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Autore: lar185    22/07/2011    2 recensioni
L’assurdità dei nostri incontri e la sua enigmaticità mi mettevano tremendamente a disagio, considerando anche il fatto che io non sapevo nulla di Federico. Già, non sapevo nulla di lui. Che tipo di vita conduceva, che persone frequentava. E soprattutto, che cosa stesse cercando in me, dai nostri discorsi, dai nostri sguardi. Era solo un semplice passatempo? Non mi pareva vero che mi stessi chiedendo una cosa del genere. Cosa m’importava di Federico? Cos’era lui per me, se non un inutile aggancio al mio passato? Avevo paura di quello che era successo, di quello che sarebbe successo. Mi chiedevo perché si ostinava a volermi vedere, già, perché voleva vedermi? E soprattutto, perché non aveva mai fatto riferimento a lui? Questa era una domanda che fino a quel momento non m’era mai venuto in mente di farmi. In definitiva, io e Federico eravamo stati legati soltanto da lui. Ma adesso lui non c’era, e tutto si ribaltava. Tutto era cambiato.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E’ sempre più consueto: coppie che si amano alla follia di tanto in tanto hanno degli alti e bassi, e uno dei due va via piantando l’altro da solo in mezzo alla strada. Solo qualche giorno dopo, però, si fa pace. Il “periodo di pausa” non serve davvero a prendersi una pausa, (da cosa, poi?) ma serve solo a rendersi conto di quanto si sente la mancanza dell’altro, così in un batter d’occhio tutta la pausa finisce e si ritorna l’uno tra le braccia dell’altro.
Tutti erano convinti che tra me e lui sarebbe successa la stessa cosa, ma si sbagliavano. Passò una settimana, ne passarono due, ne passarono tre. Ma lui non si fece più sentire.
Mia sorella passeggiava incredula tutti i giorni nella nostra camera fissando il mio letto una volta colmo di peluche che mi aveva regalato, la parete sgombra dalle foto che ci ritraevano, la mensola sulla quale giaceva il mio cellulare, che adesso non mi serviva quasi più.
A scuola tutti i miei amici mi si affiancarono come se stessi vivendo un incredibile lutto. “Sto bene” ripetevo, ma nessuno ci credeva.
Almeno due notti a settimana restavo sveglia fissando il soffitto, continuando a pensare a quanto era successo. Non riuscivo a capacitarmi del fatto di non star soffrendo neanche un po’. Avevo perso il cuore? Avevo cancellato gli undici mesi passati insieme automaticamente, quando lui era andato via? Eppure, se qualcuno mi chiedeva se ancora lo amassi, io rispondevo di si. Non ero proprio abituata a dire di no.
Una di quelle notti iniziai ad ipotizzare di non averlo mai amato sul serio. Ripercorsi nel mio cervello ogni singolo giorni degli undici mesi precedenti, da quello in cui ci eravamo conosciuti a quello in cui mi aveva piantata in mezzo alla strada.
Io e lui ci eravamo conosciuti come si conoscono molti, tramite amici. Lui era semplice, tranquillo, adatto a me: avevo sin dall’inizio trovato in lui una persona sulla quale sapevo potermi sempre rivolgere, una spalla sulla quale poter piangere, un affetto che non mi sarebbe venuto mai a mancare. Ma se avessi dovuto, quella notte, descrivere il modo in cui mi ero innamorata di lui, non avrei mai potuto: suppongo sia accaduto da un giorno all’altro, non esiste mica un momento preciso in cui ti innamori? Lui di me s’era innamorato subito, me lo aveva ripetuto molte volte in quegli undici mesi. E io gli rispondevo che anche per me era stato lo stesso, e forse ne ero davvero convinta. Ma pensandoci, quella notte, mi resi conto che non mi ero affatto innamorata.
Avevo perso la testa.
Ma non per amore, oh no.
L’avevo persa perché un giorno forse m’era caduta e non me n’ero accorta, e m’ero trasformata in un automa, in una persona che viveva solo ed esclusivamente per lui. Le emozioni che avevo provato durante i nostri lunghi undici mesi erano state frutto del sosia che si era impossessato di me per quei tempi. Ero, come dire, momentaneamente impazzita. Forse lui se n’era accorto, e aveva deciso di chiuderla con questa farsa. Oppure era impazzito anche lui, il che avrebbe reso tutto molto più logico. Avevamo entrambi trovato un posto in cui rintanarci, senza farci troppo male, ma non era niente di più che una temporanea perdita del ben dell’intelletto. E ne sarei stata più sicura circa un anno dopo, quando quello stesso passato che reputavo inutile e sterile, mi avrebbe catapultata in un futuro inaspettato.
 
 
 

 
 
 
Il mio nome è Clarice, e non è mai stato così tanto associato ad un altro nome come lo era quando stavo con lui. In quel periodo chiunque dicesse il mio nome non poteva fare altro che nominare anche il suo, e chiunque anche solo pensasse a me, evocava insieme alla mia immagine anche la sua. Ero diventata una specie di prototipo di ragazza, quella che non si stacca dal suo fidanzato nemmeno se la tiri via con la violenza: in realtà, quella Clarice era una menzogna.
La vera Clarice è una ragazza senza molti sentimenti.
Sono espressamente legata soltanto a poche cose, tutto il resto per me è alquanto superfluo: sono terrorizzata dalla mentalità comune secondo la quale ognuno di noi ha bisogno di almeno tre persone oltre i propri genitori per vivere (il fidanzato, la migliore amica e il migliore amico), e proprio per questo ogni rapporto al di fuori della famiglia veniva circoscritto entro limiti precisi. Chiunque intorno a me si contornava di almeno uno dei tre personaggi fondamentali, ma io ne restavo sempre fuori. Non avevo bisogno di migliori amici a cui confidare i miei segreti: non avevo segreti, ed ero in grado di elaborare benissimo i miei pensieri da sola. Non sono mai stata un’adolescente complessata; non avevo bisogno di restare ore al telefono raccontando la mia vita e non avevo bisogno che gli altri mi dimostrassero il loro amore.
Ma non per questo ero una persona scostante.
Con gli altri ero discreta ma gioviale, riservata ma socievole. Cercavo di donare agli altri la parte migliore di me senza espormi troppo, e per loro credo di essere stata un elemento monocorde: non ero allegra o triste, infuriata o delusa. Ero semplicemente Clarice.
Era per questo mio essere talmente controllata che tutti restarono sorpresi dall’arrivo di lui nella mia vita.
Luinon era uno dei personaggi fondamentali che servono per rendere perfetta la commedia della nostra vita, lui era l’accessorio principale di essa. Con lui ho iniziato a parlare di me come non avevo mai fatto, senza essere coinvolta in nessun sentimento particolare. Più coinvolta di me, sin dall’inizio, è stata mia sorella Giada.
Giada è più giovane di me di qualche anno, ed è così ricca di entusiasmo che a volte dubito della nostra parentela. A differenza della maggior parte delle sorelle, io e Giada andiamo amorevolmente d’accordo, io non ho nessuna pretesa su di lei: non mi infurio se usa il bagno prima di me, se rimane nella mia camera quando sono al telefono o se mangia l’ultimo biscotto. Il nostro rapporto è sempre stato talmente fuori dal comune che l’ho sempre considerata una seconda me stessa: le raccontavo ogni cosa del mio rapporto con lui (forse perché insisteva sempre tanto) e talvolta anche i miei dubbi. Giada mi dava degli ottimi consigli e a quanto pareva, anche a lei faceva piacere avere come alter ego la propria sorella.
È stato per questo che quando io e lui abbia rotto lei era così sconvolta: era certa che fosse successo qualcosa che io non le avessi rivelato e che adesso stavo rovinando la mia vita per una futile sciocchezza. Ma in realtà tra di noi non era successo niente, niente davvero.
Erano passati circa due anni da quando tutto era finito, e più il tempo passava e più io mi rendevo conto di star perdendo i pochi sentimenti che avevo. L’essermi allontanata (sebbene senza volerlo) da lui mi stava facendo rendere di conto di quanto la mia vita fosse troppo leggera.
 
Faceva ancora un po’ freddo per essere arrivato già luglio, ma la mia avversione per il caldo mi faceva amare il vento fresco che mi avvolgeva le spalle mentre camminavo per strada. Ero andata in giro alla ricerca di un regalo per Giada: tra poche settimane sarebbe arrivato il suo compleanno e non avevo idea di che cosa poterle comprare. Se non fossi stata impegnata con l’esame di stato il mese precedente, avrei potuto dedicare molto più tempo a pensarci. Tutto quello che avrei potuto comprarle senza riflettere più di un quarto d’ora l’avevo già comprato per i precedenti compleanni, ma adesso le cose iniziavano a complicarsi e come se non bastasse non c’era neanche lui a consigliarmi qualcosa. Con Giada lui era sempre andato d’accordo: la sua innata gentilezza e amorevolezza nei confronti dei più piccoli aveva conquistato da subito mia sorella, che già di per se adorava il fatto che io mi fossi fidanzata.
Ma adesso dovevo cavarmela da sola.
Tutte le cose che avevo dovuto fare da sola durante quei due anni senza di lui erano niente confrontate a quell’enorme problema. Non c’era niente che odiassi di più di comprare il regalo per Giada fare, senza di lui per giunta.
Sospirai un po’ contrariata e mi portai dietro l’orecchio una ciocca dei miei capelli color miele. Erano circa le sei, tra poco sarei dovuta rientrare e non avevo ancora deciso.
In preda ad un momento di sconforto stavo per imboccare la strada che mi avrebbe riportata a casa, quando sentii una voce che pronunciava il mio nome alle mie spalle.

- Clarice –
Non mi aveva chiamato, no. Aveva semplicemente pronunciato il mio nome, quasi sottovoce, come si pronuncia un “ciao”. Il tono che aveva usato la voce non aveva nemmeno un briciolo di violenza: pacato, gentile, introvabile.
Mi voltai lentamente, assecondata dal modo in cui il mio nome era stato pronunciato.

- Federico –
Pronunciai a mia volta, con un sorrisetto di convenienza.
Federico era il suo migliore amico, quasi come un fratello: passavano insieme moltissimo tempo (il tempo che lui non passava con me), vivevano quasi nella stessa casa e condividevano un sacco di interessi. Federico ci aveva invitato a milioni di feste, ci aveva fatto conoscere moltissime persone e si era reso per noi sempre disponibile. Nonostante tutti lo trovassero davvero adorabile, il mio rapporto con lui era sempre stato un tantino freddo, quasi come se l’unica cosa che ci costringesse a parlarci era lui. Nonostante questo, non potevo dire che  non avesse una personalità interessante. Una delicatezza, quella di Federico, difficile da trovare. Anche in quel momento, nel modo in cui aveva pronunciato il mio nome, si poteva cogliere quel soffio sospeso e quel suo fascino nascosto chissà dove, forse tra i suoi respiri.
Sorrise, gli occhi gli si illuminarono.
Solo in quel momento mi resi conto da quanto tempo non ci vedevamo.
Come è immaginabile, da quando io e lui avevamo rotto io e Federico non avevamo più avuto nessun tipo di rapporto. D’altronde, c’era forse un motivo che ci costringesse a parlarci, adesso? No.

- Ciao Clarice- , mormorò sorridente, - non riesco a crederci!-
“Già”, pensai io, “non riesce a credere che non mi sia ancora suicidata”
Sorrisi di nuovo.

- A cosa non riesci a credere?- chiesi, con una punta di ironia.
Federico alzò le spalle, gli occhi azzurri socchiusi.
- Che sei davvero tu. Non ti vedo da un sacco di tempo-
Zero imbarazzo nelle sue parole, anche in questo Federico era bravissimo: riusciva a farti sentire sempre a tuo agio.
- Beh si, in effetti è passato un bel po’ di tempo. Come stai?-
Subito dopo mi pentii della domanda fatta. Adesso saremmo dovuti restare un po’ lì  a parlare e lui mi avrebbe raccontato di sicuro cose che non mi interessavano neanche un po’.
Federico alzò le spalle, sembrò intuire i miei pensieri.

  • Sto bene, grazie. E tu?-
  • Anche io-
  • Dove te ne vai di bello?-
  • Oh, cercavo un regalo di compleanno per Giada. Ma non ho ispirazione oggi-
  • Ah, capisco-
  • E tu?-
  • Sono andato a fare le prove-
Oh già, le prove.
Federico suonava in una band da circa…ehm, sempre. Suonava la chitarra da quando era bambino e forse faceva anche il cantautore.
Io e lui eravamo andati un sacco di volte alle serate di Federico, che sembrava già una rockstar piena di fan impazzite. Il suo atteggiamento di fronte alla musica era però di massima serietà: venerava la sua chitarra come se fosse un dogma e la amava forse più di qualsiasi altra cosa. Una volta aveva piantato una tipa per il suo atteggiamento superficiale nei confronti della musica. “Una così non starà mai con me” aveva detto.

  • Oh. Suoni ancora?-
Che domanda stupida e assolutamente di convenienza. Se è appena tornato dalle prove vuol dire che suona ancora.
Federico sorrise.

  • Si, certo. E tu, li fai ancora quei…ehm, cos’è che erano?-
  • Statuette di pasta di sale-
  • Oh si, quelle-
  • Qualche volta-
Federico mi aveva guardava con diffidenza la prima volta che mi aveva vista a casa di lui pasticciare con la pasta di sale. Creare oggettini con la pasta di sale era una cosa che mi portavo dietro sin da bambina, una cosa che mi aveva insegnato mia zia. Tutti rimanevano positivamente colpiti dalla mia abilità manuale, tutti tranne Federico. Mi aveva guardata con uno sguardo talmente strano che lui era scoppiato a ridere fissandoci entrambi. Era sempre stato un po’ assolutizzante, Federico: per lui esistevano poche cose, tutto il resto era strano.
Mi rivolse un altro sorriso. Quella conversazione era priva di qualsiasi senso.
Stavo per dirgli che era tardi e dovevo andare a casa (cosa che non era assolutamente vera) quando lui mi prese alla sprovvista dicendo:

  • Ti va un caffè? Se non hai fretta, s’intende-
  • D’accordo- risposi subito io, senza pensarci neanche un attimo.
Qualche minuto dopo eravamo seduti al tavolino di un bar, io lui e la sua chitarra, poggiata delicatamente al nostro tavolo.
Federico era particolarmente a suo agio, io fingevo di esserlo e contemporaneamente mi chiedevo perché mi trovassi al bar con il migliore amico del mio ex.

  • Cosa mi racconti, Ris?-
Ris. Già, era così che mi aveva sempre chiamato. Non gli era mai piaciuto “Clarice”, diceva che era da vecchia ed era soltanto la brutta copia di “Clarissa”. Così aveva iniziato a chiamarmi Ris, una specie di diminutivo che a mio avviso non ha niente a che vedere con “Clarice”.
Anche a lui ogni tanto piaceva chiamarmi Ris. 

  • Oh, niente di che. La scuola mi ha impegnata un sacco ed è stato…beh, un anno molto difficile-
Le parole erano venute fuori da sole, parole che non mi sarei mai sognata di dire. Non era mio solito dedicare neanche un piccolissimo commento personale a qualcosa o qualcuno, mentre adesso, nella più completa spensieratezza, avevo ammesso che era stato un anno difficile. Stava forse pensando che ero stata male a causa di lui? Probabile. Non avrebbe mai capito che era circa un anno che mi interrogavo sul mio inconscio e sulla mia anima tentando di capire cosa fosse successo dentro di me da quando ci eravamo lasciati.
  • Sei al quarto anno, vero?- chiese Federico quasi ignorando la seconda parte della mia frase.
  • No, ho appena terminato l’esame di stato- risposi, abbassando un po’ il tono della voce.
A differenza mia, lui e Federico erano già all’università.
Federico sorrise, stava per dire qualcos’altro, forse voleva scusarsi, ma la cameriera ci interruppe.

  • Vi porto altro?- chiese gentilmente.
  • Vuoi altro?- mi chiese Federico.
  • No, no. Ti ringrazio-
  • Allora il conto per favore-
  • Subito-
La ragazza si allontanò dal nostro tavolo e Federico afferrò il portafogli, io lo imitai.
  • Questo caffè te lo offro io- disse poi, accompagnando le parole con un movimento della mano.
Risi.
  • Sei pazzo? Non ci pensare. È solo un caffè-
  • Appunto-
  • Perché dovrei farmi pagare un caffè da te?-
Mi sorpresi di nuovo.
Non solo avevo detto una frase che normalmente mi sarei risparmiata, ma il tono non era stato del tutto amichevole.
Federico mi fissò sbigottito per un attimo, poi assunse un’espressione divertita.

  • Beh, perché non ci vediamo da tanto tempo-
La risposta era pacata.
  • Non è abbastanza- risposi io, mettendo sul tavolo le mie monetine.
  • Davvero, Ris, non è necessario- lo guardai irremovibile, lui era sempre divertito, - facciamo che la prossima volta offri tu-
  • La prossima volta?-
  • Già. La prossima volta che ci becchiamo-
Già, forse fra un anno o due. E io intanto gli stavo lasciando pagare il mio caffè.
La cameriera tornò al nostro tavolo e Federico le consegnò i soldi.

  • Grazie. Arrivederci!- salutò giovale la cameriera.
  • Arrivederci- salutò a sua volta Federico.
Non so quale sarebbe dovuta essere la mia impressione in quel momento, ma avevo un’incredibile voglia di andarmene.
Appena fuori dal bar, Federico si rimise in spalla la chitarra e io iniziai a parlare freneticamente:

  • E’ stato un piacere incontrarti, Federico, ora devo scappare. Ci becchiamo in giro-
Federico si chinò per baciarmi le guance, lo lasciai fare controvoglia.
  • Anche per me è stato un piacere. Stammi bene Ris!-
  • Ciao Federico -
Federico si avviò verso destra e io verso sinistra.
Solo in quel momento, come un bagliore di luce improvviso, mi resi conto che Federico era inspiegabilmente bellissimo.

 
 
  
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