonchiare qualcosa circa un misterioso oggetto, di cui aveva sentito sussurrare, e che nel corso dei mesi aveva interamente catturato l’attenzione di uomini interni alla setta, facendo loro tralasciare la missione suprema originale.
L’Assassino sapeva riconoscere un vecchio che delirava, e non ebbe difficoltà a riconoscere in questi suo padre. Guardò con compassione l’uomo, ormai senza più paura. Era finita. Il grande Ayman, il Lupo delle Sabbie, era morto tanti anni prima, e quest’omuncolo che mormorava frasi insensate era la sua carcassa in decomposizione. Entro quella notte avrebbe cessato di esistere l’unico Assassino al mondo di cui avesse mai temuto la rappresaglia.
   
 
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