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Autore: waferkya    21/07/2011    1 recensioni
La verità è qualcosa di meraviglioso e terribile, e dovrebbe quindi essere trattata con grande cautela.
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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— Avvertimenti vari: slash, character death (canon), what if?, angst, uso piuttosto disinibito della Maledizione Cruciatus (oh, Gelly ♥)
— Scritta per il prompt "E se Gellert non fosse fuggito dopo la morte di Ariana, ma fosse rimasto in contatto con Albus?" @ The Carnival (grindeldore_ita)
— Il titolo l'ho rubato alla splendida Walk dei Foo Fighters.
— Ecco, io il prompt di miki_tr  sono riuscita a scriverlo solo a metà; Gellert non fugge, ma "rimane in contatto" è una parola grossa.
— Se vi può interessare, i due fanciulli nel banner sono Kristian Lidegaard (Gellert) e Bartek Borowiec (Albus).




~ Do you remember the days
we built those paper mountains?
and watched them burn.


L’incantesimo guizza in un fiotto di scintille rosse dalla bacchetta di Gellert e si schianta sulla controfattura di Aberforth. Le finestre esplodono in un fragore di vetri e frammenti brillanti; Ariana sgrana gli occhi e poi ride, contenta, indicando le capriole di colori che ruzzolano per aria e poi si spengono sul pavimento. Aberforth si distrae per guardarla, per controllare che stia bene, e Gellert gli lancia contro uno Schiantesimo – c’è Albus, c’è Albus e Gellert non vuole fare qualcosa per cui Albus non lo perdonerà mai, – che viene deviato da un Sortilegio Scudo e apre un enorme buco circolare nel soffitto. Calcinacci e polvere piovono giù, soffocando la stanza in una fitta nube color topo. Ariana tossisce forte, Gellert solleva la bacchetta.
«Basta così,» mormora Albus, la voce calma, controllata. Un guizzo del polso, e la polvere si solleva come gonfiata dal vento e pigramente rotola in grossi fiocchi su per i muri, e poi fuori dalle finestre sfondate. Gellert e Aberforth si squadrano ancora, poi, insieme, si voltano a guardarlo. Albus sospira. «Distruggerete la casa,» dice, e i suoi occhi brillano, divertiti, ma non sta sorridendo. Gellert preme assieme le labbra in una linea sottile e arrabbiata, che si arriccia giusto un po’ agli angoli in una specie di ghigno.
«Siamo maghi, mein Freund,» osserva, tranquillo, la bacchetta ferma e puntata al cuore di Aberforth. «Possiamo ricostruirla senza sforzo.»
Albus lo guarda e la sua espressione è strana, immobile. Gellert non l’ha mai visto così serio, neppure le disavventure dei fratelli Peverell e la possibilità di diventare Signori della Morte assieme l’hanno mai reso così attento ed ora basta un bisticcio nel suo soggiorno a catturare tutto il suo interesse. La famiglia è certamente qualcosa di pericoloso e affascinante, per l’ascendente che esercita persino sui maghi più potenti. Gellert aggrotta le sopracciglia, distraendosi a cercare di capire cosa Albus stia pensando.
«Albus, caccia questo maledetto da casa nostra!» grida Aberforth, la mano che regge la bacchetta trema per la rabbia. «Non lo voglio vicino ad Ariana!»
Albus solleva le mani, la bacchetta puntata al soffitto, è così calmo e autoritario e tranquillo che per un attimo anche Gellert si lascia ingannare, ma poi capisce, capisce: Albus ha paura, è terrorizzato, e allora Gellert sorride, ride, un po’ scuote la testa e lo guarda, divertito.
«Ah, meine Rubin,» dice, con dolcezza, ed è lontano mezza stanza da lui, ma è come se gli stesse mormorando all’orecchio. Albus stringe gli occhi, Gellert lo vede esitare. «Tutta questa paura... non te ne sei ancora stancato?»
«Gellert...» Albus si controlla non meno che perfettamente, eppure Gellert sente il suo nervosismo crepitargli contro la pelle e lo interrompe, sollevando la mano libera, l’altra ben salda attorno alla bacchetta che ancora minaccia Aberforth.
«Posso liberarti, Albus,» mormora. Albus solleva la testa e trema, sotto l’intensità del suo sguardo. «Mi basta una parola, una soltanto.»
«No,» gli risponde Albus, con gli occhi sgranati e l’incertezza scritta chiaramente su tutto il viso. A Gellert si spezza il cuore, sorride.
«Falsche Antwort,» mormora, e prima ancora di poterci pensare – prima che Albus possa reagire e contrastarlo, – ha Aberforth a contorcersi sul pavimento, schiacciato e torturato da una fattura che ha un nome terribile, che Gellert non vuole pronunciare.
«No!»
Albus naturalmente lo sta fronteggiando già dopo un attimo, e l’agonia di Aberforth s’infrange in un ultimo grido disperato e poi sul suo respiro affannoso. Albus lo guarda appena, Trasfigura una poltrona in leone e Gellert ride, lo sbalza via con un giro appena della bacchetta. Ariana non ride più quando fanno scoppiare altre bolle di luce; Gellert sa che Albus si sta trattenendo, che non vuole fargli del male ma solo allontanarlo, cacciarlo via per un po’, proteggere questa brutta famiglia che ha, che è costata la vita ai suoi genitori e adesso vuol mangiarsi anche la sua.
«Non odiarti, Albus!» gli dice, al di sopra dello sfrigolare assordante degli incantesimi. Si stanno lanciando addosso sciocchezze, poco più che petardi, come due Babbani che scelgono ciottoli e schegge di legno piuttosto che coltelli e spade affilate, ma Gellert non vorrebbe niente di diverso. «Non odiarti, se non riesci a odiarmi.»
Ogni volta che Gellert ha provocato, subito, senza un’esitazione, Albus ha sempre ceduto. Una battuta, un accenno ai Doni, l’interpretazione di una Runa e poi un sorriso e un bacio e una carezza, Albus ha sempre ceduto, con quello scintillio di educata sorpresa negli occhi, come se prima di quel momento non avesse mai osato neppure sperare che potesse esistere al mondo qualcuno che avrebbe considerato suo pari. È un pensiero che basta ad intristire Gellert più di quanto non gli piaccia ammettere, e soprattutto è forse la cosa che li ha uniti di più, nel caldo torrido di Godric’s Hollow: una corrispondenza di pensiero, d’intelligenza e di opinione, di spirito no, mai, perché Albus non potrebbe essere più diverso da lui, opposto e speculare e convesso dove lui è concavo, luminoso e gentile dove lui sarà cupo e spietato, ma di tutto il resto sì, sempre, e Gellert non ha mai avuto nulla di più prezioso, neppure se stesso.
E stavolta non è diverso, perché alle sue parole Albus reagisce con forza, con un Incantesimo che Gellert non conosce e gli fa perdere l’equilibrio e lo fa sorridere. Attraversa la stanza in un attimo, ritrovandosi così vicino ad Albus che gli sembra di essere a casa. Gli preme una mano sul lato del collo, con il pollice gli accarezza una guancia.
«Se solo volessi, Albus,» bisbiglia, e gli piace il modo in cui vede la decisione di Albus sbriciolarsi un po’ sotto il suo tocco. Aberforth tenta di affatturarlo ma Gellert alza un Sortilegio Scudo attorno a sé e ad Albus e si volta verso il ragazzino con un sorriso di scherno. «Sto parlando con tuo fratello, Floh, sparisci.»
Albus fa un passo indietro, sottraendosi a lui. Mentre Gellert lo guarda, l’ennesimo, debole Schiantesimo di Aberforth passa tra di loro senza sfiorarli neppure.
«Possiamo parlarne,» dice Albus, piano, con calma. «Possiamo parlarne, ma non adesso, ti prego.»
Albus vuole sempre parlare – un po’ crede ancora che tutto si possa risolvere così, incontrandosi a metà strada, e un po’ è talmente bravo a calibrare la voce, ad ammaliare, a distrarre e convincere e ad ascoltare che, mentre parla, sotto il naso ti mette in scacco il re e te ne accorgi soltanto quando ti sorride e dice, a te la mossa, amico mio, e non c’è più niente da fare, non per davvero. Albus vuole sempre parlare e Gellert ormai lo conosce e soprattutto conosce se stesso: sa che, se gliene lasciasse l’occasione, Albus saprebbe come cambiarlo, e un po’ l’ha già fatto.
Gellert è un ragazzo e ha la testa piena di sogni, il petto pieno di voglie; non intende cambiare, e immobilizza Albus, scaglia di nuovo su Aberforth la Maledizione che gli è più cara. Alle grida tetre del ragazzo si accompagnano gli strilli spaventati di Ariana, i lampi azzurri della sua magia che Gellert allontana da sé e da Albus senza sforzo.
«Tutto questo è soltanto un peso, per te, mein Rubin, una zavorra,» dice. Accenna alla casa, ad Aberforth, Ariana, ai ricordi e alla morale e alle buone intenzioni che imbrigliano la mente di Albus. «Liberatene.»
«È la mia famiglia,» replica Albus, con dolcezza, quasi triste, perché Gellert non può capire. Riesce a liberarsi dal Pietrificus, infrange il Sortilegio di difesa che ancora li circonda e Protegge Aberforth, gli si inginocchia accanto, mormora, «Innerva,» e lo guarda riprendere conoscenza, stringendogli un braccio per impedirgli di saltare in piedi troppo presto.
Gellert vuole soltanto andarsene, ma Aberforth si libera della presa del fratello e lo insulta, lo sfida, Gellert non ha nessuna voglia di sopportarlo e la soddisfazione di averlo Cruciato già due volte si dissolve in fretta: si volta, la bacchetta già tesa, la formula già sulla lingua, ma Albus è più veloce, lo coglie di sorpresa con un pugno – un pugno, addirittura, come se fosse un Babbano, – che gli fa schioccare forte la mandibola e fa più male di qualsiasi ferita magica che abbia mai bruciato la pelle di Gellert.
Si ritrova contro il muro, per terra, il sangue che gli rotola dall’angolo della bocca e lo lecca, lo assaggia con curiosità, guardando da lì in basso Albus che gli sembra altissimo e splendido, luminoso, quasi, nella sua rabbia: una fenice.
«Vuoi uccidermi?» domanda, schernendolo, ma Albus sospira, si calma d’un tratto, è come se si sgonfiasse, e poi alza la testa di scatto, si volta, terrificato.
Ariana non sta più strillando.
Aberforth dà un grido disperato, Gellert è accanto ad Albus prima ancora che si renda conto di essersi mosso. Gli tocca la nuca con la mano bene aperta, gli occhi un po’ sgranati fissi al corpo immobile della ragazzina, riverso sul divano sdrucito. Non era questo che voleva.
«Albus,» mormora, mentre Aberforth si getta ad abbracciare Ariana e piange, disperato, chiamando il suo nome. «Albus,» e Gellert non sente davvero nient’altro, niente che non sia l’abisso di silenzio in cui Albus è sprofondato, talmente assoluto e soffocante che neppure il battito del suo cuore dà più il minimo suono. «Albus.»
E alla fine Albus si volta a guardarlo, ma non è lui, non per davvero, ha solo il suo viso, e la voce un po’ arrochita di quando è stanco, ma gli occhi non sono quelli di Albus, quelle due schegge di ghiaccio, e neppure la bocca, sottile e bianca e ferma e serissima quando gli dice:
«Vattene,» e non è una preghiera e non è una richiesta gentile e non è niente di meno che un ordine, un’accusa, un tradimento, una Maledizione Senza Perdono. È la prima volta che Albus gli parla così. «Vattene.»
Gellert sostiene il suo sguardo finché ci riesce, non molto a lungo, e poi chiude gli occhi, annuisce. Albus lo guarda andare via.
La casa è ridotta a poco più che quattro mura e troppe macerie.

*

La luce lattea della luna filtra dal buco nel soffitto e getta ombre fredde su tutta la stanza. Albus siede per terra, le ginocchia strette al petto e non ha davvero idea di quanto tempo ha passato così, abbandonato a odiarsi e senza riuscire neppure a piangere. Aberforth è crollato prima del tramonto, Albus lo ha fatto Levitare fino al suo letto e poi si è accoccolato lì, ad un tappeto di distanza dal corpo della sua sorellina. E si odia. Si odia.
Sente un tocco caldo e discreto contro il gomito, ma lo ignora e continua a fissare Ariana ed è tremendo vederla così ferma, silenziosa, tranquilla. È sbagliato, insopportabile, perché è Ariana, la sua Ariana, e avrebbero dovuto tenerla al sicuro, Albus avrebbe dovuto occuparsi di lei, e di Aberforth, e di tutto, e invece è tutto un disastro, Albus è un disastro, ha sbagliato ogni cosa. La tazza continua testarda a picchiettarlo, versando qualche goccia di liquido ambrato sul pavimento, e Albus sospira, si arrende, la prende tra le mani e non è tanto male, il tepore della ceramica sulle dita intirizzite dal freddo, dall’odio e dalla paura, dal senso di colpa; non è tanto male, l’odore buono del tè, e Albus ne beve un sorso, si scotta la lingua, si rilassa appena a sentire il sapore dolce del miele esplodergli contro il palato.
Gellert emerge da un’ombra, e in silenzio gli si inginocchia davanti, tra lui e il divano, impedendogli di fissare ancora Ariana. Albus non lo guarda, ma beve ancora un po’ di tè e poi mette la tazza da parte sul pavimento. Tiene gli occhi bassi, il mento premuto al petto, e Gellert gli prende il viso tra le mani, lo accarezza appena, lo bacia.
«Io ti amo, Albus,» dice, perché è l’unica cosa cui sia riuscito a pensare per tutto il pomeriggio. Albus ride, distoglie lo sguardo.
«Non ti importa di niente, amico mio,» mormora, con un’amarezza che Gellert vorrebbe poter portare via dalle sue labbra, vorrebbe, ma è vero, a lui non importa di niente.
«Di te. Di te m’importa,» dice. Albus lo guarda, gli occhi socchiusi, e Gellert avvicina il viso al suo, quasi premendo assieme le loro fronti. «Di te m’importa. E ascoltami, Albus, ti prego. Non è colpa tua.»
«È mia sorella,» replica Albus, stanco e asciutto e gli fissa le labbra. «Ed è morta, ho permesso che accadesse. Naturalmente è colpa mia.»
«No,» Gellert scuote la testa, deciso. «Non lo capisci? Sono stati quei Babbani ad ucciderla, quel giorno. Mein Freund, sono loro gli unici colpevoli.»
«Non mi convincerai proprio oggi dei tuoi metodi, Gellert, mi dispiace,» dice Albus, con un’ombra appena di se stesso che torna a brillargli negli occhi chiari, in quella punta di educato sarcasmo nella voce.
«Non è ciò che intendevo,» protesta Gellert, piano. Albus lo guarda. «Was ist das?» Albus non ha davvero bisogno di spiegare. Abbassa lo sguardo alla propria sinistra, e quando Gellert fa altrettanto vede la sua bacchetta buttata tra la polvere, scura e sottile e capisce. «No,» dice, subito. «No, Albus.»
«Voglio solo sapere la verità,» mormora lui, piano, e Gellert, irremovibile, scuote la testa. Albus gli accarezza una guancia, sorride appena, si sporge a baciarlo piano e poi schiude le labbra contro le sue, cerca la sua lingua, lo attira a sé e Gellert si sbilancia in avanti, appoggiando entrambe le mani al pavimento, e gli va incontro, affamato di lui e triste e gli dispiace, gli dispiace, gli dispiace così tanto ma ha bisogno che Albus capisca, che venga via da tutto questo, che resti al suo fianco. Ha bisogno di sapere che starà bene, più di ogni altra cosa.
Albus si allontana da lui per riprendere fiato, ma i suoi occhi ancora insistono.
«Die Wahrheit...» sospira Gellert, sfiorandogli le labbra col pollice. «Ist etwas Wunderbares und schrecklich, und sollte daher mit großer Vorsicht behandelt werden.»
Ma Albus non lo ascolta, e gli ha sfilato la bacchetta dalla cintura, nel bacio.
«Perdonami,» dice, e non ce n’era bisogno, perché Gellert non avrebbe potuto non farlo, e poi la voce gli trema appena, quando mormora: «Prior Incantatio.»
La bacchetta sul pavimento fa mezzo giro su se stessa, la punta s’illumina e ne cola un fumo perlato, che si addensa nel fantasma un po’ confuso di Aberforth addormentato e prende a fluttuare pigramente per la stanza. Gellert sente Albus trattenere il fiato e gli stringe il polso della mano che regge la bacchetta.
«Albus,» mormora. «La verità è qualcosa di meraviglioso e terribile, e dovrebbe--»
«Conosco il tedesco, Gellert,» lo interrompe Albus, con dolcezza, e poi la bacchetta dà un lampo verdeazzurro, d’improvviso, e un’altra figura ne emerge, e Gellert vorrebbe spezzare l’Incanto, vorrebbe sapere come distrarre Albus e invece sta lì e guarda un’Ariana fatta di fumo sollevare la testa e sorridere triste. «Oh.»
Albus trema violentemente e la bacchetta si scuote, Ariana si circonda di luce e libera la sua magia che si schianta contro un muro invisibile e le rimbalza addosso. Il fantasma ripete la scena ancora e ancora e ancora, finché Albus non spezza il contatto tra la propria bacchetta e quella di Gellert e si fissa le mani, bianchissimo in volto.
«Ho ucciso mia sorella,» mormora. Gellert lo guarda piangere soltanto due lacrime e poi chiudere gli occhi con forza, mordersi le labbra. «Ho ucciso mia sorella.»
Il Sortilegio Scudo con cui ha protetto Aberforth ha deviato contro Ariana la sua magia incontrollata, non è accaduto di sua volontà, Albus non avrebbe potuto prevederlo, ma Gellert sa perfettamente che non fa alcuna differenza, non ha alcuna importanza: Ariana è morta e Albus se ne sentirà responsabile per sempre.
«Ti amo,» gli dice, e Albus lo sente appena. Per un po’ gli resta accanto, poi lo bacia contro l’angolo delle labbra, si riprende la bacchetta. «Vado a prendere un altro po’ di tè.»
Si risolleva, senza aspettare una risposta. Raccoglie la tazza, si sente un Babbano e poi fa il giro del divano, finché non è alle spalle di Albus. Guarda per un momento ancora Ariana, chiude gli occhi.
«Oblivion,» bisbiglia.

*

«Sei invecchiato.»
Gellert sorride, mentre lo dice, perché non riesce a farne a meno. È un sorriso un po’ più cattivo di quello che Albus era abituato a vedere, forse, inasprito dagli anni, dalla lontananza, soprattutto, ma comunque un sorriso, e Albus risponde sempre – sempre – alle parole di Gellert, ai suoi gesti, ai suoi Incantesimi e ai suoi pensieri.
«Oh, Gellert, mi spezzi il cuore,» scherza Albus, e i suoi occhi scintillano, divertiti. La veste che indossa, color porpora, è bruciata sugli orli e strappata ad una spalla. Il sorriso di Gellert si ammorbidisce appena.
«Siamo invecchiati entrambi,» concede, conciliante. È facile, d’altra parte, essere conciliante, ora che è sconfitto e immobilizzato, nel bel mezzo della Foresta Nera. È facile, essere conciliante, ora che dopo anni, anni e anni rivede Albus, finalmente, e Albus sorride e sembra felice. «È inutile girarci attorno, meine Rubin, è la verità.»
Un’ombra passa sul viso di Albus, Gellert pensa che sia per il soprannome che gli è scivolato sulla lingua prima che potesse pensarci meglio.
«La verità...» sospira Albus. «È qualcosa di meraviglioso e terribile, e dovrebbe quindi essere trattata con grande cautela.» Gellert lo guarda. Gli occhi di Albus sono così intensi da fargli più male di una coltellata, ma non distoglie lo sguardo. Gli Auror cominciano ad Apparire, alle sue spalle, e Albus s’infila la bacchetta nella cintura. «A te la mossa, amico mio.»





A/N che sono tanto scema che quasi mi dimenticavo.
mein Freund: amico mio.
meine Rubin: mio rubino *si squaglia*.
Falsche Antwort: risposta sbagliata.
Floh: pulce.
Was ist das?: Che c'è?
Die Wahrheit etc: "La verità è qualcosa di meraviglioso e terribile, e dovrebbe quindi essere trattata con grande cautela". È una frase che pronuncia Silente nell'ultimo capitolo della Pietra Filosofale \o/
  
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