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Autore: Mushroom    25/07/2011    4 recensioni
<< Siamo bloccati >>
Rimase immobile per un secondo << Che vuol dire che siamo bloccati, Castle? >>
<< Vuol dire che siamo bloccati >> rispose << Che l’ascensore č fermo, di sabato sera, e che non c’č nessuno in tutto il palazzo >>
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Elevator Love Letter
#03 – Yesterdays

Richard Castle non era un uomo che si sentiva spesso a disagio. Seriamente: era ridicolo che una persona come lui potesse provare imbarazzo per le proprie azioni o quelle commesse dalle persone che gli stavano in torno. Al contrario, anzi, ogni comportamento anomalo e ogni peculiarità bizzarra degli individui lo esaltavano, divertendolo.
Era davvero ridicolo.
Cresciuto con Martha Rodgers, la Diva dell’imbarazzo per qualsiasi adolescente con sani principi di crisi d’identità e ormoni impazziti, aveva iniziato a muovere le sue prime esperienze nel mondo e nel mondo delle situazioni materne compromettenti. Passata la strana fase dell’adolescenza e sepolte le domande sull’esuberanza della donna che l’aveva dato al mondo in un angolino recondito della sua psiche, si era sposato – due volte, potrebbe aggiungere – con donne che non solo erano più assurde di sua madre, ma che erano capaci di ridurre a brandelli ogni cosa si frapponesse fra lui e qualsiasi elemento non fossero i suoi soldi e i suoi romanzi. Ultimo appunto che avrebbe voluto aggiungere sulle sue Ex era che, oltretutto, erano anche matte. E una era la sua editrice. Doveva essere impazzito anche lui, quella volta.
Inoltre, l’uomo conviveva con se stesso.
Date queste premesse era assolutamente, incredibilmente e indicibilmente impossibile che provasse disagio per una cosa così stupida.
Come detto prima, aveva passato da tanto tempo la fase dell’adolescenza.
Però, per quei dieci secondi netti in cui l’aveva guardato senza battere ciglio, Richard Castle si era sentito totalmente, completamente e incondizionatamente assoggettato, del tutto incapace di dire se fosse un’occhiata da film splatter-horror o da film romantico-commedia-ascensoriano (?); se si fosse tratto della prima opzione, non avrebbe avuto troppe vie di fuga – sarebbe morto lì e ora; se si fosse trattato della seconda, non avrebbe saputo cosa fare.
Forse stava iniziando a provare sonno anche lui. E poi sapeva di avere una fantasia inaffidabile e caparbia, così realista da fargli credere ogni cosa che volesse. Sì, a volte – per quanto fonte di guadagno – Castle odiava la propria capacità d’inventiva.
Stranamente, tutte quelle volte comprendevano spesso la Detective.
Questa, dopo averlo scrutato con sguardo impenetrabile, saettò dal cellulare a lui e poi, di nuovo, da lui al cellulare. Un paio di volte, finché non furono le “00:03”. 
Aspettò una battuta, una lode alla sua stupidità, un complimento o un commento; a quel punto, poteva andare anche un’esclamazione inarticolata.
Invece, come se niente fosse, la sua Nikki Heat reale sorrise, trattenne il pollice con l’indice e diede un colpetto sulla nuca dello scrittore.
<< Aio! >> borbottò, strizzando gli occhi << Questo per che cos’era? >>
<< Un po’ per tutto. Un po’ perché la nuova giornata sta iniziando, comunque, male >>
<< Pensa positivo, Beckett >> annuì << Po-si-ti-vo >> sillabò poi, facendo dondolare ritmicamente l’indice per ogni compita pronunciata. Erano ufficialmente entrati nell’arco domenicale, e ciò significava colazione abbondante in una qualche pasticceria del centro e abbastanza tempo libero per riposare; oppure fare qualche follia. Ricordava ancora quella domenica passata a fare maratona di Lost con la figlia, per poi ritrovarsi, il mattino seguente, con due vistose occhiaie, un gran mal di testa e uno stato confusionale su tutto ciò che era accaduto nella serie. La volta successiva si era ripromesso di guardare qualcosa di più semplice come, per esempio, Friends.
Prima ancora che Beckett potesse aver l’occasione di ribattere e, probabilmente, di suggerire qualcosa di abbastanza violento da risollevarle l’umore (e lui sapeva che, con ogni possibilità, non aveva la sua stessa di idea benefica di “violenza per risollevare l’umore”), la sua pancia borbottò. E non con quel genere di rumore che ti fa dire “sì, okay, ho fame” ma con un vero e proprio lamento interiore, simile a quello di una belva in gabbia ignorata da troppo tempo e con in mente piani assassini e/o cannibali. Castle sogghignò con l’aria di chi, dopo aver a lungo faticato, aveva appena trovato ciò che cercava. Piccole soddisfazioni personali in momenti di biologica debolezza pensò.
La vide aprire la bocca, richiuderla, arrossire e, infine, assumere quello sguardo a metà tra l’incavolato e il riluttante. A quanto ne sapeva, Kate era l’unica persona in grado di mescolare assieme due cose totalmente opposte in un’unica espressione << Ho fame >> decretò infine, incrociando le braccia.
Lo scrittore le sorrise, indicando le scarpe della donna. << Potremmo far bollire le scarpe. Sono di cuoio? >>.
Kate gli lanciò uno sguardo molto simile a “che-diamine-stai-dicendo?” seguito da un lampo di consapevolezza non velato, che ricordava, invece, un “Castle-sei-impazzito-del-tutto?” << No. E non c’è né una pentola né acqua calda >>
<< Potremmo accenderci un fuoco, però >> insistette, sicuro che la sua fosse una gran bella idea. Insomma, erano sì bloccati, ma non per questo non potevano mangiare qualcosa, o no? In ogni caso, aveva letto da qualche parte che il cuoio era commestibile se bollito e trattato a dovere. In ultimo – e forse proprio per importanza – accedere un fuoco sembrava divertente. Fumo a parte.
<< In un ascensore? Scherzi, vero? >> alzò un sopracciglio, sporgendosi verso di lui.
La Detective Beckett aveva sempre addosso uno di quei profumi di cui non riusciva mai a determinare la provenienza; sapeva sempre e soltanto di se stessa, come se vendessero le fialette di “Beckett” in profumeria e lei ne avesse una scorta a casa.
Lo avvertì appena, in quella vicinanza sicuramente non voluta, adoperata per la scarsa mobilità dell’ambiente o forse solo per mera abitudine. Tendevano spesso a non rispettare le distanze personali, che fossero dento o fuori dall’ascensore. C’era sempre qualcosa che lo spingeva ad avvicinarsi e qualcos’altro che impediva a lei di allontanarsi.
Così Castle si ritrovava ad avere la sua dose quotidiana di “Beckett” anche se non poteva acquistarlo da nessuna parte; e questo gli faceva ripensare alla prima volta che si era avvicinata abbastanza da poterne sentire il profumo, quando gli aveva sussurrato quel “non immagini quanto” che non aveva più scordato. Forse era stato quello il momento in cui era nata Nikki Heat.
Aveva preso forma e aveva iniziato a sussurrare nella sua mente, proprio come la Detective aveva fatto quel giorno. Puoi crearmi Richard, lo sai? Sì, lo sapeva e l’aveva fatto.
Perché quando un personaggio ti parla è impossibile non ascoltare la sua voce.
Derrick gli aveva parlato solo una volta, e da quella erano nati una serie di Best Seller che portavano ancora il pane in tavola.
Nikki Heat gli parlava di continuo, e i Best Seller c’erano e avrebbero portato altro pane in tavola – anche se, d’altro canto, la loro buona parte la facevano già.
<< Tutto è possibile >> dichiarò infine << Anche accendere un fuoco in ascensore >>
<< Certo >> commentò ironica. Si allontanò e il profumo svanì così com’era arrivato << Se si vuole morire bruciati vivi è la soluzione ideale >>
Lo scrittore fece una smorfia << Non essere così pessimista. Magari prima sveniamo per via del fumo e poi periamo >>.
<< Non dirlo come se fosse un’opzione migliore! >> lo rimbeccò.
Avrebbe potuto aggiungere che – effettivamente – era un’opzione migliore, ma non avrebbero acceso nessun piccolo falò, né tantomeno avrebbero mangiato le proprie scarpe.
Rimaneva solo il resto della giornata (sempre che non fosse stato di più) in cui attendere con quelle chiacchiere, la fame e i lassi di silenzio innaturale. Poggiò il telefono sul pavimento e ne osservò la luce per qualche secondo, come incantato, per poi ricordarsi di avere una scatoletta di tic tac.
Erano all’arancia e non erano esattamente una cena, ma sembravano meglio di niente.
Estrasse le caramelle dalla giacca e gliele porse << Buon appetito >>  sogghignò, vedendo il suo sguardo vacillare davanti ai dolci. Ne prese un paio e restituì la custodia, ringraziandolo.
<< Credo che Alexis si sarà già preoccupata, a quest’ora >> ipotizzò la donna, portandosi alle labbra uno dei tic tac << Si sarà fatta qualche domanda >>
<< Ehm… sai, a volte capita che non ritorni a casa durante la notte >>
Beckett alzò gli occhi al cielo << Immagino >>
<< Vorrei sapere cosa >> questa volta fu lui a avvicinarsi. Glielo sussurrò quasi sulle labbra, increspando lievemente gli angoli della bocca.
Lei non sembrò scomporsi. Inclinò il capo, osservando i dettagli del volto dello scrittore. La luce era così lontana che, sebbene fosse solo a pochi centimetri da lei, riusciva a distinguere solo alcuni dettagli; vedeva il suo sorriso sornione, perché le sarebbe stato semplicemente impossibile non notarlo. Era così da Castle che, anche se si fossero trovati in una cava totalmente oscura, avrebbe potuto immaginarlo con disarmante precisione. Si morse il labbro inferiore e respirò un po’ di quell’aria comune  << La disperazione di tua figlia >>
<< Avverto sempre prima di assentarmi >> borbottò allora, scansandosi appena quel tanto che bastava a ripristinare le barriere personali << Ma oggi doveva andare a dormire da un’amica >>.
Quindi, pensò lo scrittore, non chiamerà nessuno per sapere che fine ho fatto.
La madre l’escludeva a priori. Per quanto Martha potesse volergli bene, sapeva che non si sarebbe messa troppi problemi per la sua assenza; avrebbe pensato che – finalmente – si fosse trattenuto con la Detective per motivi strettamente personali, che avesse dimenticato di chiamare per avvisare e che non fosse il caso di disturbarlo. Oppure si era totalmente dimenticata di vivere a casa di suoi figlio.
Sinceramente, Castle dava come opzione più attendibile la seconda.
Nessuno si sarebbe preoccupato di cercarlo, ma forse qualcuno avrebbe cercato Beckett.
Forse Josh.
Forse si sarebbe preoccupato abbastanza da andare a casa sua e poi al distretto; avrebbe trovato l’ascensore bloccato, sarebbe salito di corsa per le scale e avrebbe trovato tutto chiuso.
Forse la chiamata d’emergenza sarebbe arrivata e sarebbero usciti di lì in poche ore.
I pensieri si susseguirono veloci, com’erano soliti fare, e in quel momento si rese conto che i soccorsi (o come si volevano chiamare) sarebbero potuti arrivare anche il lunedì o il martedì e non sarebbe importato. Avrebbe avuto Kate e il suo profumo tutto per sé per altri due giorni.
Dio, da quando aveva iniziato a pensarla così?
Da quando era arrivato Josh? Da prima?
Si sentiva mortalmente stupido.
<< Quindi l’ipotesi “aiuti famigliari” va nella pila degli scarti >> decretò infine Kate, strappandolo da pensieri che non avrebbe mai voluto formulare.
<< Josh? >> propose. Parlare era meglio che pensare.
Alzò le spalle con indifferenza.
<< È il tuo ragazzo. Se io non ti sentissi per così tanto tempo, mi preoccuperei >>
<< La tua definizione di “tanto tempo” è all’incirca ogni ora, per caso? >>
Nel suo caso? Nel caso di Beckett? Mah, chissà.
Fece segno di no col capo e lei sorrise << Josh è un tipo logico. Crederà che voglia stare per i fatti miei >>
<< Dopotutto voi avete una profonda relazione basata sulla logica di un profondissimo uomo >> lo scrittore desiderò potersi mordere la lingua. Benché nella sua mente le parole fossero totalmente prive di intonazione, erano uscite sarcastiche e marcate da quello che sembrava un tono lievemente rabbioso.
Kate lo fulminò << Logica, ovviamente. Una relazione deve basarsi su questo >>
<< Non c’è logica nell’amore >> sbottò, come se avesse appena detto un’assurdità tale da non suscitare neanche quella poca naturale ilarità suscitata dalle incoerenze << Se non fosse così, perché credi che Nikki abbia ceduto a Rook, alla fine? >>
<< Per la pubblicità del profumo prolungata? >>
<< No, perché… >> si fermò un attimo, come se non avesse idea di ciò che stesse dicendo. Neanche lui sapeva esattamente perché Nikki avesse ceduto a Rook (anche se in verità, era stato Rook a cedere a Nikki e poi a convincerla di fare altrettanto); era stata una cosa così naturale, accaduta perché i suoi personaggi gli erano sfuggiti di mano e… beh, sì, perché un po’ di fanservice faceva sempre bene per aumentare le vendite. Poi c’era la voce, quella di Nikki, che ancora gli diceva “Puoi metterli insieme, Richard? È giusto, Richard? È accettabile?” e lui non poteva fare altro che annuire, perché sì, lui poteva farlo. Era giusto che fosse così. Si amavano, c’era attrazione, quindi era accettabile. << … Dev’essere una cosa naturale, non programmata. Una cosa che accade e basta >>
<< Castle, credevo che scrivessi Thriller, non romanzi rosa! >> lo rimproverò, guardandolo storto << Scommetto che con le tue ex-mogli c’era tutta questa dose di spontaneità, vero? È accaduto e basta >>.
Ed era proprio così – era accaduto e basta, perché in quel momento Richard Castle, che tanto predicava sulle relazioni, non sapeva come definire le sue. Sbagli? Disastri? Abbagli? Forse voleva semplicemente credere in qualcosa che non era vero, nella sua fantasia, e si era fatto trascinare da essa. Probabilmente aveva amato sul serio Gina, però ora non riusciva a ricordare come fosse. Per quanto si sforzasse, appariva sempre così lontana, così sbagliata, da portargli solo nuove domande.
Non aveva le risposte, ma all’epoca lui era un uomo diverso da ciò che era ora.
Sembrava una scusa, così scrollò le spalle a sua volta, incapace di rispondere.
Era un po’ come guardare dentro un baratro, mentre in realtà era questo che guardava te. E così ti ritrovavi un uomo che lo fissava in cerca di qualcosa che non sa esattamente dove trovare, in mezzo alle tenebre, forse perché qualcuno aveva dimenticato di riparare le illuminazioni; ed un burrone che, a sua volta, ricambiava l’uomo con uno sguardo ostile e cagnesco, chiedendosi, invece, che diamine volesse quell’esserino fatto di carne, ossa e sangue dalla sua tetra calma.
La verità era che l’uomo veniva portato a guardare oltre il baratro. Non sotto, non sopra, oltre. Lì, dove l’orizzonte si perdeva e i colori si sfumavano; dove ogni cosa era una cosa sola e non si distingueva nient’altro che il niente stesso. Di solito, questo non accadeva di propria volontà. Come molte cose, nella vita, il cercare di guardare attraverso quell’enorme fossa era solo una conseguenza. Un dettaglio. Una cosa impropria, alla quale arrivavi quasi per caso. Guardare nelle viscere di quest’ipotetico scuro fosso, invece, era volontario. Arrivava un momento dove era impossibile non farlo, perché cercavi risposte che non potevi ottenere altrimenti. Ed ecco che avveniva, quindi, lo scambio di sguardi poco amichevole.
Dopotutto il Mr. Chasm – Castle decise di chiamare così il fosso, da quel momento - poteva decidere di ignorarti. Chi eri se non un estraneo con un’evidente crisi esistenziale? Ovviamente, anche il non sapere dove avevi parcheggiato la macchina poteva essere intesa come tale.
E l’onorevole non era di certo un oracolo. Mica era situato a Delphi, no?
Così il burrone si sentiva violato nella propria intimità e, di risposte, non ne avevi neanche una.
Eppure lo scrittore si era ritrovato, come mai prima d’allora, a rivolgersi al baratro. A sporgersi il più possibile, per cercare dettagli e percezioni che l’aiutassero a comprendere; era scivolato, con quell’inclinazione strana, verso il niente, e stava tutt’ora precipitando nell’oscurità. Vi era abbastanza a lungo da riflettere e cercare, senza l’aiuto di ciò che stava sotto si lui.
Kate Beckett era quel baratro, e lui non riusciva a guardarne al di là e non poteva vederne il contenuto.
Era stata una soluzione diplomatica. Un compromesso poetico.
Lei era lì, davanti a lui, affianco a lui, e non poteva far altro che cercare, guardare e precipitare. Sempre, anche se in ordine diverso. Accettare questo era stato quasi come accettare di essersi innamorato di Kate, così come era rimasto fulminato dalla sua stessa Detective Heat.
<< Forse non così profonde >> lo disse come quel dato di fatto qual era << Però, a suo modo, è stata una cosa illogica >>
La Detective sorrise, pronta a scommettere che nessuno avrebbe mai accettato una relazione con quelle donne se mosso dal raziocinio. Alle volte un rapporto te ne poteva totalmente privare, rendendoti succube di eventi e sensazioni. Trovava che quella ghiandola endocrina che offuscava la ragione fosse assai ingiusta ma, in ugual modo, era convinta che si potesse dominare adeguatamente, abbastanza da rimanere lucidi. In qualsiasi legame sentimentale sapeva esattamente ciò che faceva. Aveva anche lei quelle sporadiche cadute, in cui si sbucciava in ginocchio, in cui compariva sempre qualche graffio in più, ma riusciva sempre a dettare le condizioni mentali di ciò in cui si stava imbarcando. Sapeva quando iniziare così come sapeva quando finire.
Se l’avesse detto a Castle avrebbe riso. Lo dava per certo, così come immaginava che avrebbe continuato quel discorso all’infinito, sostenendo una tesi contraria. Richard Castle era probabilmente colui che aveva ispirato la definizione di “impulsivo” sul dizionario; e, con l’ego che aveva, era riuscito a pretendere che lo creditassero. Del genere: Tutta la redazione ringrazia Mr Castle per aver gentilmente suggerito la definizione di alcuni termini! Grazie, Rick!
Detto questo, avrebbe trovato tanto da ridire sul suo concetto dei rapporti interpersonali.
E avrebbe fatto domande, tante domande, così da dare più spessore ai suoi personaggi e da arricchire il suo libro. Lei si sarebbe arrabbiata (e quando mai accadeva diversamente quando lo scrittore ficcava il naso nella sua vita?) e avrebbe risposto male; sarebbero tornati al punto di partenza, e il silenzio così amato, così desiderato, si sarebbe – alle lunghe – trasformato in un’orribile chimera.
L’Iphone lampeggiò. Si spense e si accese. La stessa sindrome della lampadina sulla scrivania pensò, sorridendo.
C’era stato un momento in cui anch’essa si era sentita come la lampadina. Si accendeva e spegneva senza un motivo preciso e, francamente, non sapeva neanche dire in che modo. C’erano i momenti di buio, in cui la nebbia era fitta e le offuscava la mente, dove ogni cosa perdeva consistenza. C’erano i momenti di luce, dove la nebbia si dissipava; allora credeva di poter finalmente vedere, di essere uscita dalla scura nube, ma lo scenario diventava ogni volta sempre peggiore. Non c’era niente, oltre a quei fumi – solo una grande distesa arida e desolata e fredda. Le metteva quasi più paura dell’oscurità, del non sapere. Ma il dolore non se ne andava in nessuno dei casi, che ci fosse luce o buio. C’era solo quella sensazione di placido sollievo quando la luce si spegneva e quell’altra sensazione così simile alla consolazione che compariva quando la luce si accendeva.
Era stato all’incirca quand’era morta sua madre. Poi era semplicemente trascorso il tempo, e le ferite si erano rimarginate appena sopra la superficie. La lampadina era sparita e la terra arida era stata inondata da una marea lenitiva.
<< Illogico >> sussurrò appena, come se avesse bisogno di sentire il sapore di ogni lettera prima di capire il reale significato del termine in sé. << Non c’è niente di illogico in un rapporto >>
<< Vuoi dirmi che quando stai con Josh ogni tua azione è programmata? >> si accigliò.
Davvero? Josh? Ancora, Castle? Ringhiò la mente della Detective. Sembra che ne sia innamorato tu, a questo punto.
E la lampadina si spegneva e si accendeva. Ancora. Niente marea, niente terra arida e niente nubi. Quella era la sua personalissima lampadina Castle, che si fulminava a ogni parola dello scrittore; che era tornata con quel suo sorriso sghembo la prima volta che avevano collaborato.
Ah, Beckett odiava quella lampadina.
C’era chi sentiva le farfalle nello stomaco, chi si sentiva avvampare e chi perdeva la cognizione di sé - beh, lei aveva una lampadina al posto delle stupide farfalline. Magari all’inizio non era stata così forte. All’inizio era attrazione, giusto? Si manifestava saltuaria e le diceva “Massì, perché no?”.
Peccato che non ci sarebbe stata nessuna azione logica conseguente a quella domanda.
<< Vuol semplicemente dire che avere certezze è meglio che ritrovarsi con due ex-mogli e una schiera di delusioni sentimentali >>
<< Praticamente vai sul sicuro >>
L’IPhone si spense e si accese. Di nuovo.
<< Il tuo super-cellulare-all’avanguardia si sta rompendo? >>
<< Probabilmente sta cedendo la batteria >>
Si accese e si spense. Di nuovo. Ancora.
Beckett sentì l’uomo muoversi, adagiare meglio il peso del suo corpo in modo da mantenere ancora distanze accettabili. Sentì il suo braccio sfiorarla e ritirarsi. Lo avvertì levarsi la giacca – e lo vide con la coda dell’occhio –, buttarla affianco e aprire a sua volta quei tic tac.
Constatò che in fondo poteva andarle sul serio peggio. Che quel ieri così sfortunato sarebbe stato sul serio il peggior giorno della sua vita se si fosse trovata da sola in quell’ascensore.
Chiuse gli occhi e adagiò, per l’ultima volta, la testa sul metallo (freddo, maleodorante e appiccicaticcio) della momentanea prigione. Era anche vero che, ritrovarsi bloccata con Castle non solo le faceva perdere le staffe, ma la costringeva a scomode considerazioni.
<< Hey, che fai? >>
<< Secondo te? Gioco a monopoli! >> sbottò << Dormo >>
<< Ah, beh allora… no… no! >>
L’Iphone si accese e si spense. Definitivamente.
Castle scosse la testa nell’oscurità, posandole una mano sulla spalla. Beh, in realtà dovette andare a tentoni nel vuoto per trovare quella spalla ma, con un po’ di memoria visiva, riuscì a darle un lieve colpetto << Andiamo! Se ti addormenti io con chi parlo, scusa? >> ed ecco che il “Castle lampadina” era appena tornato alla vocina petulante del “Castle bambino”.
<< Con la tua mente >> rispose << Oppure con uno dei tuoi amici immaginari >>
Sentì un rantolio di protesta. Credette veramente che le avrebbe risposto con un “Ma anche George sta dormendo!” così da farla scoppiare a ridere per una seconda volta.
<< Ma non hai ancora finito di spiegarmi la tua interessantissima teoria sui rapporti interpersonali >>
<< Credo che Nikki Heat abbia già la sua tesi a riguardo >> si avvicinò maggiormente alla parete, meditando sulla sua futura doccia e sulla sua quasi probabile dormita. Castle andava a Duracel, ma era quasi sicura che avrebbe ceduto. Prima o poi.
<< Infatti io conosco molto bene l’opinione della Detective Heat: gliel’ho data io, dopotutto >> disse, ritraendo la mano facendo un cenno per spronarla a parlare << La tua non mi è chiara >>
<< Sarò lietissima di chiarirtela in un altro momento >> .
Beckett era conscia – anche con gli occhi chiusi, con l’oscurità che divorava l’abitacolo – Castle fremeva, pronto a sfociare in un improbabile monologo. Sorrise tra sé e sé, nascosta dal buio << Non è che sei tu quello che ha paura degli spazzi piccoli, bui e silenziosi, Castle? >>
Momento di silenzio.
<< Castle? >> lo chiamò.
Altro momento di silenzio, seguito da un << Io? Buio? >> e una risatina ironica << Scherzi, vero? >>
Lo scrittore si sistemò ancora una volta << Sai, questa situazione mi ricorda due cose >>
<< Me le racconterai anche se mi opporrò, vero? >>
Caste sorrise, ignorandola apertamente  << La prima, sono le serate passate a raccontare storie ad Alexis. Aveva paura del buio, così parlavo finché non si addormentava >>
<< Immagino le tue narrazioni di principesse sanguinarie e principi impauriti >>
<< La seconda è una canzone di cui mi sfugge il titolo >> Beckett riaprì gli occhi: il sonno – nonostante la stanchezza - non voleva arrivare (chissà, forse pure Morfeo si prendeva un fine settimana libero, di quando in quando) e le parole di Castle non erano esattamente utili allo scopo.
Come poteva un ascensore bloccato riportargli alla mente una canzone? A meno che non fosse “Love in an Elevator” degli Aereosmith.
Eppure lo sentì canticchiare note basse e stonate, ripercorrendo la canzone fino ad arrivare al ritornello. Poi si fermò un attimo, di scatto e sentì il suo respiro sul collo << Se ti dicessi che ti amo? >> a quel punto, la Detective benedisse la batteria scarica. Castle era lì, avvicinatosi a velocità abbastanza sorprendente, con quel sorriso – che non poteva vedere, ma su cui avrebbe scommesso – che le rivolgeva tutte le volte che riusciva a metterla in imbarazzo. Aprì la bocca per ribattere, ma non solo non sapeva cosa dire, ma neanche come dirlo.
Se ne esce all’improvviso con cose così
Il cuore di Kate Beckett perse un battito.
… assurde
Con poco successo cercò di appiattirsi contro la parete.
E così…
Eppure lui era lì, di fronte, e aveva l’irrefrenabile voglia di risponderle che, in fondo, lo sapeva.
Potrebbe
Che sperava seriamente che non stesse scherzando.
Forse, anche lei…
<< Il titolo della canzone! >> la sua voce si illuminò, come se cercasse il suo consenso.
Ah, ecco.
<< No, era simile però >> concluse, allontanandosi. Kate Beckett tornò a respirare, desiderando di stendere – senza mezzi termini – lo scrittore a terra e di rompergli qualche arto.
Certo, la canzone.
<< I’m Confessing (That i love you) >> disse infine con un tono vittorioso e pieno di sé.
Ecco, pressappoco, il motivo per cui stava con Josh. Capiva sempre e comunque cosa diceva e, qualunque cosa fosse, aveva un senso compiuto. Non proponeva di accendere un fuoco in ascensore, non la disarmava tentando di ricordare il titolo di una canzone e non proponeva tornei di Risiko al distretto (ottenendo un certo seguito, purtroppo).
<< La verità è che una relazione non deve essere logica >> Kate alzò gli occhi al cielo, parlando in linea con i propri pensieri << Deve solo essere incapace di distruggerti. Stai con una persona per passare del tempo piacevole, non per sentirti confusa come un’adolescente a ogni scambio di battute >>.
In poche parole, non voleva perdere il controllo. Troppo comodo pensò lo scrittore.
Perdere il controllo era una delle cose più umane che si potevano possedere. Era come se si fosse dotati di un meccanismo perfettamente oliato e lucidato: stava lì, svolgeva il suo lavoro impeccabilmente, e un giorno arrivava un agente esterno (o interno, o immaginario) e questa scattava. Iniziava ad andare più veloce, si sfasava e allora, nel momento in cui le rotelle si disgiungevano e la macchina scoppiava, si perdeva il controllo; così si era portati a fare qualcosa fuori dall’ordinario, non sempre a beneficio nostro o altrui.
Anche nei suoi romanzi i personaggi perdevano il controllo, perché a un certo punto serviva una crepa, una rottura, che gli spingesse a fare determinate scelte.
Che fosse la vita reale o un romanzo, quella crepa c’era sempre – in agguato – e aspettava, perché avrebbe avuto la sua ribalta.
Evitarla era inutile.
Castle si rese conto di essere arrivato a quelle incrinatura e di non poterla evitare, sebbene l’aggirasse quasi tutti i giorni nella sua quotidiana caduta nel Baratro Beckett.
<< Dovrei smetterla di precipitare e raggiungere il fondo >> constatò a voce alta.
<< Castle, sei del tutto impazzito oppure inizi a sentire i primi sintomi della stanchezza? >>
Sogghignò << Probabilmente sono passate le due di notte. Non rispondo più di me stesso, dopo quell’ora. Divento iperattivo >>
<< Lo sei sempre >>
<< Per questo ti faccio “sentire confusa come un’adolescente”? >>
<< Più che altro mi fai “sentire arrabbiata” >>
<< Se ti dicessi che ti amo? >> le parole gli uscirono come se le avesse masticate.
<< Sì, lo so >> borbottò << Il titolo della canzone >>
<< No >> scosse la testa << Se ti dicessi che ti amo? >> forse era l’incapacità di vedere la reazione della donna, ma lo scrittore passò i peggiori (e forse migliori) dieci secondi (o erano minuti?) degli ultimi anni (o di sempre? Quand’era l’ultima volta che aveva avuto una sensazione simile?). Se l’avesse avuta di fronte le avrebbe al massimo chiesto di cercare la canzone su Itunes. Invece era lì, nel buio, senza via di fuga (no, non poteva scappare né rimandare) e iniziava a sentire la gola secca. Deglutì, ma la sensazione non si attenuò.
Divenne peggiore istante per istante.
Era ufficiale: aveva fatto una scemenza e aveva trovato il fondo giungendo a faccia a terra.
Poi avvertì un movimento nell’aria circostante, fino a che le man di Beckett non giunsero sul suo volto. Lo tastarono, come per assicurarsi che sì, quello era proprio Richard Castle e nessun altro, per poi mollargli un pesante scappellotto sulla fronte. Seguito da un altro e accompagnato da un probabile “Castle, che stai dicendo?!” che non arrivò.
Sentì invece un sussultò – o meglio, avvertì un sussultò –, che scoprì in seguito essere suo, quando le mani smisero di picchiarlo e gli afferrarono il volto.
Era un bene o un male?
[Rivide tutti quei momenti in cui erano stati così vicini: i silenzi, gli sguardi, i misfatti (reali o meno; gravi o tenui) perdonati; i sorrisi tirati, quelli sinceri. La tensione, l’imbarazzo e quei caffè la mattina. Kate nelle braccia di Josh, di Demming, e il bruciore che ne susseguiva, con cui aveva imparato a convivere. E poi il calore, questa volta non immaginario, mentre gli si avvicinava.


I'm confessin' that I love you.


Si ripeté, inebriato dalla vicinanza. Dal suo profumo (suo e solo suo) che aveva invaso l’aria che respirava. Era così vicina (come in quella caduta, qualche ora prima) e non stava sbraitando, non lo stava minacciando di morte (le mani erano sul suo viso, non sul collo) e tantomeno stava ricreando uno dei loro momenti per declinare la sua… che cosa, esattamente?


Tell me, do you love me too?


Invece si sbagliava. Era proprio uno di quei momenti (senza luce, maledizione; non poteva leggerle lo sguardo, non poteva affondare nel suo baratro) in cui avvertiva solo lei nel raggio di cinquecento metri; uno dei “momenti” prolungato, con quella distanza pericolosa, che avrebbe così tanto voluto annullare. Sarebbe stato uno slancio naturale, privo di ogni forzatura.
Niente fatti nascosti, niente parole accennate, niente gesti incompiuti.
Sentì le sue labbra come avrebbe potuto avvertire un sogno disperso nelle nubi del risveglio.
Astratte. Perdute. Caotiche.
Le sfiorò i capelli, fino ad affondarci la mano (Mano? Come ci era finita lì?) mentre un angolino della sua mente si chiedeva se non si fosse addormentato (In che punto della conversazione? Quando?) e se non si stesse sognando tutto.
Sentì il suo sapore (e l’arancia, quella dei Tic Tac), mentre riacquistava qualcuna delle sue sinapsi, morte a quelle parole a cui sembrava stare avere responso.
Labbra. Calore. Profumo. Sapore. Arancia. Lei.
Se ti dicessi che ti amo?
La luce si accese e si spense. L’ascensore si mosse.
Sorrise, gli occhi chiusi.
L’ascensore si muoveva. Caste trovava il fondo del baratro.
<< Non me lo sono immaginato, vero? >>

Say, can't we still be friends? [Incomprehensible] 

 

Epilogo

Quando la signorina Lou Lindsay, infermiera specializzata addetta al pronto soccorso, percorse i corridoi immacolati del Presbiterian Hospital, Josh pensò che fosse per comunicargli un’emergenza. Capì immediatamente che si sarebbe rivolta a lui: la vide avanzare con lo sguardo un po’ perso, con quel modo tutto suo di chiedersi dove si era cacciato. Lavoravano insieme da cinque anni e il discorso più lungo che avevano avuto era stato limitato a qualche battuta di convenienza.
Quando lo notò le si illuminarono gli occhi, come se avesse appena vinto una caccia al tesoro; però non vi era quella traccia di  quell’allarme che suggeriva l’imminente vita in pericolo.
Poi gli parlò, e ciò che disse gli giunse come nuovo.
Avevano chiamato chiedendo di lui. Espressamente di lui. Era una donna.
E sapeva che c’era un’unica donna nella sua vita a poter chiamare alle quattro di mattina.
<< Josh >> disse, accettando la chiamata sulla linea interna. Sentì l’interlocutrice prendere un paio di respiri << Ciao >> proruppe poi, con quel tono così “da Detective” che non aveva mai sentito prima d’ora. Kate Beckett, dall’altro capo, sorrise, stanca, con le occhiaie sotto gli occhi e Richard Castle che litigava animatamente con la sua caffettiera. << Dobbiamo parlare >>

 

<< Mi hanno raccontato una cosa assurda >> Esposito sorseggiò il suo caffè, poggiato appena alla parete. << Testimone il custode >>
<< Basta con le storie sui morti viventi che si aggirano la notte per il distretto >> Ryan, davanti a lui, sospirò. Accese la macchina per il caffè, che lo salutò con quel suo solito rumore abominevole e stranamente rassicurante. Inserì la cialda e osservò il liquido scorrere.
<< Pare che sabato sera si sia rotto l’impianto elettrico di un ascensore >> continuò l’amico, osservando a sua volta fluido scuro << È rimasto bloccato per alcune ore >>
Ryan non commentò, zuccherando la propria colazione. Portò la scodella alle labbra e la macchina smise di lamentarsi.
<< Sembra che al suo interno ci fossero Castle e Beckett >> il Detective annuì. Ripensò alle sue parole come se stesse focalizzando qualcosa di lontano. Castle e Beckett. In ascensore. Bloccati.
<< Che diamin… ?! >> si voltò verso il collega con aria smarrita.
Esposito fece cenno verso la porta, indicando – più in là – la Detective e lo Scrittore.
<< Secondo te >> domandò << Non vanno un po’ troppo d’accordo? >> 

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Note: E siamo giunti alla fine di questa momentanea follia. Effettivamente sarebbe stata una One-shot davvero lunga (circa 21 pagine). 
Ammetto che sono rimasta le notti di sabato e domenica (e le mie occhiaie lo dimostrano XD) a farmi assurdi complessi su come farlo finire, su quel che avevo scritto, sul come l'avevo scritto e sul perchè mi sembrasse sempre più assurdo. 
Mi sono anche detta che, con tutte le canzoni che ci ho infilato (sì, ma "I confessing (that i love you) la dovevo usare per forza xD), devo aver contratto la sindrome "Glee".
Mi sono anche auto-persa nelle mie stesse parole.
Detto questo (e smesso di ciarlare) devo un ringraziamente speciale a Martina, che mi ha "cullato" e "minacciato" per tutto il corso della storia e che per non farmi censurare l'ultima parte (dal dopo "<< no. Se ti dicessi che ti amo? >>" ) ha minacciato di staccarmi il mio cappello fungoso a morsi. 
Vi ringrazio tutti per essere arrivati fin qui ♥ per aver letto e recensito e per non avermi mandato sonoramente a quel paese (anche se forse lo meritavo).
Vi lascio. Potrei dire che non mi rivedrete più, ma con la mia inclinazione alle flashfic e hai missing moments, non potrei giurarlo.
A presto!

Ps: Per le recensioni, riceverete presto risposta *guarda con astio il libro di algebra e sospira* circa stasera. Chiedo perdono per il ritardo. 
 

   
 
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