Capitolo
24
Lacrime e
fumo
Ricordo la prima
volta che ho visto Andrea piangere. Che ho visto incrinarsi quel ghignetto
sfrontato compreso nel pacchetto base.
Neri era appena
stato sollevato dall’incarico, le nubi cominciavano a addensarsi. E tutte le
strade portavano ufficialmente a lui:
era iniziata la parabola discendente. Sintomo inequivocabile, la gragnola di
critiche al vetriolo che, durante le prove di quel pomeriggio, gli era piovuta
addosso per bocca della Longoni.
Era piombato in
aula trafelato e fuori tempo massimo, più simile che mai a uno straccio – credo
che lui e il professore si fossero appena mollati, giorno più giorno
meno.
Da quel momento
per Andrea era stato un continuo incartarsi su stupidaggini, dimenticare le
battute, sbagliare gli accenti; l’arpia aveva fiutato il fatto che fosse nel
pallone e l’aveva letteralmente demolito. Era finita a urla belluine da un capo
all’altro della sala, con canonica uscita di scena a porte sbattute da parte di
lui. Le rispostine per le rime e il furioso abbandono di campo presto avevano
ceduto il passo al gelo dell’autocommiserazione.
Non c’ero stato
per lui, quella volta. C’era stata Isa, ad asciugargli le lacrime, a
sussurrargli all’orecchio: ho ancora un ricordo abbastanza netto dei commenti a
caldo sibilati alle mie spalle, nell’attimo in cui gli sono passato a fianco –
percorso obbligato –, degnandoli di un’occhiata di sguincio e allontanandomi più
in fretta che potevo. Perché ci voleva un capro
espiatorio.
Guardalo, è
felice… Che bastardo! Ride perché sei in difficoltà, è tutto ciò che vuole. Si
starà dicendo, ma è questa la merdina che mi ha fottuto il
posto?
E tu non dargli
soddisfazione, Andre!
Non era vero, ma
il mostro dalle cento bocche aveva parlato, e quella era la versione ufficiale.
Che senso avrebbe avuto andare da lui più tardi, quando avesse sbollito, e
puntualizzare che non gongolavo affatto per le sue sfighe – in verità non
m’importava proprio nulla –, che non era stato per nulla divertente; e che
marciare sul cadavere ancora caldo, da parte della Longoni, era un comportamento
putrido a prescindere…? Che d’altronde l’avevano capito pure i sassi:
Era una manovra
da scartare a priori, perché alla prima sillaba, Andrea mi sarebbe saltato alla
gola snudando gli artigli. Mi avrebbe urlato addosso. Che della mia pietà, delle
mie parole, da me, che – secondo lui e secondo Isa e secondo il mondo intero –
avevo tutto l’interesse di questo mondo a volerlo nella merda, non sapeva che
farsene.
Contento,
rosicone?
La verità è che
le lacrime di Andrea e i suoi occhi gonfi non mi avevano fatto né freddo né
caldo. Non avrei fatto una piega neppure se si fosse buttato ai miei piedi,
dichiarandomi amore eterno: lui non ci aveva mai pensato due volte, a guardarmi
dall’alto in basso e a infierire, e il fatto che non mi avesse mai visto
piangere o dare in escandescenze sotto la sferza delle loro maldicenze, sotto il
suo sguardo indolente, non significava che non ci fossi stato male. Che i suoi
occhietti sprezzanti su di me non fossero coltellate.
Era piuttosto
ristabilire un equilibrio: perché sai, carino, avete dato il tormento a tutti,
tu e la tua spocchia schifosa; adesso che ti sei impippato nei tuoi stessi
casini e ci sei caduto in mezzo, zitto e sopporta come fanno
tutti.
E poi Neri doveva
pagare. A prescindere, con o senza Nicoletti tra i piedi.
Del desiderio di
stare al posto di Isa e stringermelo al petto, se avevo potuto farne a meno fino
ad allora, ne avrei fatto a meno anche in futuro. Mandare a puttane Neri e i bei
progetti per il suo favorito era stata una conquista troppo amara, tutt’altro
che gratificante, e del resto non si può avere tutto dalla vita. Nemmeno quelle
lacrime: avrei continuato a tenermi le mie, con buona pace di
tutti.
È strano
osservarlo adesso, bersi in silenzio quel singhiozzare continuo nel buio. Perché
che crollasse di nuovo, stavolta era quasi una certezza – qualunque cosa sia
successa dopo, dopo che si è eclissato con
È strano e
destabilizzante, come una colata di gelo dentro le ossa. Soprattutto quando, per
la seconda volta, ti sei introdotto in camera sua senza preavviso e con una
scusa che non vale la candela. Vorresti toglierti d’impiccio, ma nel contempo
friggi nel desiderio inespresso di scoprire quale altro ingegnoso sistema abbia
architettato stavolta per farsi del male.
- Andre, scusa,
non volevo spaventarti. Ho dimenticato l’orologio, l’altra
sera…
Quando c’è
mancato poco che finissimo a letto.
Cioè,
tecnicamente ci siamo finiti. Solo
che non abbiamo proseguito oltre.
Andrea non
risponde. Sprofonda con la faccia sul cuscino, quasi volesse collassare sotto il
peso del suo corpo inerme.
- Andre, cos’è
successo?
La domanda
giusta: cos’altro è successo? Perché
sedermi sul bordo del letto e sfiorargli la schiena, è la vera prova del fuoco.
Potrebbe tagliar corto intimandomi di farmi i cazzi miei.
Invece, a
sorpresa, eccolo sorgere come la luna dal groviglio delle lenzuola, il cuscino
ridotto in condizioni pietose stretto tra le mani. Tirarsi su con l’entusiasmo
di uno zombie e strisciare verso di me fino a fare della mia spalla il suo muro
del pianto.
- Gabriiii… –
esala, la voce di chi riemerge dalla tomba.
Calma,
Gabriele. Scrollartelo
subito via, non è la mossa giusta. Neppure abbracciarlo, perché potrebbe
spezzarsi.
Mi chiedo se in
un’altra occasione mi avrebbe mandato affanculo senza farmi passare dal via. Se
mi avrebbe fissato con un sorriso da folle e gli occhi grondanti di collera, e
chiesto se finalmente ero soddisfatto.
Stavolta è
bandiera bianca, niente di più. Lo capisco dal fatto che non oppone resistenza,
quando lo allontano quel tanto che basta per osservarlo.
La luce rovente
del tramonto disegna strane ombre sul suo viso; per un attimo potrei
riconoscerlo solo dal tumulto dei suoi capelli, il volto disfatto, gli occhi
iniettati di sangue. Come una foto sfocata in cui a stento riesci a riconoscerti
in una macchia sbiadita.
- Tieni,
asciugati un po’ – riesco a mormorargli, tra un suo singhiozzo e l’altro e i miei tentativi di non farmi inzuppare la
maglietta.
La fortuna
insospettata di ritrovarsi un pacchetto di salviettine umidificate dentro la
borsa, improvvisato kit di pronto soccorso per crisi isteriche
assortite.
In silenzio,
solleva la bottiglietta dell’acqua per servirsi di una lunga sorsata, e gli
ultimi singulti di pianto svaniscono in un sospiro profondo, il braccio tremante
e il respiro ridotto a un rantolo.
È a questo punto,
di solito, che urge la terapia d’urto.
- Si può sapere
che diavolo fai? – è la sua prima frase di senso compiuto, la voce roca di
pianto, in dieci minuti abbondanti di non-conversazione.
- Non si vede? –
sollevo gli occhi su di lui, mentre lecco sulla cartina per chiudere la
sigaretta artigianale girata a tempo di record.
Il fumo mi brucia
leggermente la gola, quando tiro per accendere, ma la miscela è quasi perfetta.
Aspiro una seconda boccata e poi una terza, prima di piazzargli senza preavviso
il minuscolo involucro fra le labbra.
- Ehi, sei
matto?! – Andrea si ritrae di scatto; afferra la sigaretta tra indice e medio,
curandosi di tenerla a distanza di sicurezza, e la esamina con occhio critico –
Vorrei sapere cosa ci hai messo dentro. Anzi, no, lo pretendo proprio.
Sollevo gli occhi
al cielo. E lui, di rimando, sgrana gli occhi come a ribadire
l’ovvio.
- La camomilla.
Su, da bravo. Aspira.
Mi fissa con
diffidenza. Almeno sembra convinto. Si porta la sigaretta alla bocca e arriccia
il naso.
- Ma è
Maria…
Sorrido,
sforzandomi di modellare la frase in una composizione che non suoni
sarcastica.
- Certo che lo è.
Così ti rilassi per bene, e poi magari possiamo parlare.
- No, per carità!
– ridacchia.
Tira un altro
paio di boccate, prima di alzarsi di scatto e andarla a spegnere nel
lavandino.
- No, davvero,
questo è-fuori-questione! – sbatte le palpebre, isterico, e se non altro i suoi
occhi sembrano migliorati, visto che riesce a tenerli aperti – Ti ringrazio
dell’aiuto, eh, ma non ho intenzione di passare alle
canne.
Devo sforzarmi di
non ridergli in faccia. Perché a volte è così candido che non sai dire se
davvero ci sia o ci faccia. Ti dà l’idea di uno ancora pulito, poi sul più bello
sa sconvolgerti con la furbata del secolo.
- Lascia stare,
Andre. Normalmente non ti avrei mai fatto certo una proposta simile. Vedila come
un’emergenza, un’ultima spiaggia. Eri sconvolto.
Posso pure
scommetterci, che se tante volte ha fatto effetto su di me, su di lui e sulla
depressione di una sera può fare miracoli.
- Sarà… – Andrea
fissa il pavimento – Che genere di proposta mi avresti fatto, normalmente?
Eccolo
là.
- Qualcosa… come
questo? – riattacca, e credo di essere proprio io quello che ha sottovalutato
l’intera questione, perché in capo a un secondo lui è qui, cavalcioni su di me,
le sue labbra aperte sulle mie. Che sfregano dolcemente, e
bruciano.
La bella notizia
è che stavolta non dovrò tentarmi giravolte spaziali per uscire dal vicolo cieco
secondo cui io avrei manifestato
l’intenzione di baciarlo – o tradotto direttamente nella pratica –, perché ha
fatto tutto da solo.
- Dio,
Gabri…
- Allora – gli
sussurro, appena riesco a staccarmi da lui e dallo schiocco umido delle sue
labbra – Mi spieghi un po’ cos’è successo?
Dal settimo cielo
direttamente a terra, o all’anticamera dell’inferno.
Andrea non
risponde subito. China lo sguardo, a disagio, e d’un tratto mi sembra quasi
minuscolo nella felpa troppo grande che gli disegna le spalle, al centro di una
stanza troppo vuota e troppo ampia. La sua voce un biascicare veloce e appena
percettibile.
- Non è vero
nulla – butta fuori, come il fumo che tra un po’ gli salirà alla testa - se gli
effetti non sono già in corso d’opera.
La sua dannata
mania di snocciolare i concetti per frasi ermetiche.
- Cosa non è
vero, Andre? – a volte si fa davvero una fatica terribile, a estrapolargli le
parole di bocca e beccarsi solo risposte sibilline; ma forse stavolta cerca di
guadagnare tempo.
- Quello che hai
visto stamattina – risponde, e ho l’impressione che tra poco la sua faccia
toccherà il pavimento, visto che ce la mette tutta per schivare sguardi
indiscreti.
Anche se è solo
il mio, e lui ancora non sa che sono l’ultima persona al mondo a poter fargli la
morale.
Si stringe nelle
spalle, utopico tentativo di mimetizzarsi con l’arredamento – ma le guance in
fiamme lo tradiscono. È come se un nodo dalle dimensioni di questa stanza gli
impedisse di strapparsi di dosso il resto della storia.
Respira.
Deglutisce, tira su col naso, qualche lacrima imprigionata tra le
ciglia.
- Riccardi non mi
ha picchiato – sussulta – Cioè… Lui voleva darmi un pugno, figurati: se
potesse mi sparerebbe in fronte. Però mi ha mancato… Ed io ho finto che il colpo fosse andato a segno
– solleva gli occhi al cielo; si guarda intorno, come in un accesso
claustrofobico, come in attesa di un motivo che lo invogli a proseguire – Era
quello che volevo. Avevo previsto tutto. E quando Riccardi dice che gli ho
toccato il culo, probabilmente dice l’unica cosa vera in tutta la sua vita.
Volevo provocarlo finché non facesse qualche cazzata… – sospira, mentre
intreccia nervosamente le dita – Tutto qui.
Spalanca gli
occhi, in attesa. Spera che gli dia dello stronzo e gli ripulisca la coscienza
al posto suo.
Cosa vuoi che ti
dica, Andrea? Esiste qualcosa che potrebbe farti sentire meno sporco? Te lo sei
tenuto dentro tutte queste ore, come un masso sul cuore. Ci hai messo tutti i
tuoi residui di coscienza, e forse non hai neanche ottenuto ciò che volevi.
Forse il male che ti sei fatto non valeva il prezzo dell’intero gioco. La pelle
che ti sei strappato di dosso con la forza delle unghie. Il rispetto di te
stesso. Ci hai guadagnato l’ennesimo sputo in faccia e il gusto sadico di una
vendetta senza sbocco. È questo?
E adesso
preferiresti che ti guardassi in faccia e storcessi il naso. O che ti perdonassi
al posto tuo, ti allisciassi la testa. La verità è che non posso fare nessuna
delle due cose, e se ti perdono o ti condanno, sarei poi costretto a perdonare o
condannare me. Perché ci ho speso troppo di mio, anche se non lo dirò mai, e il
peggio è che c’è ancora una cosa che devo fare.
Una parte di me
vorrebbe davvero guardarti negli occhi e gridarti che-cazzo-hai-fatto. Se
davvero tutto meriti di inquinarsi così, di tingersi di odio, e che tu ci perda
la testa.
L’altra parte di
me è cristallizzata in una morsa che mi lascia appena respirare. So di dover
trovare al più presto una risposta, una giustificazione. Giustificare te per
giustificare me. Se ho accettato di fare quel che ho fatto, in silenzio – resta
solo l’atto finale –, il primo passo sarà discolpare te. Anche se nulla mi dà il
diritto di decidere, di rimangiarmi ogni discorso ragionevole e offrirti una
rassicurazione che vale meno di zero.
Hai sbagliato
indirizzo, Andrea: non sono migliore di te. E nel momento in cui mi sono calato
a testa bassa nel mio inferno, sono costretto a chiudere un occhio – o chiuderli
direttamente tutti e due – per tutto ciò che verrà
dopo.
Pensi di aver
fatto male, Andrea? Sei tenero. Io ho fatto peggio e non sento il bisogno di
rimettermi alla clemenza di nessuno.
Guardami, Andrea:
sono molto peggio di te. Mi sono arrogato il diritto di fare giustizia, di
stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato, ed io sono nel giusto. Cosa puoi
fartene dell’assoluzione di chi sta per affondare il
coltello?
Tutto ciò che
posso fare è sfuggire il suo sguardo come se la risposta fosse
scontata.
- Credi che non
me ne sia accorto che fingevi? – sorrido – Ti hanno mai detto che sei bravo, ma
un tantino melodrammatico?
Andrea si osserva
intorno. Sembra sotto shock.
- Dopo questa,
sinceramente pensavo ti avrei fatto più schifo di prima – tira su col
naso.
Qualcosa mi dice
che la sua voglia di piangere non è svanita del tutto.
- Vorrei solo
capire cosa ci trovi in tutto questo, Andre. Se davvero volessi startene al
centro dell’attenzione e dire a tutti che Riccardi è brutto e
cattivo.
Andrea scuote il
capo. No, negazione.
- Ho parlato col
direttore – solleva gli occhi al cielo – Naturalmente non mi ha creduto e mi ha
dato del piantagrane. Sai qual è la novità? Che le parole “violenza omofobica”
dicono meno di zero: per quel che gliene importa, possiamo anche ammazzarci,
basta che lui non veda e non senta. Non sia mai dovesse metterci la faccia!
Capisci perché tutto questo mi manda fuori di testa? Mi sono comportato come una
merda per guadagnarmi la sua indifferenza! È già tanto che non abbia sbroccato,
quando gli ho fatto capire che mi piacciono gli uomini. Per un attimo ho temuto
che mi cacciasse solo per questo.
- Andre, scusa,
ma esageri – sospiro: forse servirà a chiarirmi le idee, perché il concetto di
“esagerazione” sembrava incluso nel prezzo – Elena non ha tutti i torti, quando
dice che ne fai una malattia. Vedi razzismi e pregiudizi
ovunque.
Andrea si torce
le dita, nervoso.
- Ti dico solo
due parole: Federico Riccardi. Il concetto di omofobia è incluso nel pacco-base.
È chiaro? – rilancia.
- E tu fai conto
che un insulto suo vale zero.
Andrea incrocia
le braccia sul petto, spazientito.
- Ma chi se l’è
mai filato? È venuto lui, a dirmi che i froci come me gli fanno schifo.
Sottinteso, che questo gli dà diritto di tormentarmi come e quando vuole, e si
sente anche figo.
Silenzio. La
verità è che vorrei fosse tutta una sua dannata ossessione. Lo vorrei
disperatamente.
- E lui che fine
ha fatto?
- Boh! – Andrea
si stringe nelle spalle – Non lo so e non voglio saperlo. Per costringere il
direttore a scendere dal pero, ho dovuto minacciarlo che avrei denunciato e
sputtanato tutto, compresa la sua ignavia – per un attimo i suoi occhi sono
tutto un luccichio soddisfatto, vagamente diabolico; o forse è solo quel paio di
boccate di sigaretta “diversamente corretta” che inizia a fare il suo effetto –
Comunque, se tutto va bene, Riccardi se ne andrà affanculo. Sai che succede
domani? – sorride – Il direttore lo chiamerà nel suo studio, gli farà il
predicozzo e gli alliscerà la testa. Magari lo spedisce a casa per qualche
giorno. Poi, al prossimo Direttivo, stenderà un punticino microscopico
all’ordine del giorno come “spiacevoli episodi di ordinaria omofobia”. Farà il
finto drittone e si piglierà anche qualche merito.
E sbuffa, come se
qualcosa nella composizione dell’aria o nell’arredo lo infastidisse
profondamente.
- Vorresti
prendertelo tu, il merito?
Pungolarlo per
scucirgli qualche rivelazione, non è sempre una cattiva idea; lo è quando si
rischia di uscire dai margini.
- Merito di cosa?
– quasi trasale, Andrea – Te l’ho detto: mi sento una merda. Non… – tentenna –
Non credevo si stesse così da schifo.
Non sai quanto,
Andrea; non sai quanto.
- Non dirmi che
mo’ ti senti in colpa per Riccardi…? – tiepido tentativo di sguazzare ancora nel
torbido.
- Per Riccardi? –
Andrea arriccia il naso – Facciamo finta che non esista? Chiamiamolo “X”.
Secondo te, è giusto incastrare qualcuno forzando una situazione, chiunque sia…?
È giusto che paghi per l’unica cosa che non ha fatto?
- Senti, Andrea,
l’ho visto anch’io, l’hanno visto tutti: che non ti abbia colpito è un caso, è
che ti sei scansato in tempo. Ti avrebbe rotto la faccia.
Di questo ne vado
certo, perché è accaduto sotto i miei occhi. Ricordo pure lo schiocco di quelle
dita che lo frustavano appena.
- Cosa cambia,
Andre? – proseguo – Diciamo che hai solo … omesso il particolare di aver avuto
ottimi riflessi.
Andrea scuote la
testa.
- Ma l’ho
provocato: gli ho dato una manata sul culo, volevo che mi picchiasse. Se poi mi sono
evitato un cazzotto in faccia, meglio per me – e prorompe in una risatina amara,
come se ci fosse un risvolto divertente – Non è difficile fargli perdere il
controllo: sono il suo incubo.
Sollevo gli occhi
al cielo. È così carino che ad associarlo a un incubo ci vuole davvero una fantasia
malata. Tranne quando si rivela il bastardo masochista che
è.
- Questa è già un
po’ più grave… Soprattutto perché le potevi buscare.
- Pensi anche tu
che Riccardi meriti il dispetto per il fatto di essere uno
stronzo?
Pensi anche tu di
poterti ergere a giustiziere del cazzo, Andrea?
- Penso che la
tua, in un certo senso, sia legittima difesa – e il semplice deglutire,
stavolta, mi sembra più complicato del previsto.
- E ancora non
hai sentito il pezzo clou… – ammicca.
- Che
sarebbe?
- Oltre ai suoi
insulti veteronazisti, di cui avrai esperienza… L’altra sera ha cercato di
rubarmi lo spray per l’asma. Ecco, l’ho detto. Tanto, se morivo strozzato, a lui
non sarebbe fregato nulla, mi pare logico! Tanto valeva allungare le zampe… –
conclude, un mugolio risentito.
- Figlio di
puttana…
Segue una pausa
imbarazzata che nessuno si preoccupa di riempire. Andrea scuote le spalle,
interrogativo. Ammicca a tre centimetri dalla mia faccia, come in attesa di una
sentenza definitiva.
- Beh, è tutto
qua ciò che sai dire, Gabri?
- Che ti
aspettavi, la fustigazione?
Ed è il suo
turno, adesso, di fuggire lo sguardo e perdere un po’ di
tempo.
- Non capisco.
Dimmi almeno che sono il solito coglione, che non mi sopporti più. Dai, me lo
devi – spalanca le palpebre, confuso; poi mi agita la mano davanti agli occhi
come per accertarsi che non sia morto o del tutto rimbecillito – Mi aspettavo
una reazione più consistente, ecco. O qualche idea carina sul da
farsi.
- Sei fuori
strada – gli sorrido, e devo quasi farmi violenza per costringere i muscoli
della mia faccia a comporsi nell’espressione voluta – Non voglio farti la
morale. Penso… che qualche ragione ce l’abbia. Minima, ma ce
l’hai.
- Di far
giustizia? Di dimostrare a tutti che sono io la parte lesa di tutta questa
storia?
- Di tutelarti da
chi ti vorrebbe morto – taglio corto – Anche se i tuoi metodi fanno
schifo.
- Guarda che il
pensiero di immerdare quell’idiota non mi dispiace affatto… – scuote le ciglia,
satanico.
Adesso, sono
sicuro che stia cercando di tastare le mie reazioni. Vuole mettermi alla prova e
capire quanto lo ritenga becero da uno a dieci.
- Senti,
Andrea Io ci metterei la mano sul
fuoco, che se Riccardi non fosse mai venuto da te a tentare di rovinarti
l’esistenza, tu non ti saresti manco accorto che esiste.
Spero che i miei
occhi puntati al soffitto gli abbiano suggerito che il discorso dopo un po’
diventa pesante.
- Pensi che lo
stia facendo per me stesso? – Andrea socchiude le palpebre, meditabondo – Mi
sottovaluti. Non ho mai sopportato i bulli del cazzo che pensano di guadagnare
punti quanti più musi spaccano. Che amano rendere la vita difficile a chi gli
sta sullo stomaco, come se fosse un loro diritto. Dopo gli omofobi, il secondo
posto d’onore è tutto per loro. Immagina di vedere… te, poniamo te, che sei lì
che ti fai i cavoli tuoi, e a un certo punto salta fuori mister X e decide di
tormentarti, perché nel suo cervellino inutile avresti qualcosa nel tuo DNA che
non va, che automaticamente gli dà il diritto di trattarti come uno straccio.
Oggi sono io… e le conseguenze non sono state così gravi. Domani, chi
sarà…?
È lapalissiano,
ora. Perché l’aveva detto lui, che si sarebbe dannato l’anima pur di raddrizzare
un po’ del male che aveva fatto, direttamente o no, quando per un caso fortuito
si era trovato incluso a pieno titolo nella casta e sottoposto alle sue dure
leggi.
È adesso che il
contenuto di quella frase declamata per sbaglio in un’aula vuota, dopo che
Alberti mi aveva quasi rotto il naso, emerge in tutta la sua tragica verità,
come una nota inquietante. Non era mettere una pezza provvisoria sui suoi
disastri.
Il problema è che
stavolta Andrea è serio. Oscenamente serio. E come tutte le volte che è serio,
ti incunea addosso un’angoscia difficilmente
quantificabile.
- Possiamo
parlarne in un altro momento? – liquidare un discorso non è mai stato tanto
difficile e liberatorio al tempo stesso.
Specie quando ti
rendi conto che avresti ancora la possibilità di propinargli un discorsetto e
stornare la catastrofe.
Prima che cominci
a temere seriamente per te e per tutto ciò che ti dice il cervello,
nell’esaltazione della vittoria sudata a spintoni.
- Finalmente una
bella idea! – squittisce, sprofondando nel letto a peso morto, un braccio teso
davanti al viso come per ripararsi da raggi invisibili – Cazzo, mi gira la
testa…
La spiegazione
plausibile è che questa è la prima canna della sua vita, all’alba dei suoi
vent’anni.
- Sicuro di star
bene?
La risposta è una
specie di mugugno poco articolato, con la bocca impastata e un gusto vagamente
languido – che forse sono l’unico a sentire.
Come se il peso
di quella giornata da suicidio e di quei discorsi farraginosi gli sia ricaduto
sulle spalle solo in quel momento, lasciandolo lì senza la forza di riconnettere
il cervello.
- Vieni qui… – mi
sussurra con un cenno perentorio.
Non avevo mai
fatto caso alle sue mani. Le dita lunghe, sinuose, i movimenti spicci.
L’anellino al pollice destro come una trafittura gelida sulla pelle, quando le
sue dita mi arpionano un lembo della maglietta e mi attirano verso di lui, con
un sonoro lamento delle molle del letto. E di nuovo, quel basso mugolio di
sottofondo, come le fusa di un gatto. Le dita che indugiano sull’orlo della
maglia, per poi scorrermi sulla cute, risalire fino alla nuca e assestarsi lì,
frementi. Le labbra, le mie e le sue, fameliche le une sulle altre – appena il
tempo di riempirsi d’ossigeno i polmoni, prima di riprendere a
esplorarsi.
Il silenzio è
come un manto di tenebra sulle spalle, come il guizzare dei suoi movimenti –
solo qualche schiocco improvviso, la tensione impigliata
addosso.
E poi, non so
cos’è – forse quel paio di boccate traditrici di cui mi sono servito anch’io,
quando gli ho mostrato com’è che doveva fare. Non so cos’è, ma all’improvviso
quantificare la realtà diventa difficile, incastrarsi in un intervallo di tempo
qualsiasi. Separare quel silenzio terribilmente vivo e palpitante dallo scorrere
delle sue labbra su di me, dal respiro veloce che gli si mozza in gola e
trema.
So soltanto che
da un certo momento in poi c’erano solo le sue labbra avvitate alle mie, il
fruscio dei suoi capelli tra le mie dita, la penombra nebbiosa della stanza, la
sua pelle rovente – così vicini che per qualche istante non c’è più stata la
singola percezione, ma solo un’unica scintilla, una specie di contatto vivo. Lo
scatto felino con cui si è sollevato su di me, sfidando il leggero capogiro che
per un attimo ha minacciato di farlo rotolare a terra, e il suo attacco –
stavolta più in basso, dritto alla gola – come un formicolio intenso
sottopelle.
E lo schiocco
gentile delle sue labbra che si dischiudono a scoprire i
denti.